Poco fa ho letto una lunga e interessante discussione su La ragazza della porta accanto, romanzo che nel 1989 consacra lo scrittore Jack Ketchum, scomparso quest’anno, e ispirato a una terribile storia vera, quella di Sylvia Likens, che probabilmente, senza Ketchum, molti di noi non conoscerebbero affatto. Nella discussione, si definiva atroce il romanzo di Ketchum proprio perché il punto di partenza era reale. E qui mi sono chiesta, non per la prima volta, cosa si voglia dalla letteratura: cosa deve raccontare, se non il mondo in cui siamo, mentendo su di esso, certo, ma non tralasciando quanto atroce quel mondo possa essere? La condanna che colpì American Psycho, altro romanzo spietato e duro e violento, tralasciava la violenza degli anni Ottanta, così perbene, così elegante, che Ellis raccontava. Non la vedeva. L’elenco delle marche di abiti e di cibi squisiti era, invece, assai più barbaro delle torture inflitte dal protagonista. Dunque, vien detto, se il romanzo racconta una storia vera, e quella storia è orribile, non può essere un buon romanzo. In questo modo, però, faremmo fuori non solo tre quarti della storia della letteratura, bensì della storia stessa.
Ma dal momento che c’è chi di Ketchum ha scritto meglio di me, pubblico qui l’intervento di Stephen King, contenuto nell’edizione italiana uscita, molto tempo fa, per la benemerita Gargoyle.
Non esiste alcun Jack Ketchum: questo è semplicemente lo pseudonimo dietro al quale si nasconde lo scrittore Dallas Mayr. Sicuramente non è cosa che mi permetterei di rivelare qualora fosse un segreto ben custodito, ma di fatto non lo è: il nome di Dallas Mayr appare in chiaro nella pagina dei crediti in tutti i romanzi di Ketchum (sette od otto dei quali già pubblicati negli Stati Uniti) e, se gli chiedeste un autografo, notereste come lui sia incline a scrivere “Dallas” anche se probabilmente, nel caso del libro che avete fra le mani, preferirebbe firmarsi “Jack Ketchum”. Non mi è mai sembrato infatti che “Jack Ketchum” sia uno di quei nomi d’arte buttati lì a caso, mi è sempre sembrato piuttosto un nom de guerre… e di quelli che calzano a pennello.
Del resto Jack Ketch in Inghilterra, fin a quando ci sono state le impiccagioni, è stato per generazioni il soprannome del boia e, nei romanzi del suo quasi omonimo americano, non sopravvive mai nessuno: la botola si apre sempre, il cappio si stringe inesorabilmente, e perfino a qualche innocente può capitare di morire impiccato. “Le uniche due cose sicure nella vita sono la morte e le tasse” afferma un vecchio adagio, ma ne potrei aggiungere una terza: “la Disney non produrrà mai un film tratto da un libro di Jack Ketchum”. Nel mondo di Ketchum, gli gnomi sono cannibali, i lupi non rimangono mai a corto di fiato, e la principessina buona finisce sempre in un rifugio antiatomico, legata mani e piedi a una trave mentre una pazza indemoniata si diverte a liquefarle il clitoride con un ferro da stiro rovente.
Mi è già capitato brevemente di scrivere qualcosa a proposito di Ketchum, e in quell’occasione ho raccontato come sia diventato un autore di culto tra i lettori di genere, e una specie di eroe per noi che scriviamo storie di terrore e suspense. E ciò è vero ora come allora. Ketchum è lo scrittore che maggiormente può venire assimilato a un Clive Barker americano, dico davvero… sebbene il paragone lo riguardi soprattutto in termini di sensibilità piuttosto che di tipo di storie, dato che in realtà Ketchum scrive raramente – per non dire mai – di soprannaturale. Ma non è questo il punto. Il punto e che non esiste scrittore che, dopo aver letto Ketchum, possa evitare di restarne influenzato, così come non c’è lettore, anche non necessariamente appassionato di genere, che dopo essersi imbattuto in un suo lavoro possa facilmente dimenticarsene. Ketchum è diventato un archetipo. Lo è diventato sin dal suo primo romanzo, Fuori Stagione (una storia che può ricordare il film La notte dei morti viventi), e si è confermato tale fino a La ragazza della porta accanto, il quale ne ha probabilmente segnato la consacrazione.
L’autore al quale somiglia di più, per quanto mi riguarda, è Jim Thompson, il mitico maestro del sadico degli anni Quaranta e Cinquanta. Al pari di Thompson, l’intera produzione letteraria di Ketchum è stata pubblicata in edizione economica (almeno nel suo paese natale; mentre in Inghilterra una o due volte è assurto agli onori della versione rilegata); non ha neppure sfiorato la lista Top 10 dei best-seller; non è mai stato recensito al di là dei magazine specializzati quali Cemetery Dance e Fangoria (dai quali non viene quasi mai compreso a fondo); ed è quasi del tutto sconosciuto al pubblico dei lettori generalisti. Come Thompson, Ketchum è un autore estremamente interessante, feroce e a volte brillante, che possiede un grande talento e un modo di vedere le cose oscuro e disperato. Scrive in una maniera alla quale i suoi colleghi più conosciuti non si riescono nemmeno ad avvicinare, e mi viene da pensare a svariati autori quali William Kennedy, E.L. Doctorow e Norman Mailer. Infatti, tra tutti gli scrittori americani contemporanei, l’unico sul quale posso dirmi assolutamente sicuro circa il fatto che scriva storie migliori e più importanti di quelle di Ketchum è Cormac McCarthy. Si tratta di un encomio piuttosto impegnativo, se rivolto a uno scrittore di romanzi tascabili, ma non sto affatto esagerando. Che vi piaccia o no è la verità. Jack Ketchum è davvero un grande. E, vi ricorderete, lo stesso Cormac McCarthy è stato un autore oscuro e perennemente in bolletta fino a quando non ha pubblicato Cavalli selvaggi, una storia di cowboy abbastanza diversa dai suoi precedenti lavori.
A differenza di McCarthy, Ketchum non è molto interessato a usare un linguaggio lirico e compatto. Il suo è uno stile lineare e piatto, come succedeva a Jim Thompson, attraversato qua e là da un ruscello di prosa frastagliata e rischiarato da un umorismo semiisterico – mi viene in mente Eddie, il ragazzino matto de La ragazza della porta accanto, che cammina per strada “nudo fino alla vita e con un serpente nero vivo tra i denti”. Quanto basta per capire che ciò che Ketchum scrive non è humor bensì horror proprio come Jim Thompson prima di lui (prendete Rischiose abitudini o L’assassino che è in me, per esempio, due libri che si potrebbe quasi sostenere scritti da Ketchum), è affascinato dall’orrore esistenziale che è proprio della vita vera, di un mondo nel quale una ragazzina può venire spietatamente torturata non da un’unica donna psicopatica, ma da un intero vicinato; un mondo dove l’eroe arriva troppo tardi, troppo debole e troppo in conflitto con se stesso per poter fare la differenza.
La ragazza della porta accanto è un romanzo di sole 267 pagine, ma si configura comunque come un’opera ambiziosa e con un obiettivo rilevante. E ciò non mi sorprende poi tanto dal momento che, a differenza della poesia, il romanzo di suspense è stata la forma di espressione artistica più prolifica nell’America del post Vietnam (e dalle nostre parti quelli non sono stati dei begli anni, artisticamente parlando: noi nati tra il 1945 e il 1965 abbiamo espresso la nostra vena artistica in maniera non migliore di come abbiamo manifestato l’atteggiamento politico o di come abbiamo vissuto la nostra vita sessuale). Probabilmente è più facile fare della buona arte quando non c’è così tanta gente che non vede l’ora di criticarla, ed è stato proprio ciò che è successo al thriller americano sin dai tempi di McTeague di Frank Norris, un altro libro che potrebbe essere stato scritto da Ketchum (sebbene quest’ultimo ci avrebbe risparmiato un bel po’ di chiacchiere stucchevoli e lo avrebbe scritto molto più breve… lo avrebbe scritto in 267 pagine, tanto per dire). La ragazza della porta accanto (il titolo stesso evoca sentimentalismo adolescenziale, passeggiate al crepuscolo, balli di fine anno nella palestra della scuola) inizia secondo stereotipi decisamente anni Cinquanta. Il narratore è un ragazzino come sempre avviene in questo tipo di storie (pensate a Il giovane Holden, a A Separate Peace, o al mio stesso racconto Stand by Me), e la storia comincia magnificamente (dopo un capitolo che è in realtà soltanto un prologo) in pieno stile Hucklberry Finn: un adolescente dalle gote abbronzate se ne sta bocconi su una roccia lungo un fiume a godersi il sole estivo, tirando su qualche pesciolino con l’aiuto di una lattina di fagioli legata a uno spago. Ed ecco che gli viene a fare compagnia Meg, una quattordicenne carina con una deliziosa frangetta e ovviamente -appena arrivata in città. Lei e sua sorella più piccola, Susan, abitano con Ruth, una mamma single impegnata a crescere ben tre ragazzini. Uno di questi è il migliore amico del giovane David (naturalmente), e il branco di adolescenti è solito passare serate su serate davanti alla Tv nel salotto di Ruth Chandler, a guardare telefilm come Father Knows Best e film western tipo Cheyenne. Ketchum evoca gli anni Cinquanta con precisione e dettagli azzeccati: la musica, il provincialismo delle aree suburbane, le paure simboleggiate dal rifugio antiatomico ricavato nel seminterrato dei Chandler. Poi prende questi stupidi luoghi comuni da quattro soldi per il bordo e li rovescia come un calzino con una facilità che lascia senza fiato. Per cominciare, il padre del giovane David è un donnaiolo compulsivo il cui matrimonio è appeso a un filo, e David ne è al corrente “… poco prima che venisse allo scoperto quella che immagino fosse l’ultima delle tante relazioni di mio padre”, dice a un certo punto. “Aveva molte occasioni, e le coglieva tutte” Come una frustata di sottile ironia, ecco che siete già andati avanti nella lettura quando vi accorgete che vi brucia ancora un po’. Meg e Susan sono finite a casa dei Chandler in seguito a un incidente stradale (qualcuno un giorno dovrà decidersi a condurre uno studio sull’onnipresente “Signor Incidente Stradale” e sull’impatto che ha avuto sulla letteratura americana). All’inizio sembrano andare d’amore e d’accordo con i figli di Ruth – Woofer, Donny, Willy Jr – e anche con la stessa Ruth, il tipo di donna molto tranquilla che racconta un sacco di storie, fuma molto e, nell’aprire il frigorifero, non disdegna di offrire una birra ai ragazzi, a condizione che non lo vadano a raccontare ai loro genitori. Ketchum intesse dei dialoghi fantastici, e imprime a Ruth una voce stupenda, che a un orecchio musicale suonerebbe severa e un tantinello stridente. “Imparate questa lezione, ragazzi. Ricordate, è importante”, se ne esce a un certo punto. “Tutto quelle che dovete fare è essere sempre gentili con le donne, e loro faranno per voi qualsiasi cosa. Ora, Davy è stato carino con Meg e lei gli ha disegnato un quadro… con le ragazze è tutto molto semplice…promettete loro la minima sciocchezza, e vedrete che la metà delle volte otterrete in cambio qualunque cosa vogliate”.
Il perfetto ambiente terapeutico e la perfetta figura adulta autoritaria per un paio di ragazzine traumatizzate, penserete voi… se non fosse che qui siamo di fronte a Jack Ketchum, e Jack non cade in questo genere di banalità. Non lo ha mai fatto e probabilmente non lo farà mai. Ruth, con quell’aria da allegra, cinica e pimpante cameriera dal cuore d’oro, sta andando fuori di senno, sprofondando in un inferno di violenza e di paranoia. Ruth è un “cattivo” spregevole e, per quanto possa sembrare strano, anche molto volgare. Non ci viene mai detto nel corso del libro cosa ci sia in lei che non va; e non è un caso che la parolina magica che ascoltiamo ogni volta che i ragazzini passano del tempo a casa di Ruth sia Non ditelo a nessuno. Quest’espressione potrebbe racchiudere in sé gli interi anni Cinquanta, e in questo romanzo sembra apprezzata da tutti, fino a quando non diventa troppo tardi per scongiurare l’inevitabile finale. A ben vedere, Ketchum presta più attenzione ai ragazzini che a Ruth – non solo ai figli della donna e a David – ma anche a tutti gli altri che fanno avanti e indietro dal seminterrato dei Chandler mentre Meg viene torturata spietatamente. Ketchum è interessato a Eddie, a Denise, a Tony, a Kenny, a Glen, a tutto questo gruppetto di ragazzini degli anni Cinquanta insomma, con i capelli tagliati a spazzola e le ginocchia piene di croste provocate dalle interminabili partite a baseball. Alcuni, tipo David, non se ne stanno semplicemente a guardare. Altri finiscono con il partecipare attivamente, fino al punto di collaborare nel cucire le parole IO SCOPO. SCOPATEMI sul ventre di Meg con aghi arroventati. Salgono… scendono… guardano la Tv… bevono CocaCola e trangugiano panini al burro d’arachidi… e nessuno ne parla. A nessuno viene in mente di fermare ciò che sta accadendo giù nel rifugio antiatomico. È uno scenario da incubo, dove Happy Days si incrocia con Arancia meccanica, dove The many loves of Dobie Gillis si fonde con Il collezionista.
Funziona non tanto per la perfetta inclinazione suburbana che Ketchum conferisce all’ambientazione, quanto perché siamo portati a credere, contro la nostra volontà, che con la giusta miscela di ragazzini alienati, la supervisione adulta su quell’orrore e, soprattutto, l’atmosfera improntata sul fatti-gli-affari-tuoi, tutto questo sia possibile. Dopo tutto erano i tempi in cui una donna di nome Kitty Genovese venne accoltellata a morte in un vicolo di New York e lasciata lì ad agonizzare per alcune ore. Urlò ripetutamente per chiedere aiuto, e un sacco di gente vide cosa stava succedendo, eppure nessuno alzò un dito per soccorrerla. Non chiamarono nemmeno la polizia. Non ditelo a nessuno deve essere stato il loro motto… e passare da il Non ditelo a nessuno a Forza, diamo una mano può essere molto facile…
David, il narratore, è l’unico personaggio del libro a essere fondamentalmente dotato di moralità e, in quanto tale, pensa di fare cosa giusta nell’addossarsi la colpa del sacrificio finale che ha luogo nel seminterrato di Ruth Chandler. La moralità, tuttavia, importa delle responsabilità e David, se inteso come l’unico in grado di percepire quanto sta avvenendo in termini di puro orrore, ne esce addirittura più colpevole rispetto agli altri, che invece di moralità sono privi e che bruciano, mutilano e stuprano la ragazza della porta accanto. David a dire il vero non prende parte ad alcuna di queste barbarie, ma neanche racconta ai suoi genitori quanto sta succedendo nella casa dei Chandler, né avverte la polizia. C’è un lato di lui che vuole essere parte di tutto quello. Avvertiamo un senso di soddisfazione quando alla fine David prende un’iniziativa – l’unico, freddo raggio di sole che Ketchum ci concede – ma allo stesso modo lo odiamo per non averlo fatto prima.
Se fosse soltanto odio quello che suscita in noi questo narratore così atipico, La ragazza della porta accanto cadrebbe dalla sottile fune di moralità sulla quale cammina, come American Psycho di Bret Easton Ellis. Ma David è forse il personaggio meglio riuscito di Ketchum, che dista miglia dai porno-schizzati di Ellis, e la sua complessità conferisce a questo libro una risonanza che non sempre si riscontra nelle altre sue opere. David ci fa pena, comprendiamo la sua iniziale riluttanza a denunciare pubblicamente Ruth Chandler, la quale tratta i ragazzini come uomini invece che come dei rompiscatole perennemente in mezzo ai piedi, e capiamo anche alla fine la sua incapacità, che risulterà fatale, a rendersi conto di quanto stia effettivamente succedendo. “Qualche volta era invece più simile a quei film degli anni Sessanta”, dice David a un certo punto, “perlopiù pellicole straniere, in cui la sensazione predominante è quella di vivere in una dimensione ipnotica e affascinante, in un’illusione oscura fatta di milioni di sfumature di significato che alla fine risultano del tutto inconsistenti, dove attori col cerone in faccia attraversano passivamente paesaggi surreali e grotteschi, privi di emozioni, alla deriva’.
Per me, La ragazza della porta accanto è un romanzo splendido perché, in conclusione, ho accettato David come parte valida della mia visione del mondo, un po’ come mi era successo con il personaggio di Lou Ford, lo sceriffo psicotico che ride, picchia e uccide in L’assassino che è in me di Jim Thompson. Ed è questo a renderlo così terribile. Jack Ketchum è un autore brillantemente viscerale con il cui lugubre modo di percepire la natura umana possono competere forse solamente Frank Norris e Malcolm Lowry.
Ketchum è stato presentato ai suoi lettori come fine realizzatore di avvincenti romanzi di suspense (l’edizione tascabile della Warner de La ragazza della porta accanto recava sulla copertina una scheletrica ragazza pon-pon, un’immagine che non c’entra assolutamente un accidenti, tanto da farlo sembrare più tipo un gotico di V.C. Andrews o un teenage horror di ambientazione studentesca di R.L. Stine). Ketchum crea effettivamente suspense, i suoi libri sono estremamente intriganti, ma la copertina e la presentazione dell’opera in generale sviano completamente il pubblico dall’effettiva natura del testo, più o meno come è successo per l’opera di Jim Thompson. La ragazza della porta accanto è permeato di una vitalità che i libri di V.C. Andrews non hanno mai avuto, e che la maggior parte della letteratura popolare non è mai arrivata a ottenere: è un romanzo che non si limita a promettere terrore al lettore, glielo consegna dritto a domicilio. Ma ripeto, è un thriller penetrante, non ho alcun dubbio al riguardo.
Gli argomenti toccati da Ketchum non hanno ambizioni trascendentali, ma sono decisamente concreti, e a ogni modo non interferiscono con il principale compito che l’autore si assume, che è attirare totalmente l’attenzione del lettore attraverso qualsiasi mezzo, lecito o meno che esso sia. E tra questi mezzi non ci risparmia colpi bassi… che si sentono tutti, ragazzi! La ragazza della porta accanto è distante miglia dallo stupido e sdolcinato Slow dance in cedar bend di Robert J. Waller o da quell’innocua buffonata de L’uomo della pioggia di Grisham, e questo forse è il motivo per il quale Ketchum non suona noto a coloro i cui limiti di lettura non si avventurano oltre la lista dei best-seller del New York Times. Nonostante questo, sono dell’idea che senza di lui l’esperienza letteraria di tutti noi risulterebbe impoverita. Ketchum è un iconoclasta autentico, veramente un grande scrittore, uno dei pochi a non sedere nel “salotto buono” di quelli che contano. Pensate che i libri di Jim Thompson hanno continuato a essere pubblicati e a venir letti anche dopo che molti degli autori appartenenti al suddetto “salotto buono” hanno cessato di essere stampati e sono caduti nel dimenticatoio. E quasi sicuramente la stessa cosa accadrà con Jack Ketchum… solo che nel suo caso mi piacerebbe che succedesse prima che muoia, a differenza di quanto accaduto con Thompson. Un libro come questo, che attrarrà sicuramente attenzioni e commenti, rappresenta un buon passo in tale direzione.
Bangor, Maine 24 giugno 1995
Certamente non si può negare che King scrive delle gran belle recensioni.
Caro Steve, ho letto con attenzione la tua rece perchè il mio unico neurone che funziona tra l’altro a scartamento ridotto ti preferisce in cose come On Writing e meno in quei romanzi lunghi oltre le 267 paginette e ti dico che Easton Ellis, a mio sindacabilissimo avviso, non poteva fare del suo yuppie schizzato ed assassino un personaggio tridimensionale perché il principale e tridimensionale personaggio del romanzo American Psyco è il decennio noto come gli Anni di Plastica ( e secondo Altan di rifiuti organici biodegradabili ndr ). Mi hai incuriosito con il tuo avvicinare questo scrittore che non conoscevo a Jim Thompson e Cormac McCarthy e probabilmente ne leggerei volentieri qualche romanzo se avessi 20 anni di meno perché ora non reggo roba più violenta dei cartoni di Gumball che guarda il mio cucciolo. Ti lascio con una perla di saggezza di una banalità sconcertante: il pubblico mainstream ( presente ! ) accetta, apprezza e schiaffa su di un piedistallo opere che rileggano un tempo ed una generazione con accenti critici e dissacratori solo quando non sente alcun punto di contatto con quel tempo e quella generazione. Fino a quel momento può salire sulla sua De Lorean taroccata e tornare indietro ne tempo solo se è sicuro di atterrare negli Happy Days. So goes life.
Ciao ciao e per favore cerca di stare entro le 200 paginette. Anche meno. Ti spedirò Una Storia Semplice di Leo Sciascia.
Crepascolo versus King è un incontro fra titani, eh.