LA QUINTESSENZA DI UNA MADRE

C’è un vecchio racconto di David Leavitt, contenuto nella raccolta che gli diede il successo (Ballo di famiglia), che si chiama Territorio, e che è pieno di amore e sgomento verso la madre del protagonista, che somiglia molto alla madre reale di Leavitt, quasi onnipresente nella prima parte della sua produzione letteraria. In Territorio abbiamo dunque la madre delle madri: quella che cucina torte e biscotti e che, quando il figlio le confessa di essere omosessuale, si iscrive immediatamente all’associazione genitori di figli gay, e diviene attivista instancabile. Una madre onnipresente e dunque, anche, terribile, che non può che suscitare, insieme all’amore e al rimpianto, il desiderio di fuga. Perché questa “quintessenza di una madre” non può che schiacciarti.
Ecco, da ultimo ho la sensazione che la quintessenzità si stia ingigantendo, e che quello che ho osservato negli ultimi quindici anni (il tempo della scolarizzazione dei miei figli, grossomodo) stia raggiungendo l’apice. Attorno a me continuo a vedere madri, soprattutto, divorate dall’ansia di fare dei propri bambini e poi giovani donne e giovani uomini non persone felici, ma persone vincenti.
Ieri mi è capitato di raccontare a un’amica del lavoro in gelateria che mia figlia ha iniziato. Alla parola “lavoro” si è illuminata, alla parola “gelateria” ha detto “ah”, piegando verso il basso gli angoli della bocca. Ho fatto un velocissimo ripasso mentale dei miei primi lavori (battere a macchina in uno studio di commercialista, disegnare plinti per un costruttore edile sono i due più improbabili che mi vengono in mente) e ho subito rivisto i sorrisi dei miei genitori: sorrisi felici per me, per la mia autonomia, per il mattone, magari piccolo, che posavo per edificare la mia storia, qualunque fosse.
E allora mi è tornato in mente, oltre al racconto di Leavitt, il molto citato e molto giustamente amato romanzo di Marco Franzoso, Il bambino indaco, la creatura soprannaturale, il messia salvifico che parla con gli angeli e viene quasi ucciso (nel libro, fisicamente e non metaforicamente) dalla madre. Eccoli, i figli indaco:  sorridono, in ogni loro istante di vita, dalle bacheche di Facebook, mentre dormono nel lettino, mangiano il gelato, ridono, piangono. Le loro prime parole vengono postate, in 140 caratteri, su Twitter. I figli sono ovunque e devono avere tutto: non solo giocattoli e abiti e occhiali da sole e il primo ebook autopubblicato, ma una vita privata di inciampi, centrata sulla riuscita e il successo .
Eppure, non è affatto vero che i bambini indaco, vezzeggiati e monitorati e allevati nel migliore dei modi, incontrino la felicità una volta cresciuti. Nell’autunno del 2011 la psicoterapeuta americana Lori Gottlieb scrive per  The Atlantic Magazine un articolo pieno di dubbi. Racconta di aver avuto pazienti con genitori meravigliosi, partecipi, accudenti, “genitori che scarrozzavano in macchina loro e i loro amici, che ogni sera li aiutavano a fare i compiti e intervenivano se a scuola un bulletto li infastidiva o qualcuno non li invitava al suo compleanno, che li avevano mandati a ripetizioni quando avevano avuto problemi in matematica, e a scuola di musica quando avevano manifestato un interesse per la chitarra (permettendogli tranquillamente di abbandonarla quando quell’interesse era venuto meno), e che quando i figli contravvenivano alle regole preferivano confrontarsi serenamente anziché punirli (con le “logiche conseguenze” a fare puntualmente le veci del castigo). Insomma, genitori costantemente “sintonizzati” – come amiamo dire noi psicoterapeuti – che si erano premurati di guidare i miei pazienti attraverso tutte le sofferenze e le tribolazioni dell’infanzia”.
Genitori che vogliono sentirsi perfetti perché temono che qualcuno li giudichi inadeguati. Perché questa è l’epoca in cui la maternità e la paternità sono una performance sociale e anche mediatica, e non solo l’esperienza di educare al mondo un altro essere. Eppure, si chiede  Lori Gottlieb,  “è possibile che proteggere i propri figli dall’infelicità quando sono bambini li privi poi della felicità da adulti? Secondo Paul Bohn, uno psichiatra della Ucla che ha tenuto una conferenza presso la mia clinica, la risposta potrebbe essere sì. Basandosi sulla sua esperienza professionale, Bohn ritiene che molti genitori siano disposti a tutto pur di evitare ai figli ogni minima esperienza di disagio, ansia o delusione, con il risultato che questi, una volta adulti e alle prese con le normali frustrazioni della vita, si convincono che ci sia qualcosa di terribilmente sbagliato”, e mancano di quella che lo psicologo Dan Kindlon definisce mancanza di “immunità psicologica”.
Immunità psicologica significa uscire dal Palazzo di Siddharta, magari un po’ alla volta. Significa che quando un compagno di giochi ti dà una spinta farà la pace dopo cinque minuti, a patto che i tuoi genitori non abbiano trascinato quelli di lui davanti al Tribunale dei Minori. Significa che i desideri possono, a volte, essere frustrati. Che tua madre può essere lontana o distratta anche se tu non vorresti, ma ti vuole bene lo stesso. Che puoi arrivare ultimo in una gara sportiva, e anche prendere qualche pessimo voto. Che, insomma, tu sei una creatura magnifica per i tuoi genitori: ma vivi in una comunità, e non necessariamente calpestare quelli che sono intorno a te ti renderà felice. Come dice Gottlieb, “l’investimento eccessivo sui figli sta contribuendo al fiorire di un narcisismo generazionale che li danneggia”.
E che, credo, danneggia tutti. Forse, prima ancora di interrogarsi sugli zoo materni (coccodrilli, conigli, liocorni e compagnia bella), bisognerebbe interrogarsi su questo.

11 pensieri su “LA QUINTESSENZA DI UNA MADRE

  1. In questi giorni riflettevo proprio sul ruolo di madre e, come spesso mi capita, a quanto mi senta imperfetta e inadeguata rispetto alle madri che tu descrivi.
    Ho una normalissima figlia adolescente che non è un fenomeno a scuola e che cerca un lavoro estivo come cameriera, per guadagnare due soldini… eppure, a me pare sia giusto cosi. Quando faccio affermazioni come “i voti sono voti, non valutazioni sulla persona. Sono voti relativi a un compito e basta. Il valore dei figli si misura su altro”, le altre mamme, anche mie amiche, mi guardano quasi con compassione: figli con voti mai sotto all’8 e primi in qualsiasi sport pratichino.
    La risposta successiva, di solito, è: “certo, tu non hai mica il tempo di pensare a tutte queste cose”, con un tono di commiserazione. Ovviamente famiglie mulino bianco, loro non lavorano per scelta, o lavorano part-time, o lavorano per hobby e i mariti sono sempre encomiabili.
    Io sono sola, lavoro per forza, perché mi serve per vivere e perché questo è l’unico lavoro che ho trovato quando l’azienda dove lavoravo è fallita. Ma ho sempre lavorato per scelta, perché si, il lavoro ti da la possibilità di mantenerti, ma anche di essere dignitosa, indipendente e libera. Però, è vero, porta via tempo alla famiglia ed ai figli….
    Il tuo post di oggi, con cui concordo sinceramente, è anche, per me, una pacca sulla spalla, un abbraccio, un sollievo.
    Grazie

  2. Non potrei essere più in sintonia con questo post.
    Anche per noi adulti vale che se non si fa spazio anche alle emozioni negative non siamo in grado di provare con intensità quelle positive. Figuriamoci per i bambini.
    Cresceranno più sani, più forti credo se anche ieri mattina non ho potuto andare alla festa a scuola perché non potevo prendere permesso a lavoro, se non li ho iscritti al corso di inglese e se talvolta il pomeriggio si annoiano.
    Ho passato estati intere ad annoiarmi con mio fratello e sono state le più formative della mia vita. Mi spaventano le situazioni in cui tutto è organizzato: i compleanni con l’animazione, i campi solari in cui non si lascia mai spazio al gioco libero. Mi spaventano i genitori che intervengono dopo un secondo che il loro bambino ha preso una spinta da un altro.
    Mi spaventano soprattutto i bambini perfezionisti, perché immagino siano ansiosi, insicuri e forse infelici.

  3. Anch’io sono perfettamente d’accordo con il post, e la cosa che mi spaventa di più è il fatto che pure persone che ritengo intelligenti , sensibili e colte cadano nella trappola del ” se non va al corso di piscina non imparerà mai a nuotare” (pensiero lecito per chi abita in montagna o in zone appenniniche, un po’ meno se si ha la casa al mare…), “se non va al corso di vela, basket, scherma,cibernetica, ugro-finnico e mazzafionda -ovviamente in contemporanea- crescerà sfigato o asociale, e se comunque non sa l’inglese non potrà emigrare all’estero, tanto cosa vuoi che resti a fare in Italia, il cameriere?”o “il mio a un anno sa già leggere, scrivere, far di conto e stampare in 3D il suo giocattolo preferito”. Esagero, ma neanche tanto. Il risultato sono nonni-taxi, genitori manager e bimbi che non sanno più di esserlo…

  4. @ ste, non so se conosci il concetto di “madre sufficientemente buona” del grande psicoanalista inglese Donald Winnicott, se non lo conosci credo ti farà piacere leggerne e forse ti farà sentire meno inadeguata. (Ad esempio viene spiegato brevemente qui, http://www.elencopsicologi.it/articoli/articolo.asp?articolo=7 ma lo trovi ovunque su internet.)
    Il link che ho messo (è una psicologa che parla) prosegue così:
    “Del resto, è proprio di questo genitore sufficientemente buono che il bambino ha bisogno per imparare a gestirsi autonomamente. Il compito materno (e quello paterno, aggiungerei senza dubbio) è anche e soprattutto quello di supportare l’afflato spontaneo e progressivo che ha il bambino verso l’autonomia e l’indipendenza. Per fare ciò, è necessario che noi tutti si impari anche a lasciare che il nostro bambino faccia esperienza della frustrazione, perché proprio le piccole frustrazioni quotidiane sono necessarie alla sua crescita, poiché lo spingono a cercare altro. Imparando che la madre o il padre non possono essere sempre disponibili per lui, scontrandosi con i bisogni e i desideri di altre persone diverse da lui, accettando di doversi relazionare con qualcosa d’altro rispetto a sé, il bambino diverrà gradualmente pronto ad affrontare l’esterno, verso il quale abbiamo il dovere, io credo, di insegnarli ad avere un’intelligente fiducia.
    Il compito difficile cui siamo noi tutti chiamati in questo senso è quello di spronare con tranquillità i nostri figli ad uscire dal nostro abbraccio, fornendo però un porto sicuro, sufficientemente buono, dove poter tornare ogni qual volta lo desiderino e ne abbiano bisogno. “

  5. Credo d’essere d’accordo con te. Essere madre non dovrebbe mai essere scopo su un’investimento filiale al di là dell’orgoglio se lo di vede crescere sano di corpo e aperto di mente, curioso di realizzare se stesso nelle prove che gli di presentano ogni giorno, non barando con se stesso ma continuando a “cercarsi” al di là d’ogni paura o aspettative che non sente di corrispondervi, l’onestà che su uno sforzo continuo diventa prassi comportamentale, l’uso dei vari talenti lottando affinchè siano riconosciuti, partecipare ai “giochi” politici o “scegliere” di uscire senza per questo chiudersi in una torre d’avorio. Ma per sentire questo serve anche un coraggio “consapevole” deciso a restare dietro il sipario e forse anche sparire dalla scena. Mirka

  6. diciamo che il considerare i figli un’investimento per le proprie compensazioni è un fenomeno antico, basta considerare Bellissima di Visconti e “Prigioniero della paura” con Anthony Perkins. Solo che adesso è diventato endemico(da non confondersi con endemol, anche se, anche se ora che ci penso….)

  7. Sono una nonna e sono d’accordo con quanto detto nel post di Loredana Lipperini. Grazie Loredana perché ancora una volta hai evidenziato, con la tua sensibilità, un problema molto importante.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Torna in alto