In testa c’è il delitto di Perugia, a seguire quello di Garlasco. Staccato di qualche punto, quello di Tommaso Onofri. La classifica del sangue nei telegiornali italiani viene resa nota da Demos e Osservatorio di Pavia. Nel primo semestre 2010, la cronaca nera occupa l’11% delle notizie date dal Tg1. “Uno spazio maggiore rispetto a quello riservato allo stesso tipo di notizie dagli altri principali notiziari (pubblici) europei. In dettaglio: l’8% la BBC, il 4% TVE (Spagna) e France 2, il 2% ARD (Germania). Va precisato, per chiarezza, che il tasso di crimini in Italia non è superiore a quello degli altri Paesi europei considerati”.
Commenta Ilvo Diamanti su Repubblica:
“…c’è un legame stretto, in Italia, tra la percezione sociale e la rappresentazione mediale. Occorre, peraltro, evitare di ricondurre alla politica la responsabilità intera – comunque, prevalente – di questa tendenza. La politica, sicuramente, c’entra, visto l’intreccio inestricabile che la lega ai media e soprattutto alla televisione, pubblica e privata. (E l’enfasi sulla criminalità aiuta, certamente, a contenere la crescente preoccupazione sollevata da altri problemi. Per primo: la disoccupazione).
Tuttavia, vi sono altre importanti ragioni dietro all’irresistibile attrazione esercitata dai fatti criminali nella società italiana.
In primo luogo: le logiche “autonome” che regolano la comunicazione. In particolare, la televisione. Che, in Italia, affronta questa materia in modo diverso rispetto agli altri Paesi europei. Basta vedere la densità e la frequenza di questi avvenimenti. In Italia, i fatti criminali occupano uno spazio quotidiano sui telegiornali. Anzi, ogni giorno, in ogni edizione, vengono loro dedicate numerose notizie. Nulla di simile a quanto si osserva nelle altre principali reti europee. Le quali, peraltro, affrontano questi eventi in modo “puntuale” e “contestuale”. E, dove è possibile, li tematizzano. In altri termini: l’informazione televisiva, nelle altre reti europee, è limitata, nel tempo, all’evento e ai suoi effetti. Inoltre, se possibile e utile, diviene occasione per affrontare problemi sociali più ampi. L’integrazione degli stranieri, la violenza nelle scuole, l’intolleranza interreligiosa. In Italia ciò avviene raramente. Soprattutto nel caso degli immigrati o di altri gruppi marginali, come i Rom. Con l’effetto (non involontario) di confermare il pregiudizio nei loro confronti. Invece, la regola, nella comunicazione e nei media italiani, è la “serializzazione”. Oltre alla “drammatizzazione”.
I crimini, cioè, non solo hanno uno spazio quotidiano, ma vengono trattati – e sceneggiati – come fiction. Da un lato, i “serial tematici” associano delitti e violenze simili: per ambiente, responsabilità, reato. Così, periodicamente, assistiamo a sciami di stupri, cani assassini, chirurghi criminali. Che all’improvviso, come sono arrivati, scompaiono. D’altro canto, e soprattutto, l’Italia è il Paese dei “grandi casi criminali” che non finiscono mai. Seguiti dai media che indagano, celebrano e riaprono i processi, sentenziano. Durano anni e anni. Dal 2005 ad oggi, i 7 telegiornali nazionali, in prima serata, hanno dedicato: 941 notizie al delitto di Meredith Kercher Perugia, 759 a quello di Garlasco, 538 all’omicidio del piccolo Tommaso Onofri, 499 alla strage di Erba. Avvenuti 3-4 anni fa. E, ancora, 508 notizie all’omicidio di Cogne, che risale a dicembre 2002.
Otto anni dopo, nel primo semestre del 2010, i telegiornali di prima serata gli hanno dedicato oltre 20 notizie. Si tratta di casi accomunati da alcuni elementi. Maturano in contesti familiari. Figli che uccidono i genitori. E viceversa. Oppure: si verificano nell’ambito del vicinato (come a Erba), delle relazioni amicali e di coppia (come a Garlasco), tra giovani. In ambiente universitario (Perugia). Insomma: si tratta di “casi comuni”. Che ci coinvolgono tutti. Come se i fatti avvenuti potessero capitare anche a noi. O, comunque, a persone amiche e conosciute. È il voyeurismo che contrassegna una società locale e localista. Questo Paese di paesi e di compaesani (come lo definisce Paolo Segatti), dove la tv contribuisce a perpetuare l’immagine della “comunità”. D’altronde, questi eventi tracimano oltre i telegiornali. Invadono i programmi di infotainment. I contenitori pomeridiani. I salotti di tarda serata. Primo – e più importante – “Porta a Porta”. Dove Bruno Vespa allestisce, periodicamente, la sua corte, affollata di avvocati, criminologi, psicologi, psichiatri, vittime, parenti delle vittime e, talora, (presunti) assassini. Questa attrazione per il “crimine” costituisce, appunto, uno specifico italiano. Una “passione” che ha radici lontane: nella letteratura, nel teatro, nel cinema. (A cui, non per caso, l’Università Sorbonne Nouvelle – Paris 3, la prossima settimana, dedicherà un seminario).
Il “fatto criminale”, in Italia, sui media non è guardato come “esemplare” rispetto ai problemi della società e delle istituzioni. Ma come “caso in sé”. “Singolare”. Il che ci fa sentire coinvolti eppure distaccati. Noi: detective, magistrati, giurati. E, in fondo, vittime e assassini. Ciò spiega lo spazio dedicato in tivù alle grandi tragedie quotidiane e ai delitti di ogni giorno. Ma anche il successo di pubblico che ottengono. Perché generano angoscia ma, al tempo stesso, rassicurano. Ci sfiorano: ma toccano gli “altri”. È come sporgersi sull’orlo del precipizio e ritrarsi all’ultimo momento. Per reazione. Si prova senso di vertigine. Angoscia. Ma anche sollievo. E un sottile piacere”.
Leggendo i giornali o seguendo i telegiornali, mi ripeto spesso: “Ricordati che qui finisce SOLO il peggio di quanto accade. Il meglio non fa notizia”, per non cadere nello sconforto.
Concordo in pieno o quasi. La drammatizzazione che diventa fiction che diventa irrealtà. Questo è un paese fermo e passivo e la TV fa da madre “maligna”.
Però.
Ho letto che Porta a Porta nella puntata su Sarah Scazzi, noi che siamo dalla parte delle bambine, ha registrato un ascolto “formidabile”. C’è sì un sottile piacere e una rassicurazione di fondo, ma, lo so, sono noioso e ripetitivo, ma questo è in paese che non legge. Chi conosce Ilvo Diamanti e quanti Vespa e tutta la tv del dolore?
Poi l’ignoranza è proterva e io non vedo spiragli. Il sottile piacere resta e le parole al vento della nostra sempre “accesa” (anche quando non lo è ) televisione.
La questione di serial tematici di notizie su certi crimini mi ha sempre innervosito. Appena ci si accorge che una notizia, un crimine “passa” meglio di un altro, subito ecco che giornali e telegiornali vanno a scovare frotte di crimini o pseudocrimini simili a quello in testa alle classifiche di gradimento. Il che dovrebbe dire molto delle strategie di comunicazione delle redazioni delle varie testate giornalistiche e far riflettere su come molte altre notizie evidentemente non vengono date solo perché in quel momento non sono di moda (o tantomeno “utili”). Dopo una primavera-estate dedicata a malasanità ostetrico-ginecologica, per la stagione autunno inverno 2010 si prevede un grande ritorno degli stupri in famiglia. In attesa che le rapine in villa commesse da criminali con accento dell’est ricompaiano sotto natale. Bah
L’articolo mi piace molto specie dopo che ieri il telegiornale mi ha propinato le persone che andavano in gita a vedere il luogo dove è stata lasciata Sara Scazzi. Era interessante la critica sottile del telegiornale a un fenomeno prodotto dallo stesso telegiornale.
Si pone però un interessante cortocircuito sulla variabile femminicidio, in base agli stessi dati forniti da Damianti. Non so ci voglio pensare un po’.
Consiglio di guardare/ascoltare l’intervento di Ilvo Diamanti all’ultima edizione del Festival della Mente di Sarzana: “Sicuri di essere insicuri. E viceversa” (http://www.festivaldellamente.it/eventi_dettaglio.asp?id=261)
A lato, ma non troppo. Parlavo giusto ieri in treno con un mio amico che fa un lavoro interessantissimo importantissimo (ma frustrante, perché lotta contro giganti) all’Agenzia Regionale di Protezione Ambientale – si occupa di divulgazione di tematiche ambientali.
Oltre a lamentarsi del budget che i suoi competitors possono mettere in campo per DISinformare, diceva che l’unica informazione ‘verde’ che vale la pena fare è quella che dà ai cittadini la possibilità di scegliere e di agire (differenzio, leggo le etichette dei prodotti ecc ecc ecc). Sennò si ottiene l’effetto boomerang “ma allora, io che ci posso fare?” e gli auspicabili cambiamenti non cominceranno mai.
Col crimine il discorso è un filo più delicato, ma non ci vorrebbe troppo a immaginare “sceneggiaure” e dramatis prsonae diversi per raccontare quel che accade. E invece siamo fermi a prima del melodramma…
Concordo al punto che, prima di leggere questo articolo, avevo scritto questa mattina sul mio blog (http://lospiteinquietante.blogspot.com) un commento per esprimere la mia indignazione e il mio fastidio verso questo tipo di informazione (ma è giusto continuare a chiamarla informazione? o dovremmo chiamarla in altro modo?).
Leggo su http://www.carmillaonline.com/ che non sono più i tempi di Vermicino, che la Sciarelli non ha raggiunto i 4 milioni di spettatori. Mi sembrano pretesti. Perché ora tutto si spalma in 500 canali, poi c’è Mediaset. In buona sostanza ai quei tempi c’erano solo due canali. Poi allora nessuno dava un’opinione qualunque per una sorta di “io-io-io che so tutto” come accade oggi. Non farei paragoni azzardati: ora ci lasciamo andare ad una emotività regressiva e bipolari, alcuni, a sprazzi di bieco cinismo. L’unica cosa che accomuna gli eventi è questa voglia di pena di morte. I “mostri” vanno uccisi. La solita solfa che mi trova non in disaccordo. Di più.
No, l’articolo non mi piace. Al di là dell’ovvia riprovazione per lo spettacolo dell’orrore e del dolore, quando tenta una diagnosi lo fa in modo surrettizio e semplicistico, spacciando quello che non piace a lui come la causa dei mali del mondo.
“È il voyeurismo che contrassegna una società locale e localista. Questo Paese di paesi e di compaesani (…), dove la tv contribuisce a perpetuare l’immagine della “comunità”.”
Poi prosegue, toccando un punto che in effetti è fondamentale (tutta l’antropologia di Renè Girard sta lì a dimostrarlo), cioè il rito sacrificale che questi spettacoli implicano. Ma ancora una volta, anzichè riflettere sulla mimesi infernale che la televisione in quanto mezzo ha reso possibile, si butta a pesce sulla denigrazione dello strapaese.
“Il “fatto criminale”, in Italia, sui media non è guardato come “esemplare” rispetto ai problemi della società e delle istituzioni. Ma come “caso in sé”. “Singolare”. Il che ci fa sentire coinvolti eppure distaccati. Noi: detective, magistrati, giurati. E, in fondo, vittime e assassini.”
Quando si esce dalla cronaca o dalla sociologia puramente quantitativa e si pretende di affondare la lama nel fenomeno antropologico, bisognerebbe avere ben altri strumenti che il globalismo d’accatto e la solita esterofilia.
Un’unica considerazione, su un pezzo molto interessante. Si dice che i media italiani quando raccontano un crimine non lo usano per esplorare un contesto, non lo tematizzano, ma lo trattano come un caso in se’ e/o una fiction. Verissimo. Però mi pare che simile trattamento sia riservato in generale a qualsiasi notizia, anche quelle di politica. Il modo in cui si racconta la vicenda dei militari morti in Afghanistan è uguale. Largo spazio alla commozione i nostri ragazzi etc etc ma non molto si dice su cosa succede in Afghanistan come e perchè dei militari italiani sono lì e così via
Insomma la mancanza di approfondimento dei nostri media non si limita alla cronaca nera, ma dilaga a tutti i campi forse con la possibile eccezione del calcio…
L’articolo non mi è dispiaciuto del tutto, ma mi trovo d’accordo con l’insoddisfazione di Valter Binaghi. Sembra anche a me che la constatazione e la spiegazione restino confinate a un terreno conosciuto, non si spingano fin dove sarebbe necessario, auspicabile.
Cerco di spiegarmi. Quello che noto in questi giorni è che perfino la Chiesa si è per una volta accorta di quello che i media stanno facendo, la stessa Chiesa che sugli stereotipi che cancellano quotidianamente le donne come soggetti, producendo e rinforzando la convinzione che il loro “no” non abbia valore, non ha trovato finora molto da ridire (non a caso, probabilmente). Penso allora che sia importante analizzare e criticare il modo in cui le notizie vengono trattate, se non si tralascia di indagare più a fondo cosa questo trattamento produce, domandandosi, ad esempio, se c’è un’affinità tra gli stereotipi che passano anche (proprio) attraverso la spiegazione, la narrazione e la passione morbosa per il dettaglio degli innumerevoli programmi, e i miti e gli stereotipi che alimentano quotidianamente la violenza di stupratori, pedofili e assassini. Purtroppo non ho guardato a sufficienza certi programmi (tra mancanza di tempo e mancanza di “stomaco”), ma ho colto, a titolo di esempio, un paio di particolari: il modo in cui è stata data inizialmente la notizia dei soldi che lo zio dava a Sarah, che a un certo punto ho visto con orrore messa in relazione alle molestie, mi pare sul Corriere online, nel resoconto di una delle dichiarazioni dello zio; e le domande sullo sguardo della madre che venivano fatte ieri sera su Rete 4, per indagare se veramente dietro quello sguardo ci fosse amore, ci fosse il sentimento che ci si aspetta da una madre. Ma credo che se ne potrebbero citare molti altri. A me sembra che il trattamento abbia due effetti: insinuare spesso dubbi sulla vittima e la sua famiglia e depistare dall’indagine più approfondita sulle ragioni, il contesto, di certi crimini.
Mi lascia insoddisfatta insomma la “risposta” di Diamanti alla domanda sulla strana correlazione tra il trattamento spropositato quantitativamente e qualitativamente e il numero di crimini non diverso da quello di altri paesi europei. Mentre mi domando cosa succede se il trattamento mediatico particolare lo mettiamo in relazione ad altri dati, come la situazione delle donne in Italia (vittime di molti di questi delitti), con i dati sul (non) lavoro delle donne, con quelli sulla loro (non) rappresentanza politica.
Chiedo scusa, il commento sopra è mio, mi è partito l’invio prima che potessi mettere il mio nome.
la fobofagia impera(urgono alleggerimenti,poichè gli spettri praticano il mirroring)
http://buymixtapes.com/upload/flamplayer_main/flamplayer78/mp3/12%20B%20O%20B%20Ft%20%20Bruno%20Mars-Nothin%20On%20You.mp3
Credo ci sia una labile relazione tra la rappresentazione del femminile nei media e gli stupri e le molestie. Esattamente la stessa che passa tra il modello della donna magra e l’anoressia. Non nego – e non ho gli strumenti per farlo – che ce ne siano ma mi pare che si tenda a produrre un rapporto causa-effetto troppo diretto. Per quanto riguarda il caso in oggetto, mi lascia agghiacciata che una adolescente non abbia avuto alcun adulto cui chiedere aiuto.
“È il voyeurismo che contrassegna una società locale e localista”
E’ anche questo, ma dietro c’è anche il sistema della paura per tener “sedate”, tranquille le persone con il timore che il “male” può colpire chiunque: un metodo di controllo.
L’informazione è importante, ma a ogni notizia deve essere dato il giusto peso, non devono essere strumentalizzate, utilizzate per coprire altri fatti o diventare ossessive, perché altrimenti rischia di diventare pornografia: un voler esporre, mettere a nudo senza ritegno.
Ciò che è più preoccupante delle notizie che passano nei tg, sono gli speciali che seguono a ogni caso efferato.
@Binaghi: sono d’accordo con te in linea di massima, ma Ilvo Diamanti è un “intellettuale” che lascia sempre il “segno”, anche quando sembra vergognarsi di essere italiano.
Non ha nulla a che fare tutto questo caravanserraglio di criminalità, seriale,
pulp, placebo e redentivo – con l’infezione NEROREALISTA della editoria e dei banchi librari? Dal realismo (verismo, in country!) al neorealismo, alla sagra nerorealista: una piaga che non si chiuderà mai nel canone paesano.
Tutta la ricerca e la sperimentazione del Novecento buttata nel cesso!
quant’è brutta la parola “d’accatto”. forse in passato l’ho detta anch’io. giuro che non lo farò mai più.
Eh, già, come non dirsi che quello è un mostro, che “io no”? E invece forse il tratto agghiacciante che si perde è che io sì, anzi, tutti noi sì