LA RAGIONE ECOLOGICA, LA DEMOCRAZIA, ALTRI IMMAGINARI: FRAMMENTI DI UN DISCORSO DI ALEX LANGER

In questa settimana più volte è tornata alla ribalta, complice la tormentata vicenda del Deltaplano a Castelluccio di Norcia, una percezione dell’ambientalismo inteso come punitivo nei confronti delle comunità locali. Si veda, per esempio, il video dove viene presentato il progetto. Ora, la persistenza di due fronti contrapposti giova soltanto a pochi, e quei pochi non sono certamente i fragili, in questa situazione, come prima o poi, auspicabilmente, si capirà. Mi chiedo però come sia possibile proporre davvero soluzioni alternative e  una narrazione che non sia quella di ora: terremotati di là, ambientalisti presunti radical chic di qua. In proposito, alzo il tiro, e vi propongo stralci di un discorso lontano nel tempo: perché già nel 1987 una mente illuminata come quella di Alex Langer il problema se lo poneva, eccome.
Noi oggi parliamo spesso di ripristino di equilibrio e dove questo non e possibile chiediamo di non aggravare per lo meno le condizioni di degrado. Probabilmente noi oggi, dal punto di vista ecologico, soprattutto in certe parti del globo e anche in certe parti del nostro paese, ci troviamo in condizioni di mutilazione ambientale e dobbiamo imparare a convivere con delle mutilazioni. Ma si può dire che in un certo senso assumiamo un atteggiamento abbastanza simile a quello della tossicodipendenza o dell’alcolista. Il tossicodipendente, o l’alcolista, sa benissimo che bere, fumare, prendere sostanze varie, gli fa male. Egli sa anche prevedere grosso modo entro quanto tempo certe conseguenze si manifesteranno, però non riesce a smettere perché e profondamente parte di un circolo vizioso. Da questo particolare punto di vista credo che una delle virtù “verdi” praticabili possa essere quella del pentimento, dove per pentimento intendo l’atteggiamento di chi ha sperimentato l’eccesso, la trasgressione, la violazione e se ne rende conto e non ha lo stesso atteggiamento di innocenza di chi non ha mai peccato.
(…)
Da questo punto di vista la nostra civiltà (in particolare l’Europa, l’America, il Giappone, l’industrialismo trionfante e imperante oggi) non può far finta semplicemente di tornare alla natura e sicuramente non può neanche arrestare di colpo la logica di sviluppo e di crescita. Questo lo possono fare singole persone o comunità e lo fanno anche compiendo scelte molto rigorose di vita più conformi ad un rapporto misurato ed equilibrato con la natura, ma sicuramente non e pensabile un arresto in blocco ed immediato di tutto il nostro sistema produttivo, di consumi, di traffico, di organizzazione sociale. Ma e possibile forse un atterraggio morbido, rispetto al quale c’è molto da lavorare. Questo atteggiamento che chiamavo di pentimento, o forse di tendenziale conversione ecologica e sicuramente una virtù “verde” importante. La conversione non e solo un termine spirituale (lo e sicuramente in modo molto forte) ma e anche un termine produttivo, un termine economico. Riconvertire o convertire la nostra economia, la nostra organizzazione sociale verso rapporti di maggiore compatibilità ecologica e di maggiore compatibilità sociale, di minore ingiustizia, di minore divaricazione sociale, di minore distanza tra privilegi da una parte e privazioni dall’altra e certamente una virtù “verde”. Un’altra virtù “verde” che vorrei richiamare e l’obiezione di coscienza. Lo faccio con particolare convinzione ed emozione in un ambiente che si richiama alla “Rosa Bianca”. E la capacita di dire di no al potere (e non solo al governo, ai carabinieri, al ministero della Difesa che manda la cartolina di precetto o ad altre cose del genere), ma anche la capacita di obiezione anti-consumistica, di obiezione al conformismo televisivo, di obiezione di parte di operai o tecnici alla produzione di armi. Anche in Italia c’è stato qualche caso di operai o tecnici che hanno rifiutato di considerarsi solo un pezzetto di catena di montaggio, un pezzo di ingranaggio che non porta mai la responsabilità del sistema nel suo insieme. Con il ragionamento opposto si sono difesi, in ogni sistema criminale, tutti quelli che non erano al vertice, dicendo: “lo ero una rotella, non potevo influire sul meccanismo nel suo insieme”. Sempre più oggi ci troviamo di fronte, per esperienza quotidiana di tanti, a dei meccanismi talmente perfezionati, talmente onnicomprensivi e totalitari che effettivamente non basta, secondo il mio giudizio e secondo la convinzione pratica di molti verdi, lottare perché cambi il sistema (cosa di cui non disconosceremo l’importanza fondamentale), ma occorre anche rifiutare di apportare il proprio contributo anche coattivo, anche estorto con la legge e a volte anche con la violenza un po’ oltre la legge, che ci farebbe essere dei pezzetti di un ingranaggio.
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Una logica di pura amministrazione burocratica o autoritaria o repressiva delle risorse e del nostro equilibrio ecologico e sociale del pianeta è una logica che difficilmente può convincere per motivare. Da questo punto di vista credo che occorra una forte spinta etica in positivo, non solo la paura di non farcela a sopravvivere, e anche una dimensione percepibile, una dimensione vivibile, entro la quale l’equilibrio ecologico ha un senso che un po’ tutti possono condividere e verificare. Questo penso che abbia anche delle forti contro-indicazioni. Molto spesso la comunità locale può essere quella che dice “purché vengano i turisti, noi facciamo anche 7 sciovie e se c’è bisogno costruiamo anche un nuovo monte, perché il vecchio non basta più per la quantità di turisti che vorremmo ospitare”. Non è che automaticamente la comunità locale, l’autonomia locale sia risolutiva, ma se non si trova un ambito entro il quale (come in una qualsiasi comunità percepibile reale) le autolimitazioni hanno un senso, cioè non sono soltanto la paura della multa o della pena o della repressione, il discorso non regge. Se non si trova una dimensione in cui la ragione ecologica possa coniugarsi con la democrazia, allora probabilmente le virtù di cui parlavo prima rischiano di essere un nobile e minoritario esercizio di ascesi ecologica, un nobile esercizio di solidarietà, ma un esercizio probabilmente con in grado di invertire la tendenza, o per lo meno di rallentare o arrestare il degrado, cosa che d’altra parte vorremmo tentare di fare”.
30.8.1987, Da “Il margine”, intervento tenuto a Brentonico (Trento), nell’ambito del convegno Il politico e le virtù organizzato da “La Rosa Bianca” dal 27 al 30 agosto 1987.

3 pensieri su “LA RAGIONE ECOLOGICA, LA DEMOCRAZIA, ALTRI IMMAGINARI: FRAMMENTI DI UN DISCORSO DI ALEX LANGER

  1. Temevo che questo tema avrebbe attratto pochi commenti, ma non credevo così pochi. Il che è sconsolante: l’ambientalismo, a quanto pare, non scalda più i cuori. Come se fosse un orpello che si può dismettere quando passa di moda, e non un attitudine necessaria per un corretto stare al mondo. O meglio: per poter continuare a starci, al mondo, perché non è una fake news che di questo passo ci estingueremo in meno tempo di quanto ne abbiamo impiegato a costruire una civiltà tecnologica. Ma questa è una cosa alla quale la maggior parte della gente non crede, nemmeno a sinistra. Nonostante le evidenze scientifiche sempre più numerose. Diciamocelo chiaramente, avremo già fatto un passo avanti verso la diagnosi. Per cui, volendo riprendere i punti sintetici che ho provato a mettere giù stamattina sotto la tua bacheca FB, Loredana, cambierei l’ordine e comincerei proprio da qui:
    – la sfiducia nella scienza e, più in generale, l’anti intellettualismo. E’ un male antico, molto più di quanto si creda di solito. “Non è lontano il tempo in cui la gente si troverà costretta a prendere l’università in mano e a rimetterla al suo posto. Avrebbe dovuto essere un’istituzione sotto il controllo dello Stato, a beneficio dei giovani dello Stato; ma ha acquisito le arie di un dittatore aristocratico, indipendente dalla gente, sopra la gente, con l’aspirazione a governare sulla gente”. Non è Salvini che parla: è un politico del Kansas di metà Ottocento (la fonte: “I due volti del diritto: Elite e uomo comune nel costituzionalismo americano”, Di Lucia Corso). Il problema, ancora una volta, sembra essere la capacità di risonanza che queste dottrine hanno trovato nella connessione globale prodotta dalla Rete, oltre che la potenzialità distruttiva che possono esercitare se, anziché essere applicate a comunità poco dense e poco numerose, sono applicate a un mondo sovraffollato in cui la tecnologia ha generato rischi enormemente superiori a quelli delle macchine a vapore. Paradossalmente, oggi al riscaldamento globale crede probabilmente meno gente di ieri, anche se le prove sono ormai schiaccianti. Il fatto è che è così comodo non crederci, e sono così spocchiosi questi professori che pretendono di dirmi come mi devo comportare anche nel tinello di casa… Ovviamente io non ho soluzioni, non saprei dire in che misura questo fenomeno sia una reazione a un presunto atteggiamento sprezzante di molti intellettuali e in che misura sia invece amplificato e abilmente sfruttato da politici che hanno interesse a privare la società dei filtri che potrebbero depotenziare la virulenza dei loro messaggi. Quello che so è soltanto che agli esperti va restituita la loro autorevolezza, in tutti gli ambiti. E quindi anche ai climatologi, agli urbanisti, agli esperti forestali, agli zoologi, ai biologi e via discorrendo. Questo è un punto di partenza necessario e imprescindibile: come pretendiamo di risolvere un problema, se non crediamo neppure a chi ne fa la diagnosi?
    – la necessità di un pensiero capace di indicare un nuovo mainstream che rimetta al suo posto il concetto (centrale) che l’individuo è membro di una comunità, in cui trova sia la sua potenzialità che il suo limite. Questo punto mi sta particolarmente a cuore. Trent’anni di liber(al)ismo economico, da Reagan e Thatcher in poi, hanno cablato (penso che sia il termine appropriato) nella testa della gente l’idea thatcheriana che “non esiste la società, esistono soltanto individui e famiglie”, e che di conseguenza il benessere collettivo sia niente più che la somma del benessere dei singoli. Questa è un’idea perniciosa, che ha reso le persone del tutto incapaci di dare un valore a ciò che abbiamo in comune, all’idea stessa di comunità. Non serve notare, come spesso fanno tanti, che l’altruismo non è morto, che basta guardare all’estensione del volontariato per rendersene conto, perché non è di altruismo che si sta parlando qui; il volontariato può benissimo esistere su base individuale, come aiuto ai singoli, senza che ci sia dietro alcuna idea di comunità; la comunità è una cosa diversa, è il sentirsi parte di un tutto che va oltre quello che siamo come individui, è la coscienza che il rispetto di certi limiti e certe regole necessarie al vivere comune si traduce in un maggior beneficio per tutti in termini di protezione, rapporti umani, possibilità di realizzare progetti collettivi, ma anche individuali. Questo, a mia memoria, c’era nel mondo di ieri molto più di quanto non ci sia in quello di oggi. Se ci fosse nella stessa misura sarebbe molto più facile, oggi, parlare dell’ambiente come di un bene comune, da rispettare e amare in prospettiva etica oltre che utilitaristica e pragmatica; perché c’è sempre un’etica, alla base di una comunità. E questo ci porta dritti a un altro punto, forse meno evidente, ma fondamentale.
    – Il significato dei beni collettivi e il cosiddetto “altro modo di possedere”, che è quello dei demani civici. Noi siamo abituati, fondamentalmente, a due forme di proprietà: quella privata e quella pubblica. Sono diverse, ma c’è sempre un soggetto che possiede, definito come persona fisica o giuridica: un essere umano nel primo caso (o una società), un ente pubblico (Stato, Comune, Regione, ecc.) nel secondo. Eppure – e Elinor Ostrom ci ha vinto un Nobel nel 2010 su questo concetto – esiste un modo di possedere molto più antico, che è quello della proprietà collettiva. Fino a qualche decennio fa era una forma di possesso di cui, soprattutto nei piccoli centri, c’era coscienza precisa e diffusa: il bosco del demanio civico, per esempio, non era del Comune ma era “di tutti”, della comunità, che ne faceva uso (diritto di legnatico, raccolta di funghi e di erbe, ecc.) e aveva quindi tutto l’interesse a manutenerlo eseguendo i tagli a regola d’arte, pulendo il sottobosco. Lo stesso per i pascoli e molti altri beni collettivi. Questo modo di possedere, disciplinato dalla normativa sugli usi civici (si vedano, in proposito, le opere del Presidente emerito della Corte Costituzionale Paolo Grossi), era in perfetta armonia con il territorio e con la natura. Oggi, essendo cambiato il paradigma economico, è stato presto dimenticato e quegli stessi beni comuni sono spesso oggetto di attacco speculativo da parte dei figli e dei nipoti di quegli stessi contadini che a suo tempo li preservavano, nonostante la disciplina sugli usi civici sia tuttora in vigore. Chiaro che non è possibile ripristinare un’economia tramontata, e non sarebbe neppure desiderabile; ma un parco urbano, per esempio, non potrebbe essere concepito proprio a partire da questo concetto, mettendolo in mano a una comunità che lo senta suo e ne faccia il centro di un’azione comune? Sarebbe solo un primo, timido passo, ma nella direzione giusta.
    – La capacità (ma direi soprattutto la voglia) di praticare un ambientalismo che non si ponga in contrapposizione spocchiosa con le esigenze delle comunità locali, ma sappia farsi carico di un confronto anche duro (le comunità locali, lo dice anche Langer, non hanno sempre ragione), ma sempre rispettoso (discorso complesso, questo, e in fondo identico a quello che andrebbe fatto a sinistra per ristabilire un dialogo con gli elettori leghisti e 5s). Su questo, probabilmente, ci sono persone molto più qualificate di me a dire qualcosa di utile. A cominciare proprio da te, Loredana. Io semmai potrei aggiungerci molta, ma molta esperienza personale, ricca di passione e di una montagna di errori. Ma per oggi penso che possa bastare, dubito che qualcuno avrà voglia di leggersi questo commentone fino in fondo; meno che mai di dire la sua, temo 🙂

  2. Caro Maurizio, ho letto tutto con attenzione, non fosse altro per solidarietà. Ho scritto una lunga lettera a Langer (che puoi trovare nei commenti a questo post di Loredana sulla pagina FB), ai primi di marzo che, pensavo, potesse suscitare un po’ di dibattito. Niente di niente. Qualche apprezzamento da qualche amico e poco più. In quella lettera credo anche di rispondere in parte a qualche tua domanda. O meglio, Langer rispondeva alla tua domanda sul perché dell’atteggiamento che ci porta a chiudere gli occhi. Non è che le persone non credono al riscaldamento globale, è che il problema è talmente immenso che rischia di portarti alla paralisi. Allora ciascuno si attrezza privatamente per sopravvivere. C’è bisogno di una conversione ecologica, ma questa non può basarsi sul catastrofismo, deve essere desiderabile. Per il resto, sempre in quella lettera cerco di evidenziare (forse dovevo farlo di più, ma se uno ha la pazienza di aprire i link delle note si capisce bene) che c’è un intero mondo che si sta muovendo in questa direzione, e non si tratta solo di scelte individuali, ma di movimenti collettivi, amministrazioni comunali, aziende innovative nel campo del risparmio e energetico ed energie rinnovabili. Rimane il fatto che stiamo parlando tra noi. Cari saluti e a tempi migliori.

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