LA PIRAMIDE

Di Erica Jong si parla quasi sempre come fenomeno di costume, facendola rientrare fra le autrici di best-seller “una botta e via” che hanno vissuto il resto della carriera sulla scia del primo grande successo. Nei fatti, Jong è un’autrice che ha continuato ad occuparsi, libro dopo libro, della questione femminile con grande serietà (e ironia). Oggi viene intervistata da Susanna Nirenstein su Repubblica. Ve ne riporto alcuni passi.

Mrs Jong, cosa resta del femminismo? Camille Paglia, che molti accusano di essere un´eccentrica conservatrice ma in realtà ha votato per Obama, dice che è morto e sepolto. E lei?
«No, non sono d´accordo con Camille, non penso sia esaurito. Si muove in modo oscillante, a fasi alterne e ora sta solo dormendo. Le nostre nonne dopo aver ottenuto il diritto di voto pensavano fosse finita lì, ma non era così. Procede a zig zag, direi».
A volte però è andata d´accordo con Camille Paglia. Ad esempio, ce l´avevate tutte e due col politically correct che ha caratterizzato le femministe più radicali.
«Erano ridicole, per andare bene a loro dovevi essere lesbica, non usare il rossetto, considerare uno stupro ogni rapporto con un uomo. Io e Camille, me l´ha detto anche mia figlia, capivamo che era necessario essere possibiliste, cercare alleanze con gli uomini quando era il caso».
E le femministe di destra? Quando guarda Sarah Palin, la vede come un´alleata o una nemica?
«Il suo è un falso femminismo. La Palin vuole mantenere lo status quo, non vuole l´assistenza sanitaria pubblica, né nuove forme di aiuto alle madri. La destra ha prodotto delle donne politiche di spicco, ma gli argomenti “femministi” li usano solo per scalare il potere. Il fenomeno mama-greezy, la potente mamma orso Palin, è solo bullshit, una stronzata».
Un capo di stato come la Merkel, due ministri dell´estero – prima Condoleeza ora la Clinton – in America, molte leader nei consigli di amministrazione e in Italia una presidente alla guida degli industriali. E anche nei new media, con i blog di Arianna Huffington e Tina Brown. Che ne dice, siamo a buon punto?
«No, assolutamente no. Donne nella comunicazione ad esempio ci sono sempre state, ma ancora non intacchiamo la struttura del potere, tant´è vero che non si fanno leggi che aiutino veramente le donne. Ci sono signore in alcuni posti della top ten che fanno rumore, ma la piramide, l´ossatura che decide, non cambia. Arianna e Tina sono ottime, ma la realtà d´oggi è troppo simile al passato».
La liberazione sessuale è stata la sua bandiera, eppure oggi le donne sembrano sì essersi riappropriate del proprio corpo, ma per farne l´esatto contrario di quel che si prevedeva: qualcuno dice che il corpo sembra diventato un´impresa da far fruttare. Se l´aspettava che andasse a finire così?
«E´ deludente, lo so. Anche perché queste ragazze non lo fanno per il loro piacere. Ma come possiamo dar loro torto? Sembrano aver capito che è il potere e non il piacere l´obiettivo da conquistare. Potremmo scorgerci l´implicita critica a una società che non dà nessun valore all´amore».
Le donne oltre i 50 o i 60 vengono messe da parte sia nella vita privata che pubblica, sostituite da ragazze attraenti. I loro compagni sopra i 60 si alleano col Viagra. Come si può reagire?
«È vero, molte donne adulte sentono di non aver più un posto nella società. Ma tuttavia alcune sono contente di chiudere con gli uomini e di dedicarsi a se stesse».
Qual è il romanzo da scrivere oggi, un libro come Paura di volare, pensato per migliorare la qualità della vita delle donne?
«Sto cercando di scriverlo. La protagonista vuole tornare a essere giovane, ma scopre che è impossibile».

64 pensieri su “LA PIRAMIDE

  1. “E poi a Manuela e Andrea che indicano nel mancato riconoscimento del gongedo per maternità nelle borse di studio, la scarsa presenza delle donne ai “piani alti” della scienza”.
    ecco, così è più chiaro, scusate se ho saltato un passaggio, ma scrivo di fretta.
    barbara si difende da sola, ma dire che un casalingo/a necessita di un mantenimento mi sembra una verità oggettiva ed è meglio che quel mantenimento se lo procuri da solo/a piuttosto che dipendere da altri.
    Poi certo ognuno nella vita fa le sue scelte e ne paga il prezzo.

  2. “ma alle donne, la gran parte delle garanzie, dei diritti e del riconoscimento non vengono quasi mai accordati se non a prezzi che personalmente non sono disposta a pagare. ” donatella
    Ok però non siamo più nel Medioevo, per quanto brutta possa sembrarci quest’epoca (ogni epoca sembra la peggiore per chi la vive) e non è che restando in casa a servire il maritino le cose cambiano, se ti accorgi che sul lavoro i tuoi diritti sono calpestati protesta e se ti cacciano continua a protestare organizzati con colleghe e colleghe (qualcuno solidale con te lo troverai), manifesta, contatta i sindacati (spero che contino ancora qualcosa in questo Paese!) insomma “rompi le palle” nel senso migliore del termine.

  3. “..restando a casa a servire il maritino”??? @Paolo1984: mi sembra che tu abbia una visione un po’ manichea del mondo femminile, con da una parte la donna moderna, economicamente indipendente, attiva e pronta a lottare per i suoi diritti, e dall’altra il vecchio “angelo del focolare”, la schiava sottomessa dell’uomo. Non credi che in un’epoca non poi così medievale (come dici tu), e persino in un paese ancora sessista e schiacciato su vecchi stereotipi come l’Italia, possano esistere diverse sfumature? Mi sembra che tu confonda un dato di fatto oggettivo e indubbiamente importante (quello dell’autonomia economica o meno) con un tuo personale profilo psicologico della casalinga, decisamente negativo. E che tu tenda, forse senza rendertene conto, a stabilire il valore (intellettuale, morale) di una persona esclusivamente in funzione della sua capacità di creare profitto. Il fatto che una donna (o un uomo, perché no?) non svolga un lavoro retribuito fuori di casa non implica di per sé che i suoi orizzonti debbano finire addosso alle pareti domestiche; non significa che quella stessa persona non possa coltivare interessi culturali, essere attiva politicamente, avere una vita sociale ricca e costruttiva (teoricamente, anzi, il tempo non dedicato a un lavoro stipendiato potrebbe lasciarle più tempo per altre cose). E non capisco perché dici che una donna che si sente discriminata o trattata ingiustamente sul lavoro dovrebbe organizzarsi e protestare (giusto, sacrosantissimo!), ma non sembri nemmeno prendere in considerazione l’idea che anche all’interno dell'”azienda famiglia” (se vogliamo vederla così) una donna possa rivendicare e ridiscutere diritti, ruoli e compiti, e contribuire anche da quella posizione all’evoluzione paritaria che tu stesso ripetutamente auspichi.
    @ Barbara: scusa il ritardo, ma devo tornare su di qualche decina di commenti… Scrivi: “Lavare e stirare sono un’afflizione – almeno per me – e qualunque stiratrice professionista lo fa meglio.” D’accordissimo sull’afflizione: noi personalmente in famiglia non stiriamo nulla, visto che non riteniamo di averne bisogno (i nostri lavori fortunatamente non ci impongono nessun dress code), e in generale tendiamo a ridurre le corvée domestiche al minimo indispensabile per la salute e l’igiene. Quanto alla stiratrice professionista, non so esattamente cosa volessi dire parlandone, ma credo esista un rischio nel pensare che l’emancipazione della donna possa passare da lì: uscire di casa per andare a lavorare e guadagnare, affidando le mansioni domestiche a un’altra persona (che nel 99,99% dei casi sarà un’altra donna). In questo modo si hanno, sì, due donne emancipate economicamente, ma generalmente si perpetra anche lo squilibrio tra chi può permettersi, magari, un mestiere creativo e interessante e chi passerà la vita a lavare e stirare – squilibrio che inevitabilmente è anche uno squilibrio a livello di retribuzione. Quando poi questo discorso si applica alla cura dei figli, può diventare particolarmente doloroso: quante donne (in Italia soprattutto straniere) passano giorni e anni a occuparsi dei figli degli altri, affidando a loro volta i propri bambini a qualcun altro (lo spiegava bene Barbara Ehrenreich in “Donne globali”)?
    Certo, capisco che a queste mie considerazioni può facilmente essere data una torsione conservatrice per cui: la donna dentro casa sua, a occuparsi a tempo pieno di figli e faccende domestiche. No, ovviamente no. Nel “mondo perfetto” che non esiste, ma a cui dobbiamo pur guardare per ispirarci, di figli e casa ci si occupa in due (o in tre, o in quattro, o in venti se si hanno parenti disponibili e/o spirito comunitario). Su questo mi sembra che, in teoria, siamo tutti d’accordo.
    Per finire: riguardo allo “stipendio delle casalinghe” (o dei casalinghi), mi sembra che nessun adulto single abbia mai rivendicato una paga dallo stato per il fatto di lavarsi i propri vestiti o cucinarsi da solo la pastasciutta. Ma come dici tu stessa, Barbara, “la maternità è altra partita”. In altri paesi europei uno “stipendio” esiste (ancora) in forma di sussidi alle famiglie in funzione del numero di figli, e la cosa non credo sia considerata ridicola.
    (Un’ultima noticina autobiografica, giusto per collocarmi: io ho due figli piccoli, lavoro online da casa part-time, e da noi chi cucina e fa la spesa generalmente non sono io, è il mio compagno. Che ha anche lui un lavoro flessibile e part-time. Fortunelli fortunelli…) Ciao a tutt*

  4. Daniela, abbi pazienza, ma “trappolone” non mi sembra proprio una parola aggressiva. Sì penso che restare a casa invece di lavorare – anche un lavoro brutto e non creativo – sia una trappola che sul lungo periodo si rivela mortale. Mi spiace che Vincent non apprezzi l’uso della parola mantenuta, che non contiene alcun giudizio di valore né dei rapporti tra chi guadagna e chi no. Si può mantenere un altro con molto amore e avere due stipendi e molto disprezzo.
    Per quanto riguarda l’aiuto alle famiglie con figli credo siamo tutti d’accordo. Il sostegno – chiaro stiamo parlando di altri paesi – si può erogare in molti modi e io diffido di quelle modalità che tengono le donne a casa. @ Ilaria per stiratrice professionista intendevo una persona che lavora in una tintoria e stira. Ultimo, la donna che sta in casa a badare i figli e alla casa è un’invenzione abbastanza recente, che proiettiamo nel passato. Su questo esistono tomi e studi, che certo pensiero della differenza tende a ignorare.

  5. Scusate mi è partito l’invio troppo presto. A titolo personale non valuto le persone per il reddito che producono o per il mestiere che fanno. Tuttavia il denaro non è che ti qualifica socialmente, ti permette di svolgere le attività di cui parla Ilaria. Il cinema non è gratis, non lo sono i libri e dischi. Il collegamento alla rete ha un costo così come il telefono. Ora questi bene materiali o immateriali o sei in grado di pagarteli con il tuo stipendio o con quello del tuo partner o della tua famiglia di origine. Al momento terze vie non ce ne sono.

  6. @ Barbara (purtroppo molto in fretta). Io credo che, idealmente, il sostegno migliore sia quello che, riconoscendo il valore sociale della “cura”, consente alle donne e agli uomini una certa libertà di scegliere – se lavorare o restare a casa a occuparsi dei figli (piccoli), e per quanto tempo farlo. Anch’io personalmente non penso sia sano né desiderabile passare la vita a occuparsi di faccende domestiche e figli (alla lunga non lo è né per noi né per loro), ma so che non tutti i genitori, anche avendone la possibilità (asili nido ecc.), sono felici di lasciare i figli di pochi mesi per molte ore al giorno, cosa che spesso il lavoro fuori casa impone (se non per legge, almeno per necessità di carriera).
    Secondo: è vero che “la donna che sta in casa a badare i figli e alla casa è un’invenzione abbastanza recente”, ma non perché in tempi passati se ne occupassero di più gli uomini, o perché nel Settecento francese esistesse una fitta rete di asili nido. Semplicemente, le strutture familiari e abitative e le modalità di lavoro erano molto diverse e consentivano generalmente una cura più diffusa, affidata a più fratelli, parenti e vicini (qualcuno qui ne ha già parlato). Oppure esisteva già il modello della madre colta e benestante che affidava i figli a un’altra donna (con meno possibilità di sviluppo individuale e culturale, ovviamente).
    Terzo e ultimo: è vero che la cultura spesso si deve “comprare”, ma non sempre e non esclusivamente. Esistono le biblioteche (per quanto disastrate come sappiamo), esiste la condivisione, esistono e si dovrebbero creare sempre più punti di incontro e di scambio di idee. (O magari, si può pensare di comprarsi un libro di seconda mano risparmiando sulla tintoria?)
    Un’ultima cosa: non sono Ilaria… ciao, scusa ancora la fretta!

  7. Vedo che con i nomi si fa confusione, Barbara, per cui sarà meglio esprimersi senza dare troppa importanza anche ai toni, già che ci siamo. Del resto non credo che l’obiettivo principale di un blog sia quello di creare dinamiche tra i partecipanti, anche se succede, ma non lo ritengo importante tanto quanto sviluppare i temi. Dispiace, è ovvio, sentirsi fraintesi ma si può superare.
    Quando si parla di violenza economica contro le donne, in genere, ci si riferisce alla sottrazione di beni e denaro già posseduti dalle donne stesse perché accumulati tramite il lavoro retribuito o per eredità. Non si considera il patrimonio economico che le donne che lavorano esclusivamente in casa contribuiscono a determinare attraverso la possibilità, per chi si reca fuori di casa a lavorare, di produrre reddito. Ciò corrisponde raramente al riconoscimento economico di tale lavoro anche in seno ad un contesto familiare ed è anche questo a fare sì che, nel caso di scioglimento del nucleo, le donne si ritrovano redditi insufficienti, se non mortificanti come le pensioni di reversibilità e simili (pochi!). Sto dicendo che non si riesce a svincolare la produzione di reddito (che infatti viene qui insistemente chiamato profitto, non a caso!)dal lavoro che effettivamente viene svolto dai componenti di una famiglia perché si considera degno del nome lavoro solo quello che produce direttamente denaro. Il lavoro femminile in casa produce denaro, in molti modi, produce economia. Anche una figlia o un figlio che svolge compiti di cura produce economia e non solo perché consente, ad esempio, di non ricorrere ad altri aiuti, ma perché partecipa produttivimente all’andamento familiare.

  8. @donatella. Cosa intendi per “riconoscimento economico”, esattamente? (lo chiedo senza alcuna polemica, solo per capire come dovrebbe tradursi in pratica) Non so quanto sia corretto dire che è il lavoro delal donna in casa che rende possibile la produzione di reddito del marito: se entrambi i coniugi scegliessero di lavorare e condividere – nel possibile – i compiti di cura, magari delegandone una parte a una persona pagata, entrambi diventerebbero produttori di reddito. Naturalmente, ci sono casi in cui nessuno dei due può produrre reddito perché nessuno dei due trova lavoro. Ma lì entrano in campo altri fattori e problemi, ceh esulano dal discorso che stiamo facendo.

  9. Intanto scuse a tutti per i nomi sbagliati -) La pensione di reversibilità è calcolata in base ai contributi versati dal coniuge defunto e non al contributo che ha dato il sopravvissuto all’economia familiare. Mi piacerebbe – e dipende dalla gentilissima e paziente padrona di casa – vedere se il dibattito è abbastanza interessante da essere approfondito. Per quanto mi riguarda mi fermo qui. Grazie per le informazioni che non avrei avuto senza questa discussione.

  10. Infatti, Barbara, le pensioni di reversibilità non possono bastare alle donne, per questo credo necessario un riconoscimento del lavoro di cura e non la sua continua e preoccupante rimozione.
    Diana, non ti preoccupare, ho già detto cosa penso di eventuali equivoci quindi stiamo al tema. Credo che una risposta la puoi trovare anche nei post di Manuela quando parla della società perfetta. Che non abbiamo ma che dovremmo tentare di costruire e confrontarci ne è solo l’inizio.
    E comunque. Il lavoro di cura ha un valore di mercato che se viene svolto da una colf o una badante o altre/i, viene remunerato, mentre se viene svolto dai componenti di una famiglia no e ciò ha conseguenze materiali autoevidenti. Se in ragione del lavoro che io svolgo in casa, il mio partner può esserne sgravato e procacciare reddito, io col mio lavoro in casa, partecipo, anche se indirettamente, ma concretamente alla formazione di quel reddito. Davvero credo sia necessario uno sforzo per distinguere il lavoro che si fa in casa dalla connotazione di naturalità. Cosa c’è di naturale nello svolgere compiti lavorativi? Perché non si riesce a capire che quel lavoro è fatto di milioni di gesti concreti e materiali, che quel tempo che si impiega è tempo a tutti gli effetti e che questa società si comporta male a considerarlo implicito ai doveri di mutualità? Che quei compiti vengono svolti perché c’è qualcuno competente a farli? E perché solo alle donne viene riconosciuta e solo in apparenza, quella competenza mai tradotta in valore economico?
    Spero di averti risposto, Diana. E qui si aprirebbero altri interrogativi sulle ragioni per cui il lavoro svalutato è esattamente quello che viene svolto dal soggetto più socialmente svalutato in un intreccio che in Italia sembra non avere fine, mentre in altri paesi è stato egregiamente risolto e da tempo.

  11. Devo rispondere anche a Barbara, anche se preferisco non scrivere solo a Barbara, perché non sono qui per contrappormi a nessuno. Soprattutto sono qui con dei testi, non come persona, anche se quei testi riflettono pensieri che partecipano a una discussione con tutta la correttezza etica possibile, e chiaramente anche con tutti i limiti della soggettività che li esprime, in quel dato momento, in relazione al discorso nel quale sente di voler entrare. I nomi sono importanti, però, in quanto riflettono la responsabilità che ci si prende per le proprie parole, e i miei testi portano sempre lo stesso nome e solo quello, da una parte e dall’altra dello schermo.
    Detto questo, non vorrei entrare nel personale, anche perché l’intento con cui ho cominciato a partecipare era semmai di ampliare la questione. Però è vero che non possiamo tralasciare le condizioni materiali e le esperienze personali. Tanto per chiarire da che punto parto io, sono una che ha reagito male alla lettura di testi che parlano di donne che si annoiano in ufficio, che preferirebbero fare la spesa e cucinare. Io non mi sono mai annoiata nel mio lavoro, semmai posso funzionare in un ruolo di cura solo se ho anche un lavoro, e mi preoccupano i femminismi (che ci sono) che rischiano di ridurre a un inno alla “casalinga” (lo metto apposta tra virgolette) la differenza. E quando cito le donne che devono scegliere tra lavoro e figli, penso anche al fatto terribile che poi spesso si hanno i figli e non ci sono i soldi, ma non c’è il lavoro né come possibilità in termini di tempo (non ci sono asili, il nido costa, magari non c’è una famiglia di supporto), né come posto di lavoro disponibile. Quando cito certi testi o sottolineo l’importanza di uscire dagli stereotipi non lo faccio con l’intenzione di portare avanti una crociata in favore di una categoria. Se la coperta è corta per tutti, insomma, l’idea è che forse dovremmo cominciare a tesserne una diversa, più ampia e più calda. Ma nel frattempo capisco benissimo le obiezioni di Barbara.
    Non so se il testo che riporto risponde almeno in parte, lo spero. Mi piace proprio per l’accenno finale a non dimenticare le condizioni materiali di ognuno/a di noi. Segnalo anche il link dell’articolo. Ce ne sono tanti, credo che la riflessione su questo argomento, nella sua accezione più ampia, sia al centro del dibattito femminista.
    “L’aspetto che può risultare politicamente interessante e da approfondire, per il femminismo contemporaneo, mi pare essere il collegamento che può essere immaginato tra lavoro cognitivo desalarizzato e lavoro di cura oggi salarizzato attraverso il ricorso ad assistenti domiciliari e badanti. In un certo senso il lavoro domestico può cominciare a esistere davvero come oggetto di studio perché ha superato l’internità alla famiglia. Mentre, d’altro lato, andrebbe ridefinito complessivamente il concetto di lavoro, poiché la mobilitazione di empatia e affetto, la produzione di informazione e la trasmissione di esperienza, la mercificazione della cultura e del corpo non sono altro che il risultato richiesto dalla totalità del modo di produzione biocapitalistico contemporaneo.
    La faccenda, certamente, non si esaurisce in una breve descrizione, anzi. Il collante fondamentale va ricercato sempre nelle condizioni materiali che ciascuno affronta. Assumere consapevolezza dei meccanismi che ci governano è un primo passo per imparare a mettere, come ha fatto Cappuccetto Rosso, delle pietre al posto nostro nella pancia del lupo.”
    http://www.zeroviolenzadonne.it/index.php?option=com_content&view=article&id=8782:ti-chiedo-lanima-in-cambio-meno-diritti-una-vita-per-il-lavoro&catid=34&Itemid=54
    Vorrei scrivere di più, e spero di riuscire a farlo, perché tanto è stato scritto che merita dialogo. Ma ora devo studiare, scrivere, preparare il pranzo, poi andare a prendere due dei miei tre figli, portarle a fare le loro attività pomeridiane, in modo che possano crescere colte, formate, e, spero, avere un lavoro e una famiglia, e contribuire a pagare le pensioni delle generazioni più anziane. Sto cambiando lavoro, per questo studio e faccio tirocinio. Sto cercando di ritagliarmene uno che mi permetta di conciliare tante cose, nel frattempo il mio compagno “mantiene” la famiglia, senza farmi sentire (e senza che io mi senta) una mantenuta, perché non lo sono. Io farei lo stesso per lui. Credo che dobbiamo evitare il disprezzo per le scelte altrui, c’è molta sofferenza e difficoltà per tutti/e in questo momento. All’incontro milanese del gruppo Di Nuovo c’era anche Susanna Camusso, che si è espressa con chiarezza sulla necessità di proporre una organizzazione diversa del lavoro, come di avere una rappresentanza forte (50%, ha detto chiaramente) per dire la nostra, di donne, su che tipo di società vogliamo. E non sarà certo una visione unica, ma sarà diversa da quella in cui ci troviamo, almeno spero.
    Vedo solo ora Diana e mi scuso con tutti/e se ignoro qualcosa. Il dibattito è interessante e importante, come lo sono i commenti, per me. Il problema di chi non trova lavoro è drammatico, a mio avviso.

  12. X frau Dinosauro: chi non lavora (e mi ci metto anch’io) dipende economicamente dai genitori (nel mio caso) o dal coniuge ed è terribile specie se i due si separano, lei magari è in età avanzata non riesce a trovare un lavoro economicamente adeguato perchè ha sempre fatto la casalinga, l’ex marito è incazzato perchè gli tocca mantenerla, insomma si viene a creare una tensione che l’indipendenza economica femminile potrebbe evitare magari potrebbe crearne altre (ma se stai con un uomo intelligente lui sarà felice che lavori e ti mantieni da sola), ma insomma a me preme ribadire che è importantissimo potersi mantenersi col proprio lavoro.
    e comunque ho già detto che il lavoro di cura della casa e dei figli andrebbe il più possibile condiviso fra i coniugi quini ben venga ridiscutere i ruoli all’interno del nucleo familiare. Tanto è vero che io nei “ruoli” tradizionali della famiglia intesi come gabbie da cui non si deve uscire. non ci ho mai creduto. Anzi a dire il vero non credo troppo nemmeno nella famiglia come istituzione ma sarebbe un discorso troppo lungo.

  13. Paolo1984: se non lavori perché studi dipendi economicamente dai tuoi, ma il diritto familiare e la Cassazione sono a tuo favore. Non avete proprio idea di cosa significa “dipendenza” e scrivete senza cognizione di causa. Siete fortunati perché usate la parola dipendenza appunto o la parola “mantenuta/o! senza nessuna lacerazione.

  14. So benissimo che la legge è a mio favore e me ne rallegro (ed è a favore anche del coniuge economicamente più debole e penso sia giusto così), ma i miei non vivranno per sempre e l’indipendenza economica sarà per me (spero il più tardi possibile) una stringente necessità oltre che un diritto.
    E poi ribadisco che mantenersi con il proprio lavoro mi pare una condizione generalmente preferibile al suo contrario (non posso usare il termine “mantenuto/a” ma non mi viene in mente altro) non foss’altro che per orgoglio personale e rispetto di sè (ma non è solo questo).
    Ciò detto, ognuno nella vita fa le sue scelte e ne è responsabile.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Torna in alto