La mattina del 31 maggio 1996 Timothy Leary, scrittore, ricercatore, attivista, si svegliò, si guardò intorno, cercò il viso dei propri cari: l’ex moglie Rebecca, il figlio, gli altri che erano attorno al suo letto di morente. Disse Why? e aggiunse Why not? Disse I love you all’amata Rosemary, disse Why?, ancora, ricadde sul letto, disse Beautiful, e morì.
La morte di Leary venne registrata per suo volere: nel suo ultimo anno di vita, da quando aveva scoperto di avere un cancro non curabile, aveva trasformato l’attesa in una festa pubblica, e dunque aveva allestito un sito web invitando il mondo intero a partecipare e a spiare i suoi giorni restanti, e a prendere parte a quella che aveva considerato una festa finale. Diffondeva sorridendo la sua “dieta psichedelica” che lo accompagnava nel conto alla rovescia: una trentina di sigarette al giorno, alcool, biscotti al burro e marijuana, antidolorifici. “I buoni spiriti dell’ ultimo mese si sono allargati”, annotava nel suo diario web quindici giorni prima di morire.
Il video della sua morte venne diffuso con il titolo “Timothy Leary’s Last Trip”. Sette grammi delle sue ceneri vennero spedite nello spazio su un razzo che trasportava i resti di altre 24 persone, tra cui il creatore di Star Trek, Gene Roddenberry.
Trova le differenze, caro lettore, cara lettrice. Quello di Leary è stato un gesto di coerenza con la sua vita di esploratore degli orli e dei limiti, mentali e fisici: la morte come gesto più importante dell’esistenza, diceva, l’uscita di scena come performance suprema.
Ai tempi, molti fecero spallucce e lo bollarono come eccentrico. Ma a pensarci molto bene, oggi avviene la stessa cosa senza che noi, sani e malati o addirittura morenti, ne siamo consapevoli.
Conosco molte delle vostre vite, so se vi siete tagliati con una scatoletta di tonno, se avete impastato tagliatelle, se state guardando una partita di calcio. Se i vostri genitori sono morti, se avete scoperto di essere malati, se combattete la malattia. Se vi è nato un figlio. Se vostra figlia si è laureata. Se il vostro gatto è dal veterinario. Se avete infine scelto i sandali argento al posto di quelli neri. Conosco le vostre vite e in moltissimi casi non vi conosco, eppure so come state, cosa provate, cosa pensate. Spesso mi capita di temere che le nostre esistenze (perché anche voi sapete molto, moltissimo, di me) si stiano finalizzando alla loro rappresentazione.
Ieri pomeriggio ho espresso su Facebook le mie perplessità sulla diffusione della notizia del contagio di Luis Sepùlveda e di sua moglie, anche perché non so, banalmente, se fossero d’accordo. Qualcuno mi ha risposto che ormai tutto è pubblico, che siamo (e lo dimostra il videoreportage di Zoro sul suo ricovero allo Spallanzani in attesa del tampone – negativo) notizia tutti noi, che poco si può cambiare.
Non ne sono certa: ogni cambiamento è possibile laddove ci sia consapevolezza di cosa stiamo facendo. Non stiamo scegliendo come fece Leary, siamo invece scelti in ogni momento della nostra vita. Forse proprio questi sono i giorni in cui dovremmo cominciare a capirlo.
“Smisero di cercare di distruggere tutto, di umiliare tutto. Fusero religione, arte e scienza, perché alla base, la scienza non è che la spiegazione di un miracolo che non riusciamo mai a spiegare e l’arte è un’interpretazione di quel miracolo”. (Ray Bradbury, Cronache marziane).
Togliamo il nome dell’autore dai libri, da questi soffi che entrano nei nostri cuori nella nostra mente, che si posano su tavoli e scaffali. Il Sepulveda che sta con me non è il Sepulveda che hai tu, che hanno gli innumerevoli lettori. Allora quale intimità viene offesa? La mia, la tua? Sepulveda, il Sepulveda non esiste. Critichiamo questo Carnevale della informazione per vivificare i fantasmi, le maschere di un nostro Io proprio quando abbiamo ai nostri occhi la verità del nulla.
Tradotto?