VISTO CHE SI PARLA DI PESTE, QUALCOSA SU COME ARRIVO', E PERCHE'

Siamo un po’ confusi, vero? Giorni di allarmismo seguiti da giorni di rassicurazioni, per il timore dell’economia in picchiata. Qual è la verità? Non lo so, naturalmente: in compenso so qualcosa che viene dal passato.
Quando ho iniziato a studiare le epidemie mi ha colpito una cosa: non arrivavano da sole, o per meglio dire non erano del tutto dovute al caso. Pensate alla peste nera, che dal 1347 al 1351 uccise un terzo della popolazione europea. Venticinque milioni di persone, potete immaginarlo? Ecco, prima delle dodici navi genovesi che da Caffa partirono portando con sé topi e pulci, e poi solcarono i mari cariche di cadaveri e marinai in agonia seminando morte a Messina e poi a Marsiglia, prima di questo ci furono anni di gelate e alluvioni, e dunque di carestia, e prima ancora l’incapacità di capire come gestire il mondo che improvvisamente si era popolato, e le donne figliavano e figliavano ancora, e all’inizio c’era abbondanza e anzi, dicono gli storici, nella seconda metà del Duecento l’Italia era attraversata da un’ardente passione per il lusso. E dunque riducevano i pascoli per lasciar posto alle coltivazioni, perché si desiderava grano, e dunque grano cresceva ovunque. E non importa che le bestie, a quel punto, dormissero e cagassero dentro le città, si mangiava pane di frumento, e farinate, e torte con fichi e prugne e merluzzo, e pane e formaggio, e pane e latte. Ma quando il gelo si abbatté per lunghi inverni sull’Europa, non si trovò più grano, e gli uomini macinavano allora le ghiande, e la loro pelle divenne gialla, e per la fame iniziavano a cadere per le strade, dove morivano.
In questa prostrazione giunse dunque la peste, dormiente nelle dodici navi a cui Genova rifiutò l’attracco, ma che Marsiglia accettò, perché la stiva era piena di grani russi, e insieme al grano la città accolse anche il morbo, per avidità. E giunse, dicono dunque gli storici, perché la mentalità del tempo aveva orrore per le novità: avrebbero potuto rinnovare l’agricoltura, provare a creare mercati diversi, e una diversa economia, e insomma avrebbero potuto aprirsi al mondo. Ma rinnovarsi significava eresia, e l’Italia, e molti paesi dell’Europa, preferirono chiudersi in quel che già conoscevano. Quando si rivolge lo sguardo a se stessi e ai propri simili, basta uno spiraglio a far insinuare il mondo esterno, e quel mondo può ucciderti.
Così avvenne, così cominciò. Gli ascessi all’inguine o alle ascelle, grandi come mele e come uova, la febbre, le macchie nere sulle braccia e sulle cosce, il contagio che soffiava su chiunque abitasse nella casa del malato come il fuoco si appicca alle foglie secche, e uccideva gli animali, anche, o chi per pietà o per stoltezza toccava i panni di chi era colpito. Poi, tutto precipita. Le famiglie si sgretolano, i figli fuggono dalla casa dei genitori appestati, lasciando, se di animo gentile, qualche confetto e una coppa di vino in capo al letto, ma quando quel poco cibo era terminato i morenti strisciavano fino alla finestra chiedendo invano acqua, e pane, e nessuno osava entrare nelle case della peste, e dunque si consumavano, oltre che di febbre, di fame. I morti seppelliti, infine, nelle fosse con poca terra, e più tardi ancora lasciati insepolti.
Gli uomini non cambiano, nonostante il tempo che trascorre. Magari, potremmo imparare, prima o poi.

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