Gli anni Settanta volgevano al termine e Stephen King pubblicava La zona morta. Rileggendolo negli scorsi anni, molti hanno sussultato constatando quanto fosse simile a Donald Trump il villain del romanzo, Greg Stillson, prima venditore di Bibbie, poi imprenditore, sindaco, deputato e, se il futuro non fosse cambiato, presidente degli Stati Uniti.
C’è un sussulto di diverso genere che provo io quando penso a Stillson, e riguarda la figura del vincitore, o vincitrice. Ovvero, la sindrome che ci affligge, a partire proprio dal decennio che si affacciava ai tempi dell’uscita del romanzo fino a oggi.
Provo a spiegarmi. In questi giorni ho letto e riletto commenti ed editoriali sul DDL Zan e sulla sua uscita di scena. Uscita di scena, vorrei dire, che sarà superata, a dispetto delle facce le ghigne i musi (cit.) che festeggiavano. Ed ecco uno dei punti, la “vittoria”. Il mondo è già andato avanti: le giovani persone hanno già superato steccati e paletti, nella grandissima parte dei casi, e nonostante la delusione e la sofferenza di questo momento si andrà avanti ancora. Ugualmente, il tiro al bersaglio di una parte dei femminismi contro le persone trans e non-binary lascerà il tempo che trova. E così gli scannamenti interni ai movimenti, sia di visione sia di generazione, che sono una cosa che dovrebbe, anche qui, appartenere al passato (e diamine, se la mettiamo in termine di dimmi quanti anni hai e ti dirò che femminista sei andiamo malissimo. Peggio andiamo quando basta un’intervista durante la diretta del Salone del libro a Liv Ferracchiati, autore di un libro molto bello, per scatenare su Twitter un gruppo di trans-fobiche che hanno tirato in ballo persino – ahah- l’uso del mio eteronimo per screditare libro e scrittore, rendiamoci conto).
Non è l’unica cosa che ho letto, né l’unico filone dove si registra la stessa sindrome di Stillson. Le parole inclusive. Basta questo termine e si agitano su ipotetici (nel senso di auto-conferiti) scranni e seggiolini linguisti ed editorialisti, tutte le sante volte reagendo come se si parlasse di OBBLIGO e non di POSSIBILITA’. Uso le maiuscole perché sono esasperata io, figurarsi chi su questi argomenti lavora come Vera Gheno, che deve sottostare a decine di predicozzi su cosa bisognerebbe invece dire o fare, che è faccenda che lascia, sul serio, senza parole.
Che c’entra Greg Stillson? Oh, c’entra parecchio. Perché Stillson ha un solo desiderio: vincere. Non contano ideologie o ex tali, fedi politiche di ogni connotazione. Vuole essere un vincente, anzi, il vincente. E questa roba qua ci ha avvelenato da anni e ci avvelena oggi come non mai. Non si discute, non si argomenta, non si ha a cuore fino in fondo una giusta o ingiusta causa ma si desidera il podio, anche a costo di passare sulle vite di tutti gli altri come uno dei personaggi di Squid Game che non nomino per evitare turbolenze degli anti-spoiler.
Di certo sono sbagliata io, che abbandono i filoni vincenti nel momento in cui diventano, appunto, vincenti, per non cadere nella trappola del “sono sotto i riflettori giusti”: è sicuro, anzi, che sia criticabile la mia posizione e non quella che va per la maggiore. Eppure continuo a pensare che questa smania (che è trans-generazionale, sottolineo) di arrivare primi rischi non di vanificare, ma di rallentare il cammino e le rivendicazioni sacrosante che sono in gioco. Ma per me il punto è questo qui: è possibile ignorarlo, fare propria la vecchia strofa di Eminem ( And fuck this battle I don’t wanna win, I’m outtie) come tendo a fare molto spesso io. Oppure conoscerlo, capirlo, cambiarlo. Che è cosa che mi piacerebbe fare, e non da sola. Ovviamente.