LA SUA ULTIMA PAZIENZA

Riprendo e pubblico l’intervento che Girolamo De Michele ha fatto questa mattina su Carmilla.
“Stanno votando la morte della Grecia. Noi abbiamo vinto contro i Nazisti, abbiamo vinto contro la dittatura fascista e vinceremo anche questa volta” (Mikis Theodorakis)
In La disperazione di Penelope , Ghiannis Ritsos coglie un aspetto originale del mito di Odisseo: non il viaggio dell’eroe come allegoria della conoscenza (come nelle versioni di Dante e Kavafis), ma lo sgomento di Penelope nello scoprire che a tornare non è il giovane eroe, ma un miserabile vecchio: «Per lui, dunque, aveva speso vent’anni, / vent’anni di attesa e di sogni, per questo miserabile / lordo di sangue e dalla barba bianca?» E si accascia sulla sedia, mentre il suo telaio proietta «ombre di sbarre sul soffitto», e i disegni sulla tela prendono i colori della disperazione e della monotonia. I suoi stessi desideri le diventano estranei come lo sono i cadaveri dei pretendenti, e come la sua stessa voce che dice: «Benvenuto» allo sposo ritornato.
Questo è quello che sta per accadere alla Grecia. E non solo a lei: perché oggi la Grecia è l’intera Europa, e tutti noi siamo greci.

La cavalletta globale
L’economista greco Yanis Varoufakis, già consigliere di Papandreu e oggi critico, su posizioni riformiste, delle politiche imposte alla Grecia, ha ri-narrato una celebre fiaba di Esopo, proponendo una nuova morale (ogni fiaba di Esopo ne ha una, avverte Varoufakis) come chiave di lettura della crisi finanziaria e delle sue narrazioni. Degno di rilievo – lo ha segnalato in un bell’intervento sulle narrazioni della crisi postato su Nazione Indiana e, in integrale sul proprio sito Ambaradam, Lanfranco Caminiti, uno di quegli incorreggibili “dannunziani” per i quali gli anni Settanta non sono finiti, e con loro non è finita la tensione alla comprensione e alla critica radicale del presente – è che Varoufakis sia autore di un libro, The Global Minotaur, nel quale il mito del Minotauro, bestia mostruosa che va nutrito col sacrificio di 7 giovani e sette giovinette finché non giungeranno Teseo ed Arianna ad ucciderlo, è riattualizzato per descrivere il presente. «Certo, la metafora delle sette fanciulle e dei sette fanciulli dati in pasto al mostro è facilmente comprensibile coi sacrifici economici imposti: resta da capire chi sarà Teseo e quale il filo rosso di Arianna che lo guidi fuori dal labirinto», scrive Caminiti. Che sottolinea come il problema della narrazione della crisi sia l’improvvisa esplosione, con finalità pseudo-comunicative (in realtà meta-comunicative) di un linguaggio tecnico e specialistico che fa della propria sostanza la propria corazza:
«La crisi finanziaria è rimasta confinata tra i tecnici, nell’inner circle, gente che va e viene tra incarichi pubblici e consigli di amministrazione privati di banche o fondi di investimento. L’introduzione di termini tecnici, a volte paradossale, a volte grottesca, come quella dello spread, nel linguaggio giornalistico prima e nella chiacchiera pubblica dopo, non ha modificato questa realtà, anzi l’ha resa ancora più impermeabile, più distante. Lo spread non comunica nulla, se non un dato che sembra oggettivo e bizzarro come il tempo: accanto alle informazioni meteo, le televisioni e i quotidiani vanno introducendo le informazioni spread. Lo spread non appartiene alla nostra esperienza umana quotidiana, a meno di non essere uno che tutti i giorni interviene sul mercato secondario dei titoli. La continua reiterazione dei movimenti dello spread ha finito per uccidere qualsiasi narrazione possibile. Forse, è proprio questo il punto: l’informazione, ossessiva, espropria la narrazione. Siamo inzeppati di analisi, grafici, ragionamenti, statistiche e sequenze, ma piuttosto di facilitarci nel comunicare qualcosa, una qualsiasi esperienza, questa mole di dati diventa disumana, un paesaggio di macerie, una voragine. Non ci sono eroi, nello spread, non ci sono codardi, non ci sono passioni, amori, tradimenti. Lo spread non potrà mai essere un personaggio. E senza personaggi non ci sono storie».
crisi-grecia.jpgL’uso del patrimonio mitico e allegorico del passato sembra essere lo strumento che Varoufakis ci suggerisce di usare per «sovvertire la narrazione dominante» della crisi.
Vediamola, dunque questa fiaba (avvertendo il lettore che in greco sia “cicale” che “formiche” sono al maschile, e che nelle versioni inglesi, comprese quella di Varoufakis, il greco tettix diventa “cavalletta” [grasshopper], con una sfumatura semantica più appropriata alla re-interpretazione proposta). Questo è l’originale di Esopo, n. 336 (nella versione di Claudio Cazzola, che ringraziamo).
Nella stagione dell’inverno i formichi facevano asciugare al sole il grano assalito dall’umidità. Un cicalo avendo fame supplicava cibo da loro. I formichi allora gli chiesero: “per qual motivo non raccogliesti anche tu cibo durante l’estate?”, ed egli rispose: “non avevo tempo, ma ero impegnato a cantare melodiosamente”. Ed essi allora mettendosi a ridere sentenziarono: “ma se nella stagione dell’estate suonavi, ora che è inverno danza!”.
La favola dimostra che si non deve trascurare nulla in qualsiasi faccenda, per non ricevere dolori e rischi.

Per comprendere appieno la figura del formico (un’avvertenza che potrebbe sembrare acribica, ma che ha la sua importanza), bisogna considerare la sua origine, narrata da Esopo in un’altra fiaba, la 240:
Quello che ora è il formico, una volta era un essere umano: impegnato nel coltivare la terra, non gli bastavano le fatiche personali, ma guardando con occhio invidioso quelle degli altri rubava regolarmente i frutti del lavoro dei confinanti. Zeus, pieno di sdegno per codesta avidità e smania di possedere, lo metamorfizzò in questo essere vivente che si chiama formico. Ma questo, pur avendo cambiato la figura esteriore, non mutò anche l’atteggiamento interiore: anche adesso infatti, andando in giro per i campi coltivati raccoglie per sé i chicchi d’orzo e di grano, e li tesaurizza per sé solo.
La favola dimostra che coloro che sono malvagi per natura, pur se puniti il massimo possibile, non mutano il loro modo di fare.

Varoufakkis, riprendendo l’immagine dominante delle formiche industriose e delle cavallette dissipatrici, parte dalla considerazione che la narrazione dominante della crisi pretende che le formiche siano tutte nel nord dell’Europa (Germania, Olanda, Austria), laddove le cavallette sarebbero a meridione. È ora, sostiene Varoufakis, di rimettere a posto formiche e cavallette, che sono distribuite in egual misura tanto nei paesi del nord, quanto in quelli a rischio crisi del sud (Grecia, Spagna, Italia), come dimostra del resto il fatto che la crisi lambisce le Isole Smeraldo (cioè l’Eire).
Prima della crisi, tanto le formiche tedesche quanto quelle greche hanno duramente lavorato per sbarcare il lunario. Ma quelle greche lavoravano in settori a bassa produttività (impiegati nei supermarket, ad esempio), con bassi salari, basse tutele lavorative e un’inflazione reale superiore a quella ufficiale; mentre le formiche tedesche lavoravano in settori a grande produttività (l’industria pesante, ad esempio), e la differenza tra gli alti profitti e i salari stagnanti creava un crescente surplus che veniva investito, a causa dei bassi tassi d’interesse esistenti in Germania, all’estero. Le formiche greche, al contrario, erano pressate da una martellante campagna condotta dalle banche che, tramite la donazione di carte di credito, spingeva i cittadini a indebitarsi. Come racconta un cittadino greco [in Notizie dalla Grecia di Matteo Nucci, su minima & moralia],
«”Le carte di credito arrivarono così: piovevano dal cielo”. Ci voleva un po’ di esperienza e capacità, per difendersi. Ci voleva semmai uno Stato capace di proteggere il suo cittadino. Ma come poteva farlo se stava cascando nello stesso gioco? “Ecco come funziona. La tua carta di credito ti domanda di ripagare ogni mese solo il 2 per cento di quanto spendi. Dunque, ho speso 800 euro? Se voglio, posso pagarne solo 16. A fine anno ho raggiunto il limite di indebitamento: 6400 euro. Pago più o meno 130 euro al mese, sì, ma intanto sono esposto e scattano gli interessi –, altissimi: il 17 per cento –, dunque quasi 1.100 euro all’anno oltre a quello che ancora devo ridare, visto che magari mi sono limitato a restituire la minima, il 2 per cento. Immaginate che io abbia magari anche più di una carta di credito. Avete idea del debito che accumulo? Se, come capita a molti qui, ho uno stipendio di mille euro al mese, come ne esco? A un certo punto arriva la banca che mi ha strozzato e si prende quel che ho”».
Ed è a questo punto, prosegue Varoufakis, che «le cavallette tedesche (quegli inimitabili banchieri il cui scopo è massimizzare i guadagni col minimo sforzo) cominciano a guardare al sud [dell’Europa] come a un buon affare […] Così, il capitale tedesco (prodotto dal duro lavoro a basso costo delle formiche tedesche e diretto dalle irresponsabili cavallette tedesche) fluisce verso il meridione in cerca di alti guadagni. Cosa succede quando arriva un’inaspettata inondazione di moneta? Bolle. […] In Grecia queste bolle presero la forma del debito pubblico».
Il laboratorio greco
Fermiamoci con la fiaba del nuovo Esopo, e approfondiamo l’analisi di questa bolla greca attraverso un importante testo di François Chesnais sulla crisi tradotto in tempo reale, o quasi, da DeriveApprodi: Debiti illegittimi e diritto all’insolvenza (sul quale si vedano gli intereventi di Christian Marazzi e Andrea Fumagalli). In un paragrafo dedicato al caso greco, Chesnais utilizza il concetto di “debito odioso”: un concetto definito dal giurista russo (ex ministro zarista: non proprio un bolscevico, dunque) nel 1927 come «un debito contratto da un regime dispotico per obiettivi estranei agli interessi della Nazione e dei cittadini», e riformulato in tempi più recenti come «debito contratto contro gli interessi dei cittadini di uno Stato, senza il loro consenso e senza la piena conoscenza di chi siano i creditori». Questo concetto è basilare, in un momento in cui la narrazione dominante della crisi porta a credere che «l’ingiunzione a pagare il debito riposa implicitamente sull’idea che a essere state prestate siano delle somme frutto di un risparmio pazientemente accumulato nel corso di una vita di duro lavoro» (pp. 113-114): quelle, poniamo, delle formiche tedesche.
Veniamo al debito greco: che, al momento dello scoppio della crisi (2007), era al 94.8% del PIL: inferiore al solo debito dell’Italia. Come la Grecia è arrivata a questo punto? In primo, luogo, con la fattiva collaborazione della Goldman Sachs – i Soprano della finanza mondiale -, che ha venduto al governo greco conservatore di Costas Karamanlis strumenti finanziari (in buona sostanza titoli derivati), aiutando al tempo stesso il governo a dissimulare il reale stato dei bilanci [qui un articolo del “New York Times”]. Con la copertura della principale banca finanziaria mondiale, il governo greco ha attuato le stesse misure di base che hanno creato il debito pubblico mondiale: abbassamento delle imposte per i più abbienti (in Grecia l’esenzione fiscale per gli armatori è addirittura prescritta dalla Costituzione), conseguente riduzione delle entrate di bilancio e creazione di «un debito pubblico che viene finanziato con il ricorso all’indebitamento» (p. 115).
grecia-debito-grafico.gifAssieme alla catastrofica gestione delle Olimpiadi di Atene del 2004, la principale voce di spesa per la Grecia è stata quella dell’acquisto di armi. Nel momento in cui è stato reso noto dal nuovo governo Papandreu il reale stato del bilancio greco, si è saputo che la Grecia è stato uno dei principali importatori di armi dell’Europa: i soli aerei da combattimento (26 F-16 americani e 25 Mirage 2000 francesi) rappresentano il 38% del volume delle importazioni greche. Aggiungendo ai Mirage gli altri armamenti, la Grecia è diventata il terzo cliente dell’industria militare francese nello scorso decennio. Se aggiungiamo a questi creditori la Germania (carri Leopard, sottomarini 214, ecc.), cominciamo a farci un’idea non solo del carattere odioso del debito greco, ma anche del perché, come mostra il grafico qui in alto [clicca sopra per ingrandirlo], Francia e Germania siano in prima fila nel pretendere il rientro dal debito.
Da dove deriva questa delirante politica?
Torniamo alla fiaba, e facciamo un passo indietro. C’è da preparare l’avvento dell’euro, e per farlo un «notevole esperimento ha luogo simultaneamente in Grecia e Germania». In Germania un accordo tra governo e sindacati riduce il costo del lavoro abbassando il valore dei salari: aumentano competitività e occupazione, l’inflazione scende al di sotto della media europea.
In Grecia il governo opera per la diminuzione dei salari reali sfruttando l’afflusso di lavoratori migranti.
L’esperimento tedesco funziona anche dopo l’avvento dell’euro; mentre i salari reali scendono sempre più, le merci tedesche invadono i mercati, e il costo del denaro scende: «le formiche tedesche lavorano sempre più, per avere sempre meno, mentre le cavallette tedesche cantano sempre più le lodi delle loro banche». debito greco.jpgIn Grecia, invece, il flusso di denaro proveniente dall’estero fa sì che «le cavallette greche, e i loro alleati politici al governo, chiedano alle cavallette tedesche (le banche) sempre maggiori prestiti, senza pensare al domani», mentre le formiche greche chiedono invano di avere qualche beneficio dall’euro, e devono invece farsi carico dei costi di questa macchina finanziaria che non porta alcun reale beneficio al popolo greco: come mostra il grafico [clicca sopra per ingrandirlo], mentre gli investimenti a lunga durata (linea blu) ristagnano, quelli a breve termine linea rossa) costituiscono la gran parte delle entrate valutarie in Grecia (fonte: Eric Toussaint, Face à la dette au Nord, quelques pistes alternatives, qui).
Un esempio: la Grecia ha uno scadente sistema di istruzione pubblica, ed un sistema universitario a numero chiuso e a bassa possibilità di accesso. Ne consegue che ogni famiglia che desidera per i propri figli la prosecuzione degli studi deve sobbarcarsi la spesa aggiuntiva di un’istruzione a pagamento, o tramite lezioni aggiuntive o iscrivendo i figli a una scuola privata (il che significa un ulteriore uscita nel bilancio familiare). Le formiche greche si sarebbero aspettate, in cambio del loro duro lavoro, un sistema istruzione degno di una democrazia: le loro speranze sono andate deluse.
Osserva Chesnais che mentre famiglie e imprese si indebitavano, «le banche [greche] si sono rifinanziate prendendo in prestito dalle altre banche europee. […] Questa è stata la molla della «crescita» greca. […] Grazie a un euro forte e al rifinanziamento sui mercati obbligazionari della zona euro, le banche greche hanno potuto allargare le proprie attività internazionali e finanziare a basso costo le proprie attività nazionali. Hanno preso in prestito a più non posso». Insomma: «le cavallette greche, alleate a quelle tedesche, diventano sempre più grasse, mentre le formiche greche si arrabattano per sbarcare il lunario».
E poi arriva la crisi, e le bolle scoppiano.
E, con lo scoppio della bolla, «le cavallette di tutta Europa trovano conveniente rifugiarsi nell’ultima risorsa di tutti i farabutti: il nazionalismo. Comincia una guerra di parole tra Germania e Grecia, tra settentrionali e meridionali, allo scopo di nascondere la terribile verità: nessuno è stato salvato – nessuno, tranne le cavallette del nord e del sud».
E dunque, conclude Varoufakis, è necessario «sovvertire la narrazione dominante. Riconoscere l’esistenza di neglette formiche e di cavallette super-gonfiate attraverso l’intera eurozona è un buon punto di partenza».
Le bugia con le gambe lunghe
Varoufakis, al di là delle soluzioni che propone (sintetizzate in A modest proposal for overcoming the euro crisis, qui), ha posto l’accento sul tema della verità all’interno della narrazione della crisi. Che è, d’altro canto, quello che fa Chesnais nel suo testo, in compagnia di un crescente movimento non solo d’opinione, ma anche e soprattutto di movimento e di lotta, che ha per obiettivo il rigetto del debito, il diritto all’insolvenza, o quantomeno l’apertura di un audit pubblico sul debito che riveli la reale natura e consistenza di quello che, fino a che il velo che lo copre non sarà squarciato, si ha ben diritto di chiamare «debito odioso».
Dire la verità, ovvero dire tutto nel senso di nulla nascondere, è il significato della parola “Parresia”, sulla quale Michel Foucault ha lavorato per almeno due Corsi al Collège de France: l’ultimo dei quali (Il governo di sé e degli altri II, 1984), appena tradotto in italiano, ha per l’appunto il titolo di Il coraggio della verità (Feltrinelli, Milano 2011, a cura di Mario Galzigna).
Parole che, con scarso senso del ridicolo, titolano un articolo del 4 gennaio scorso nel quale Barbara Spinelli attribuisce a Mario Monti il carattere del parresiasta:
«Dire il vero: sulla gravità della crisi italiana, sulla nostra seconda cosa pubblica che è l’Europa, sui sacrifici, sul guastarsi dei partiti. Sembra essere una delle principali ambizioni di Monti, da quando è Presidente del Consiglio.
Basta questo, per smentire chi decreta – con l’aria di saperla lunga – che il Premier non è che un tecnico, ammesso a sostituire fugacemente il politico detronizzato. La deturpazione funesta delle parole, lo stratagemma d’illudere il popolo imbellendo la realtà e inventandosi, per decerebrarci, un’attualità del tutto sfasata rispetto a ciò che davvero è attuale, cioè urgente, emergente: per decenni ci eravamo assuefatti a questo, e abbiamo finito col chiamarlo “politica”. È ora di restituire, a quest’ultima, il severo verbo vero che le si addice. […] Le parole dette con franchezza, che Monti usa con metodo nelle conferenze stampa, hanno una lunga storia nella democrazia. Ne discussero i filosofi dell’antichità greca, e diedero al dire-tutto il nome di parresia: un vocabolo che torna negli Atti degli apostoli (Pietro e Giovanni rischiano la morte, pur di testimoniare il vero e la libera coscienza del cristiano). Chi parlava senza blandire o mimetizzarsi era chiamato parresiasta. Senza parresia, scrive Foucault, “siamo sottomessi alla follia e all’idiozia dei padroni”: la pòlis ha bisogno di verità, per esistere e salvarsi».

Combinazione, questo encomio di Monti viene pubblicato a un anno dall’articolo sul “Corriere della sera” nel quale Monti elogiava «le due importanti riforme dovute a Mariastella Gelmini e a Sergio Marchionne. Grazie alla loro determinazione, verrà un po’ ridotto l’handicap dell’Italia nel formare studenti, nel fare ricerca, nel fabbricare automobili».
Si tratta di capirsi. Dire tutta la verità ha un senso diverso dall’affermare l’esistenza di una verità universale e oggettiva, e affermare di averla conseguita: ogni verità è, secondo Foucault, un «effetto di verità»; nondimeno, il parresiaste dice la verità perché sa che quello che dice è vero, ovvero dice tutto senza nulla omettere. Di per sé, però, dire tutto può avere un significato negativo:
«Utilizzata in senso peggiorativo, la parresia consiste proprio nel dire tutto, cioè qualunque cosa: tutte le idee che vengono in mente, tutto ciò che può essere utile alla causa che si difende, tutto ciò che può servire alla passione o all’interesse di chi parla. Il parresiasta diventa e appare allora un chiacchierone impenitente, uno che non sa trattenersi o ce diventa incapace, in ogni caso, di vincolare i propri discorsi a un principio di razionalità e di verità» (Foucault, p. 21).
mikis-theodorakis.jpg[A sinistra: il poeta-parresiasta Mikis Theodorakis, contro il quale la polizia ha sparato i lacrimogeni per impedirgli di parlare in piazza Syntagma]
È chiaro che la parresia non è solo un esercizio discorsivo fine a se stesso, ma una strategia di costruzione dell’effetto di verità. Essa infatti presuppone non solo il “nulla nascondere” da parte del soggetto che parla, ma il rischio di urtare l’interlocutore con le proprie verità. Questo rischio è connaturato a una concezione dell’altro come disposto ad accettare questa verità. Esiste dunque un patto tra il coraggio del parresiasta e la magnanimità dell’altro: «La parresia è dunque, in parole povere, il coraggio della verità di colui che parla e si assume il rischio di esprimere, malgrado tutto, l’intera verità che ha in mente; ma è anche il coraggio dell’interlocutore che accetta di accogliere come vera la verità oltraggiosa da lui sentita. Vedete allora come la pratica della parresia si contrapponga, parola per parola, a quella che in definitiva è l’arte della retorica» (p. 24) .
La parresia è, di conseguenza, una strategia (e un’esperienza) di sovvertimento rischioso dell’ordine del discorso prevalente o dominante, ed in quanto tale è una pratica di resistenza al potere che non mira solo a “salvarsi la coscienza” – il parresiasta non è un’anima bella – ma a istituire una relazione etica attraverso una prassi. Naturalmente può capitare che chi parla creda di dire “tutta la verità” perché ritiene che quello che ha da dire sia corrispondente al vero: ad esempio, guardando un reality televisivo creda davvero che quello che vede stia accadendo così come gli viene raccontato (non sapendo dell’esistenza di copioni, sceneggiature, accordi, in qualche caso – se il reality è musicale – pressioni di questa o quella casa discografica, di pagamenti richiesti e ottenuti o meno per il passaggio del turno o meno del tale concorrente): insomma, crede nell’effetto di verità del reality ignorandone le condizioni materiali della sua costruzione. In questo caso, però, non siamo in presenza di un parresiasta, ma di un imbecille, o al più un idiota (nel senso tolstoijano o socratico, magari). Se, dunque, Monti dicesse quello che dice perché è tutto ciò che in cuor suo ha da dire, saremmo governati non da un saggio, e neppure da un santo, ma da un imbecille.
Il che, in tutta evidenza, non è: così come Monti non è certo un’anima bella, né un chiacchierone impenitente.
Credere che al regime della stronzata si sia sostituito un regime della verità solo perché Monti ha il “coraggio” di dire alcune banalità significa ignorare che ogni affermazione sulla crisi che non vada a denunciare i gangli profondi del capitalismo finanziario, che non metta in questione l’illegittimità e l’odiosità del debito, che agiti lo spettro del default come il peggiore dei mali, è, mutatis mutandis, una replica di quella malattia di cui la finanza globale, attraverso i suoi emissari (Monti e Draghi in Italia, come Papademos in Grecia), pretende di essere la cura. Nel proferire alcune “verità dalle gambe corte”, Mario Monti ricorda piuttosto il protagonista di quella geniale farsa di Eduardo De Filippo sulla società della menzogna che è Le bugie con le gambe lunghe, nella quale il protagonista Libero Incoronato, a fronte dell’inestricabile tela di menzogne che avvolge il mondo scaturito da un ventennio di dittatura e dalla devastazione della guerra, si adatta infine ad “attaccare l’asino dove vuole il padrone”, e risponde a bugia con la bugia, rassegnandosi alla cura del proprio particolare dopo aver invano cercato di vivere nella verità [qui una sintesi del lavoro nell’allestimento di Luca De Filippo].
Sovvertire l’ordine del discorso
Tutto questo ripropone il nocciolo di verità che, in modo diverso, le diverse sensibilità di Caminiti, Varoufakis e Chesnais contengono: la necessità, tanto teorica quanto pratica, di imporre un diverso ordine del discorso che parta non dalla imprescindibilità di pagare il debito, ma dalla messa in questione del debito stesso, delle sue cause, dei meccanismi finanziari che lo hanno creato. Qualunque posizione che vada a moderare, a mediare, a posporre, a contrattare questo dovere della verità – ossia il dovere di dire questa verità – si colloca ipso facto all’interno dell’ordine del discorso e della narrazione della crisi dominanti: è bene saperlo.
Nel testo di Esopo (la fiaba 240), è il formico che conserva la propria egoistica natura, sia nella originaria forma umana, sia dopo la metamorfosi in insetto. E il lavoro, aggiungiamo, non è certo qualcosa che ne nobiliti la natura. Nella realtà odierna accade che siano le cavallette a manifestare una originaria, egoistica natura appropriativa. Che anche le cavallette, o i cicali, fossero un tempo uomini è del resto affermato anche da Platone (Fedro, 259 b-c): uomini che, talmente storditi dal piacere del cantare, «scordavano cibo e bevanda e neppure si accorgevano di morire». Un tempo, si diceva, la borghesia imprenditrice sarebbe stata capace di vendere persino la corda con cui essere impiccata: oggi la cavalletta globale sembra agire senza alcuna percezione della dimensione del futuro, tantomeno di quella che rapina ai formichi, cioè al comune.
Quanto ai formichi, non si dimentichi che da myrmex deriva, secondo alcuni, la genìa dei Mirmidoni, il popolo di Achille: il popolo che non ha futuro, giacché scomparirà alla morte del re del formicaio.
E proprio la minaccia del futuro riconduce le laboriose formiche all’allegoria della Penelope di Ritsos: quella Penelope alla quale, come alle moltitudini greche oggi (come a quelle italiane, iberiche, irlandesi domani) viene chiesto di rinunciare per vent’anni alla propria vita, ai propri desideri, alle proprie possibilità, dietro la falsa promessa che, passata la crisi, tutto torneerà come prima. Quello che Ritsos ci dice è che a Penelope hanno rubato il futuro perché le hanno rubato il presente, e che le stanno vendendo oggi al prezzo di un giovane compagno un vecchio malandato a cui sarà non sposa, ma al più badante. Che la sua capacità affettiva, relazionale, amorosa le viene cartolarizzata per esserle sottratta oggi, e impiegata domani sotto forma di obbligo, eventualmente retribuito.
In questo senso le ombre delle sbarre di domani che si allungano sul soffitto sono radicate nel presente. Per non farci rubare il futuro è necessario difendere con ogni mezzo e ogni radicalità possibili e necessari il nostro presente, come in queste ore fanno i greci lasciati soli a fare da esperimento europeo: come fu per la Spagna durante la guerra civile.
Oggi in Spagna, domani in Italia, avvertì da Barcellona Carlo Rosselli.
Ciò che oggi accade in Grecia, domani accadrà all’Europa intera.

38 pensieri su “LA SUA ULTIMA PAZIENZA

  1. Adesso però occorre narrare la seconda parte della favola, ovvero quella che ci spieghi cosa implica la messa in discussione del pagamento del debito e che prezzo abbia.
    Tra l’altro sarebbe anche l’ora di emanicparsi da questo mito della narrazione, e più in generale sarebbe anche auspicabile per i lettori capire i limiti enormi del pensiero Foucaltiano in particolare e post strutturalista in generale.
    Una narrazione è ancorata a una verità fattuale; solo coloro che pensino che non esistano fatti ma solo interpretazioni possono mettere al centro di tutto la forma della narrazione, come se il senso derivasse dalle strutture narrative: cambiamo l’ordine del discorso e la verità cambierà. Puro soggettivismo del tutto. Per soprammercato si capiscono anche le tante irritazioni di Loredana Lipperini alla formulazione di critiche: se tutto è narrazione, la narrazione di chi si opponga alla mia è un attentato, un inutile provocazione, comunque sia un personalismo.
    Naturalmente basta mostrare che non tutte le narrazioni di un insieme di fatti sono sostenibili per gettare a mare questa farlocca teoria della narratività che infatti ha fatto proseliti tra i fresconi che poco frquentano i numeri e il pensiero scientifico.
    In cui tra l’altro non esistono narrazioni: non si narra un’equazione, perché se la narri la tradisci con un illusione di comprensibilità data al lettore.
    Quindi narriamo pure Esopo ma non l’economia che ha bisogno di ragionamenti, non di strutture attanziali.

  2. Neanch’io ho grande simpatia per chi identifica narrazione e realtà e fa della questione della verità una semplice questione di coerenza del discorso. Fiction, filosofia e cronaca si collocano in momenti diversi del giudizio di realtà, che si compie propriamente solo quando congettura e interpretazione si espongono a una verifica fattuale. Ma non mi pare che questo (ingenua) inconsapevolezza sia imputabile all’articolo di Girolamo De Michele, se non facendone la caricatura.
    Semmai chiederei a Girolamo di integrare nella “parresia” i dati di un’economia sconcertante (quella greca intendo), in cui il livello di produttività è bassissimo a fronte di un uso pletorico del pubblico impiego e di un sistema pensionistico insostenibile.
    Ora tutti sappiamo che, i greci sono costretti dalla “troika” a lacrime e sangue per pagare un debito pubblico che è in mano ai greci ricchi (banche soprattutto) e che prestiti o non prestiti, il default della grecia è una certezza (stanno solo ritardandolo per decidere “quando” sarà più opportuno dichiararlo). Quel che dalla Grecia in poi bisognerebbe seriamente mettere in discussione è unn’economia fondata su aspettative crescenti e debiti: non l’età veneranda di Ulisse, ma il suo vizio di viaggiare a destra e a manca anzichè badare a terra e sposa.

  3. @Valter Binaghi scrive: “Ora tutti sappiamo che, i greci sono costretti dalla “troika” a lacrime e sangue per pagare un debito pubblico che è in mano ai greci ricchi (banche soprattutto) e che prestiti o non prestiti, il default della grecia è una certezza (stanno solo ritardandolo per decidere “quando” sarà più opportuno dichiararlo). ”
    Purtroppo non in mano solo a greci ricchi, ahimè. Se così fosse sarebbe tutto inquadrabile in una lotta a due classi e si potrebbe per lo meno puntare facilmente il dito contro qualcuno attraverso la sicurezza di note categorie concettuali. Inoltre le banche non sono entità sovraindividuali che vivano di vita propria. Se il debito greco è in mano alle banche lo è nella misura in cui è strutturato e frammentato in tutta una serie di strumenti finanziari di cui per esempio fa parte inconsapevolmente il tuo fondo previdenza o il timido fondo comune in mano al pensionato di qualche altro stato mondiale. Quindi dire banche indica per lo più il risparmio degli individui.

  4. @ Valter Binaghi
    Be’, Valter, non è che l’idea di badare a “terra e sposa” non abbia prodotto un bel po’ di mostruosità in Europa nel corso del XX secolo e in buona parte continui a produrle. Così come è il viaggiare in lungo e in largo che produce la storia, non il restare fermi. Questo soltanto per dire che in effetti sì, come premesso da Girolamo, i miti, le favole, le narrazioni possono avere interpretazioni diverse e anche contrapposte. Fai bene a constatare che Girolamo nel suo articolo àncora quelle interpretazioni a “fatti” economici ad esse sottesi e a volte da esse nascosti.
    Perché in sostanza non so quanto sia ipotizzabile una dicotomia secca tra crudi “fatti” e “storie” che ce li interpretano e raccontano. E questo non significa affatto sostenere che tutto è interpretazione, che la realtà è solo narrazione, etc. etc. , bensì semplicemente constatare che i meri conteggi devono andare insieme alla capacità di immaginare una fine diversa rispetto a quella che vogliono farci fare. Altrimenti a che servono?

  5. @Wuming4
    Non parli a suocera perché nuora intenda: io e Binaghi non siamo parenti.
    La sua domanda merita una risposta. “[…]bensì semplicemente constatare che i meri conteggi devono andare insieme alla capacità di immaginare una fine diversa rispetto a quella che vogliono farci fare. Altrimenti a che servono?”
    Servono a capire i fatti e non a muovere i cuori. Solo che comprendere una fattualità non implica un movimento che tende verso qualcosa. È solo per coloro che debbano muovere altri a fare qualcosa che compare il problema del senso inteso come scopo, come fine. Quindi la questione della narrazione si risolve per quel che è: una retorica per creare persuasione.
    Fine.

  6. @ hommequirt
    Veramente io mi stavo rivolgendo proprio a Valter Binaghi, rispondendo e chiosando affermazioni fatte da lui.
    Rispetto alla sua obbiezione invece non saprei proprio che dire: se vogliamo rinunciare a muoverci verso qualcosa, possiamo in effetti stenderci in un angolino e crepare in silenzio. E’ un’opzione come un’altra.

  7. @Wu Ming4
    Sai che non è l’autarchia fascista che ho in mente, ma piuttosto una certa frugalità che i popoli mediterranei hanno saputo tradizionalmente coltivare prima di seguire le sirene del globalismo sfrenato. Fare di un paese agricolo e pastorale un villaggio vacanze per americani ricchi e pensare di diventare ricchi come quei turisti a suon di debito pubblico forse non è stata una buona idea.
    Io ai greci voglio bene, comunque.
    Da oggi si snobba l’emmenthal e si compra il feta.

  8. @ Valter Binaghi
    Un sacco di falsi miti di sviluppo, per parafrasare Battiato… (e per salvare – pallino mio – la pasoliniana distinzione tra “progresso” e “sviluppo”). Tuttavia direi che possiamo essere d’accordo sulla constatazione che – come si evince dall’articolo di Girolamo – c’è un dato sistemico (i fatti, per dinci, i fatti!) che ha indotto e avuto bisogno della nascita di quei miti tecnicizzati e delle narrazioni che ci hanno portato a questo punto. Gli anni Ottanta e Novanta non sono mica trascorsi invano. Poi lo so che tu potresti risalire al libertarismo degli anni Settanta e il summenzionato Pasolini al boom economico degli anni Sessanta, ma non credo sia il punto d’origine a essere importante adesso, quanto il punto d’arrivo.

  9. @ hommequirt
    curioso atteggiamento il suo: quando interpellato direttamente da un gigi qualsiasi, il massimo che si possa aspettare da lei è un bel “plonk!” (mi creda sulla parola, la prego).
    Se invece, non si sente chiamato in causa da un WuMing ordinale qualsiasi, allora si dà dattorno a una replica non richiesta!
    Chi è, di noi due, il troll? Preferisco autonominarmi: diciamo che potrei essere la conduttrice di un qualsiasi di “trolljebus” sulla linea che passa dalle parti dello “Stagno dei Patriarchi”.
    Per tornare alla quistione “narrazione VS fatti” come la definirebbe allora la sua affermazione:
    “… dire banche indica per lo più il risparmio degli individui”
    non è essa una narrazione e per giunta grossolana e fuorviante, essa è?
    Ca staga bin…

  10. @hommequirit peccato che la politica servirebbe tra le altre cose a far muovere le persone in qualche direzione che abbia un senso, sia pure sulla base di fatti che di per sé non sempre ne hanno o ne hanno uno solo, e addirittura a farle muovere come comunità, oltre che come individui, pensa te… ecco perché anche a noi poveri ignoranti di banchismi ed equazioni i fatti tecnici andrebbero accompagnati, tradotti ed incorniciati da narrazioni comprensibili e che indichino una direzione. Altrimenti, come ha detto WuMing4, potremmo effettivamente sdraiarci in un canto e morire senza rompere, in effetti la fine (o il fine?) è quella per tutti, tanto vale…

  11. Piuttosto che identificare realtà e narrazione, potremmo accordarci sulla componente di narrazioni della nostra storia, nel senso che anche trasmissioni orali, leggende, miti hanno avuto e possono continuare ad avere la loro influenza al pari di fatti realmente accaduti, di misure e numeri, il cui incastro reciproco e dinamica lo storico è comunque chiamato a cercare di districare.
    Ma la reinterpretazione degli antichi miti in chiave attuale, Penelope ed Ulisse o Teseo e Arianna, vale soprattutto per la sua forza mediatica, e i greci fanno bene a ricordarci come le radici europee, su cui non si riesce a mettersi d’accordo, affondino in questi miti e racconti. E forse il più adatto è quello d’Ifigenia, per il sacrificio che oggi si richiede alla Grecia, non più sulla punta della spada ma per mezzo di conti e numeri, che simulano per qualcuno “scientifica” ineluttabilità.

  12. Le obiezioni qui presenti richiedono due risposte, una più tecnica (che è quella che mi interessa meno), l’altra più “filosofica” (che ci posso fare, è mestiere mio), che rinvio alla prossima risposta.
    @ Valter
    La lettura del libro di Chesnais, del quale cito solo un paragrafo, fornisce un quadro abbastanza chiaro di come, a livello generale, sia stato creato il debito pubblico globale – che non è solo greco – e di come (e qui qualche riferimento nel mio articolo c’è) la Grecia si sia progressivamente indebitata non, come vuole la narrazione/leggenda dominante, perché si è speso in modo inconsulto nel settore del pubblico impiego, ma perché alla Grecia è stato assegnato un modello di sviluppo a bassa produttività (queste sono le condizioni del mercato, che non è un’entità naturale, ma qualcosa di creato dagl iesseri umani con fini e scopi ben precisi), a fronte di un generale abbassamento della fiscalità (lì come in tutto l’Occidente) sempre e solo a vantaggio dei ceti più abbienti. Si aggiunga che il modello che faceva crescere il debito (lì come in Francia come in Spagna come in Italia…) non solo partiva da un’ampia sforbiciata del carico fiscale della parte abbiente del paese, ma si traduceva in un aumento dei profitti di quello stesso ceto abbiente, nonché di quei governi che si arricchivano grazie allo squilibrio inport/esport greco, e che proprio per questo non vigilavano sui bilanci greci: un circolo infernale, sul quale le grandi banche, o Società d’Intermediazione Finanziaria, sono intervenute col piede a martello. Per ulteriori dettagli dovrei necessariamente rimandare all’intero libro, e alle recensioni di Marazzi e Fumagalli in prima battuta (e in seconda battuta ai molti lavori, anche militanti, di Fumagalli, Marazzi, Bologna, Viale, ecc.), nonché al “moderato” Varoufakis: trattare ciascuno di questi testi richiederebbe a sua volta un articolo a sé.
    Intanto, si potrebbe cominciare con la proposta (Guido Viale in Italia) di un audit sul debito pubblico, in modo da prendere consapevolezza delel reali cifre e del significato di ogni singola voce.
    @ hommequirit
    L’articolo è tratto da “carmilla”, e rimanda a contributi pubblicati su “uninomade”: in entrambi i siti ci sono diffuse analisi, con relativi rimandi, su cosa comporterebbe il default selettivo, ovvero la dichiarazione concordata d’insolvenza. In prima lettura ti rimando qui (con i relativi link, che sono parte integrante del testo).
    Mi limito a un’analogia con la FIAT, che la narrazione dominante vuole aver abbattuto il debito con la “cura Marchionne”. Chi sa leggere un bilancio (ma basta una recensione o un rapporto economico e/o sindacale) sa che Marchionne ha abbattuto il debito semplicemente concordando con le banche creditrici la cancellazione di una parte di esso (default concordato, né più né meno) e la trasformazione di altra parte di esso in titoli azionari FIAT (per cui le banche sono divenute proprietarie di una quota FIAT), con in sovrappiù una ipervalutazione in borsa di detti titoli (cioè creazione di nuova moneta). Default controllato, Eurobond a tasso fisso emessi da una BCE governata dalla politica (a sua volta condizionata da movimenti sociali di protesta), creazione di moneta attraverso un’attività che al momento la BCRE non può svolgere (ma la Detsche Bank sì, e lo fa, acquistando titoli tedesco all’emissione) sono l’equivalente globale del “salvataggio” della FIAT.

  13. Seconda battuta, alla quale tengo molto più che alla prima (premessi i doverosi ringraziamenti a Loredana, che ripostando qui il mio pezzo ne ha, credo, colto davvero lo spirito).
    Non a caso il mio articolo parte da Penelope, non dai bilanci e dai numeri. E fa propria una considerazione importante di Lanfranco Caminiti (del quale consiglio altresì questa lettura) su come il tecnicismo stia assottigliando il vero spessore umano della crisi.
    La metto così, banalizzando molto (se poi un editore mi accetta la proposta di un libello sulla crisi che sto facendo girare, ne riparliamo in analitico): l’attuale crisi è l’esito di un sistema di organizzazione delle vite, dei corpi, degli scambi umani e monetari, delle merci materiali e immateriali prodotte e scambiate che subordina la materialità della vita all’astrattezza del valore. Qualcuno (Valter Binaghi, ad esempio) dirà che è necessario rimettere in discussione il presupposto antropologico di fondo di questa visione del mondo, e io rispondo: infatti, è proprio così. Continuare a chiedersi chi paga i costi, quali sono le compatibilità di bilancio, a quanto deve ridursi lo spread, significa rimanere all’intereno di questo ordine del discorso: ma all’interno di questo discorso la crisi non è un elemento di rottura, perché fa parte del suo ordine, e dunque non è un problema – qualcuno si sta comunque arricchendo, qualcun altro sta iniziando a ristrutturare, e per i restanti 4/5 dell’umanità cazzi. È il capitalismo globale, bellezze!
    La mia prospettiva è di un’assoluta incompatibilità con questa narrazione, con questi dispositivi, con questi processi di governance, con questo mondo di merda. La mia propsettiva mette in primo piano le vite, la loro materialità e anche il diritto a una dimensione spirituale, qualunque cosa si pensi di corpo, anima e della loro eventuale relazione. I costi di queste vite degne di essere vissute, e la distribuzione delle ricchezze in quest’ottica, non precedono, ma seguono. In tutta franchezza, mi interessa davvero discutere a partire da questa narrazione, da ques’ordine del discorso. A chi cerca compatibilità con l’attuale ordine del mondo non ho risposte diverse da quelle degli Aganaktismeni di piazza Syntagma. Agli altri dico: cominciamo a mettere al centro dei nostri discorsi il valore della vita, dell’istruzione, dell’infanzia e della vecchiaia; parole forse un po’ borghesi come “fraternità”, “giustizia”, “dignità”; pronomi come “noi”, “voi”, invece che “io”, “tu”; smettiamola di concentrarci sui numeri delle finanziarie, e cominciamo a guardare altri numeri – ad esempio, quanti sono i bambini in stato di indigenza ricoverati negli ospedali greci (lo sapevate che sta succedendo?), quanti esseri umani muoiono di fame e di freddo in inverno; smettiamola di considerare un valore il numero del PIL, e guardiamo ad esempio ai numeri che esprimono l’aspettativa di vita, la scolarizzazione media: cose così.

  14. aggiungo altra piccola info.
    besos
    Grecia, un collasso targato Goldman Sachs
    http://it.peacereporter.net/articolo/31466/Grecia%2C+un+collasso+targato+Goldman+Sachs
    L’opinione dello scrittore e giornalista investigativo americano Greg Palast, collaboratore di Bbc, Observer e Guardian, esperto di frodi commerciali e scandali finanziari
    Lo scrittore e giornalista investigativo americano Greg Palast, collaboratore di Bbc, Observer e Guardian, è un esperto di frodi commerciali e scandali finanziari.
    Per la rivista americana di sinistra In These Times ha scritto un interessante articolo sui veri responsabili del collasso economico della Grecia, intitolato “Pigri tracanna-ouzo e sputa-olive. O, come Goldman Sachs ha saccheggiato la Grecia”.
    Ecco cosa ci hanno raccontato: l’economia della Grecia è esplosa perché una banda di greci sputa-olive, trangugia-ouzo e culi pigri si rifiuta di lavorare per una giornata intera, se ne va in pensione di lusso anticipata e si gode costosissimi servizi sociali finanziati con l’indebitamento. Ora che il conto è arrivato e i greci devono pagarlo con tasse più alte e tagli al welfare, loro corrono a ribellarsi urlando per strada, sfasciando vetrine e bruciando banche.
    Io questa storia non me la bevo, perché il documento che ho in mano è marcato come ‘Riservato’.
    Vado al dunque: la Grecia è la scena di un crimine. I greci sono vittima di una frode, di una truffa, di una fregatura, di una fandonia. E, tappate le orecchie ai bambini, l’arma fumante del delitto è in mano a una banca di nome Goldman Sachs.
    Nel 2002 Goldman Sachs ha segretamente acquistato 2,3 miliardi di euro di debito pubblico greco, convertedoli tutti in yen e dollari, e rivendendoli immediatamente alla Grecia. Un affare con cui Goldman ha perso un sacco di soldi. Sono stati stupidi? Come una volpe: l’operazione era un imbroglio basato su un falso tasso di cambio fissato dalla banca. ecc..

  15. @Giro
    “un modello di sviluppo a bassa produttività (…) a fronte di un generale abbassamento della fiscalità (lì come in tutto l’Occidente) sempre e solo a vantaggio dei ceti più abbienti”.
    Cioè, la de-tassazione Reagan più la grancassa filo-globalista Clinton, il via libera alla speculazione selvaggia e la Grecia come ultimo pirla col cerino in mano? Per usare un’espressione di Latouche, direi che “decolonizzare l’immaginario” è urgentissimo.
    Altro che ridicolizzare la potenza delle narrazioni.
    Vai così, Giro, che insegnare l’analisi economica a un somaro patafisico come me è ormai impresa tardiva e disperata, meno male che c’è chi come te ha imparato da giovane 🙂

  16. @Girolamo
    Ho letto il suo articolo che mi ha consigliato: nelle sue intenzioni probabilmente affronterebbe il problema delle conseguenze di un default selettivo o meglio di una ristrutturazione parziale del debito.
    Io spero per lei che l’articolo voglia essere un esempio di una tesina da liceale che abbia formato la sua competenza facendo un collage degli editoriali che circolano sui più disparati quotidiani; l’esempio quindi di come sia facile imbastire una narrazione contemporanea della lotta di classe, con i suoi cattivi speculatori da una parte e gli innocenti lavoratori dall’altra. Perché se così non fosse dovrei dirle che il livello di analisi è altamente insufficiente, a partire dai dati grezzi. A parte i refusi sulle cifre del debito, scusabilissimi, per carità, le consiglio di cominciare a riflettere sulla tabella della suddivisione di quel debito. In particolare vorrei farle notare che quel 32,23% del debito pubblico in mano alle banche non è di loro proprietà e non si oppone all’11.42% detenuto da individui singoli. Così come non si oppone al 52.05% in mano a investitori esteri.
    Basta infatti che lei acquisti un banale PCT da qualsiasi banca per scoprire che non è altro che debito pubblico che la banca le gira a un tasso inferiore a credito in cambio della funzione di supplementare garanzia su quel prestito che bypassa quella dello Stato e che permette alla banca un margine di profitto nell’allocazione di quell’obbligazione. Così come se lei acquista uno dei migliaia di fondi di investimento a titolo privato esso figurerà come detenuto da una SIM e non da lei. Così come un fondo previdenziale italiano o estero, così come un’infinità di strumenti assicurativi, ça va sans dire, non sarà rubricato come detenzione da parte di singoli privati ma come detenzione da parte di Società finanziarie.
    Perciò è cominciando, come fa lei, dall’attribuire al cittadino italiano solo l’11,42% del possesso del debito che può poi allestire le sue narrazioni in cui il mancato pagamento dell’obbligazione comporterebbe ripercussioni marginali sui cittadini.
    Come vede è solo quando ci si sbaglia sul dato fattuale che la narrazione incontra sentieri che si biforcano e permette di dire ciò che si vuole. Io la considero troppo intelligente per appiattirsi su una visione così limitata delle conseguenze del non pagare un debito per Paesi che come l’Italia o la Grecia non possono fare affidamento su risorse energetiche, minerarie o latifondistiche significative. Ci pensi su. Non è per niente banale provare a narrare – ma io direi dedurre – la catena degli effetti di una simile decisione con occhi non velati dall’ideologia.

  17. @ hommequirit
    Come potrà verificare, ad esempio anche dalle mie risposte qui, oltre che dai testi che linko (non editoriali dei quotidiani, peraltro), la proposta di un default controllato, o selettivo (associata a un audit sul debito publbico) si basa sulla forza politica che deriverebbe da uno governo che rappresentauna quota consistente della ricchezza dell’intera Unione Europea, di prospettare il reale default alle sociatà creditrici, per imporre (già detto, già ridetto) la conversione del debito in Eurobond a tasso fisso politicamente determinato, la ricontrattazione del debito, e via ripetendo. Le percentuali, le cifre e la suddivisione che riporto (prese dal bollettino agostano della Banca d’Italia) sono finalizzate a questo ragionamento.
    Al default, quello vero, con le conseguenze catastrofiche che Lei paventa, ci penseranno le banche tipo Goldman Sachs, o Deutsche Bank (creatrice dello spread tra titoli italiani e titoli tedeschi) quando converrà loro farlo.

  18. Le cifre che lei ha preso dalla Banca d’Italia, per quanto concerne la suddivisione del debito in tavola 5 non sono finalizzate a nessun ragionamento che non sia l’essere piegate alla sua tesi (http://www.bancaditalia.it/statistiche/finpub/pimefp/2012/sb4_12/suppl_4_12.pdf). Se davvero il debito interno fosse ammontato alla risibile percentuale dell’11,42% non staremmo qui a parlare in quanto il potere ricattatorio italiano avrebbe già portato a proprio favore il negoziato e non si vedrebbero ragioni per cui a destar come a sinistra non sarebebro dovuti giungere alle sue elementari conclusioni di strategia della domenica.
    Inoltre potrebbe cercare di spiegarsi con quale meccanismo il debito italiano posseduto da italiani si sarebbe volatilizzato a favore degli esteri, risposta che dovrebbe farla cadere dal pero.
    Naturalmente narrare avendo in testa quella più che errata percentuale farebbe prendere cantonate deduttive a cervelli ben più dotati del mio, perfino del suo.
    Non ci sarà nessun default perché è proprio la forza politca (e quindi economica) della Germania che ha tutto l’interesse a fare quel che sta facendo: pressare gli Stati insolventi a fare pesanti politiche di rientro dal debito dilazionando il più possibile l’inevitabile costituzione di uno strumento obbligazionario europeo comune. Quindi è inutile chiedere perché la Germania sia recalcitrante a formalizzare la soluzione del problema: dal suo punto di vista deve diminuire il più possibile il prezzo che il contribuente tedesco dovrà pagare in termini di erosione inflattiva del suo capitale al fine di salvare gli Stati inadempienti e dare l’avvio a una politica fiscale comune soltanto da una posizione che ritiene equa per il proprio portafoglio.
    (http://www.bancaditalia.it/statistiche/finpub/pimefp/2012/sb4_12/suppl_4_12.pdf)

  19. @ hommequirit
    Se davvero il debito interno fosse ammontato alla risibile percentuale dell’11,42% non staremmo qui a parlare
    Infatti: questa affermazione io non l’ho mai scritta. Ho scritto (che è cosa diversa) che secondo i dati della Banca d’Italia l’11.42% del debito riferito a titoli di vario tipo è posseduto da famiglie, e società non finanziarie, ossia “altri residenti”, distinti da Istituzioni finanziarie residenti e non e Banca d’Italia, come illustrato dal grafico che esemplifica la tabella 5 della pubblicazione della Banca d’Italia.
    Traduco: i detentori di quell’11.42% sono residenti, cioè cittadini italiano, privati, cioè non istituzioni finanziarie. La salvaguardia dei loro titoli (pur tenendo presente che tra loro può esserci tanto il fontaniere Brambilla Mario quanto il proprietario di locali Briatore Flavio) è fuori discussione, così come lo è la quota di titoli detenuta dalla Banca d’Italia. Sul resto si può, e deve, aprire un contenzioso, a rafforzare il quale sarebbe opportuno un preliminare audit sul debito che portasse a differenziare la pensione integrativa della famiglia Togni presso JPMorgan dali titoli derivati emessi dalla stessa JPMorgan.
    Ma, visto che Lei ama mettermi in bocca e sulla tastiera parole che non ho detto e concetti che non ho espresso, per l’appunto non stiamo qui a parlarne.

  20. @Girolamo
    Vedo che continua a fare il (finto) tonto. Ero persuaso di averle spiegato sufficientmente che l’11,42% rappresenta solamente la percentuale di privati che detiene *titolarmente* e *direttamente* un ‘obbligazione del Tesoro italiano. Ma il 32,23% in possesso delle banche è naturalmente in gran parte una partita di giro di soldi degli stessi cittadini italiani sottoforma di altri strumenti nominali. E non diversamente le cose vanno per il 52,05%, titolarmente in mano a investitori esteri, perché se io vanto diritti su un fondo comune con sede estera nel cui portafoglio v’è un titolo si Stato italiano, ebbene, quel titolo sarà registrato a un investitore straniero ma i soldi che andrei a perdere nel caso di, non onorabilità del debito, sono miei!
    Il suo macro errore continua a essere dissociare le banche dagli individui, come se le prime fosse entità a se stanti. Così lei legge 32,23% e crede che il possesso non riguardi singoli cittadini ma astratti paperoni.
    Tutto questo dovrebbe farle finalmente capire che è oltre la metà del debito italiano a essere posseduto da cittadini italiani dove solo il 44% (poco più di 694miliardi di eruo) è effettivamente in mano a non italiani. Ha capito?
    Per questo motivo chiunque vada propalando l’ooportunità di un default selettivo, o addirittura una sua mancata restituzione, non sa di cosa parla e non ha la minima idea sistemica delle conseguenze, peggiorando la situazione dello stesso cittadino che vorrebbe tutelare.

  21. Certo che il concetto di “forza politica” è un gran lubrificatore di narrazioni: come una bacchetta magica rende indipendenti tutte le variabili che tocca. Speriamo non finisca in cattive mani.
    Anche gli Eurobond (tradotto: pagano i tedeschi – e zitti), è un bootstrap che fa calzare di tutto, scarpette di Cenerentola comprese.
    La vedo dura comunque districare la matassa dei buoni e dei cattivi, in queste faccende tocchi un filo e vibrano tutti (che dispettosi!), un po’ come il mare davanti a Genova che non sta fermo mai… e i risparmi del rag. Balducci finiti nel fondo Azimut di Unicredito che ha investito cospicuamente in titoli JPMorgan destinati a collassare dopo il nostro “tié, ciapa su”? E quelli di Mr. Smith che per altra complicata via descrivibile solo attraverso periodi proustiani sono destinati a medesima sorte?… a proposito Mr Smith è forse più cattivo del Rag. Balducci perché canta l’ inno sbagliato? E Herr Muller? E Bey Mustafà (la borsa di Istanbul è così sensibile a certe quotazioni)?
    Il concordato fallimentare è istituto degnissimo, ma in qualsiasi legislazione civile si chiude con i creditori che votano. Sdoganare l’ arbitrio (pago chi ho voglia di pagare – o chi mi dice di pagare l’ inchiesta di Report) è un modo certo per dilapidare la fiducia internazionale. 
    Ripensandoci, ma che ce ne facciamo della “fiducia internazionale” quando è disponibile la narrazione del “frugale” e della società che sostituisce il dono al debito? Beati i Greci ai quali viene data la chance di uscire dal ruolo loro assegnato da Sua Maestà il Sistema tornando alla beneamata pastorizia.
    P.S. visto che sono stati denunciati tanti miti (narrazione, crescita, debito…) vorrei denunciare anche il mito della “verità”. Per carità, io sono un fan della verità, ma non facciamola tanto facile visto che tutti sappiamo come spesso sia un ostacolo non da poco al perseguimento del bene comune.
        

  22. Ovviamente d’accordo con lei, Broncobilly. Tuttavia l’articolo da lei linkato non è che un caso specifico di teoria dei giochi. Sempre nello specifico dell’esempio citato è facile dimostrare che la verità continua a essere utile. Se infatti Draghi avesse detto la verità sulla negatività della manovra, ciascun soggetto sarebbe stato autorizzato a sapere che anche altri sapevano. E finqui il ragionamento fila. L’articolo si tuttavia limita a supporre che allora tutti avrebbero venduto con conseguenza catastrofiche: a dimostrazione, nelle intenzioni dello scrivente, che dire la verità avrebbe in questo caso conseguenze negative. Invece è proprio sapendo che tutti sanno che viene calmierata la possibilità di una vendita collettiva. Infatti il comportamento razionale migliore che se ne deduce, a parità d’informazione diffusa da Draghi, è vendere allo scoperto per massimizzare il profitto in una previsione di vendita massiccia. Ma proprio per fare ciò occorrerà ricoprire la posizione entro un dato limite temporale, riacquistando a prezzo più basso ciò che si è venduto – tanto per spiegare ai manichei che lo strumento finanziario che permette (ma non obbliga) l’esercizo di un diritto di vendita o di acquisto a un prezzo o a un tempo dato non solo non è il male assoluto ma rappresenta un razionale strumento di equilibrio del sistema, e tende a controbilanciare (su scala logaritimica) eccessive volatilità di un indice o di un titolo.
    Perciò dire la verità (potendola dire, non solo credendola tale) sarebbe comunque la scelta più neutra poiché la catena delle conseguenze sfugge comunque al controllo di chi voglia perseguire una via piuttosto che un’altra. Quindi tanto vale dirsi onesti 🙂

  23. Insomma anche i filosofi fanno i tecnici. Stiamo diventando tutti tecnici, hai voglia a ritirare in ballo formiche e cicale. sempre di titoli di stato, di spread etc. si parla.
    Invece come al solito dobbiamo tornare alla politica e mi sembra che insistere sui massimi sistemi dell’organizzazione economica, spaziando dalla crisi del capitalismo al ritorno alla pastorizia, sia eccessivo quando il nodo politico che abbiamo sotto gli occhi è l’Europa: se crediamo nell’ideale dell’Unione e come fare per ricomporre un progetto che sta per fallire. Perchè se ci mettiamo da questo punto di vista anche i pesi e le misure, gli errori i debiti e le colpe vanno ricollocati. Un conto se consideriamo ciascuno stato per sè e un conto se come parte di un tutto che sarebbe e dovrebbe essere.

  24. Pessima gestione delle Olimpiadi 2004, enormi speseper gli armamenti e ESENZIONE FISCALE PER GLI ARMATORI PREVISTA NELLA COSTITUZIONE???????
    Chi è causa del suo mal pianga sè stesso.

  25. Premetto che la mia conoscenza economica è prossima allo zero. Per questo penso che l’articolo di Girolamo sia veramente interessante, nel suo tentare di legare la narrazione all’economia. Ho sempre pensato che in ogni ambito umano si raccontino storie e anche in ambiti scientifici, cosa che tra l’altro forse l’economia non è, spesso ci si nasconda dietro a una narrazione, piuttosto che a una verità di difficilissima interpretazione.
    Quello che vorrei chiedere a Hommequirit e Broncobilly, senza nessuna polemica, è come pensano di uscire da questa situazione. Che cosa farebbero, visto come bacchettano gli altri, per rendere più equo il nostro paese. Cosa sarebbe opportuno, visto che l’audit sul debito pubblico gli sembra quasi una castroneria, per abbattere il debito. La vendita del 30% dell’oro della Banca d’italia ( la butto lì la cifra ma se mi sbaglio scusatemi) cioè circa 400 miliardi di euro? Oppure? Gli Euro bond sono una castroneria? Va bene , ma allora???

  26. @Pino Valente
    Per quanto mi riguarda io sono comunista, quindi sarei per una simulazione e pianificazione dell’economia di mercato e un’organizzazione in soviet e non per partiti.
    Quello che rimprovero alle altrui “narrazioni” è la consistenza. Senza buone diagnosi non ci saranno buone terapie. In fondo, e qui probabilmente Girolamo sarà d’accordo, il problema dei problemi sta alla base: cosa giusitifichi per il benessere collettivo il principio per cui l’ora spesa dal lavoratore meno retribuito (preso a unità di misura) debba essere infinitamente minore degli altri lavori. Sempre un’ora di una vita mortale è. Criterio marxiano. Altrimenti si potrebbe proporre un limite massimo di profitto attraverso, poniamo, una tassazione che raggiunga il 90% dell’imponibile oltre a una certa soglia di ricchezza (diciamo 400000 euro all’anno, tanto per dire una cifra non a caso e che rappresenti l’1% della distribuzione di reddito tra i contribuenti), per punire gli effetti (che sono solo deleteri) della plutomania.
    La questione è che allo stato attuale non vi sono metodi non violenti per ripartire da un anno zero. Perciò per quanto riguarda l’Italia, o la Grecia o altri, rassegniamoci razionalmente alla progressiva, omeopatica, carsica perdita di diritti.
    D’altronde 1credere altriemnti che quei 15 milioni di persone che hanno ieri guardato Sanremo, inebetiti dalle scosciature delle bellone e o dai sermoni dei Celentano, siano la massa critica con cui rovesciare il sistema, qualunque cosa sia?
    Questa è l’epoca dei tanti sedativi autoindotti, non delle rivoluzioni, ahimè.

  27. Idea balzana (ma anche no)
    Se come dice hommequirit il debito pubblico italiano è nelle mani degli italiani, perchè non proporre di bruciare questi titoli tossici in cambio di un bene progressivo e futuro, per es. uno sconto sull’età pensionabile, o un incremento spalmabile su dieci anni di pensione o cose così?

  28. @Valter Binaghi
    Forse perché per l’italiano il collettivismo di un bene progressivo e futuro è qualcosa di vago e indeterminato mentre l’individualismo del suo personale patrimonio presente è qualcosa di tangibile e minacciabile?
    Come ci ha suggerito Broncobilly con i suoi paradossi linkati, un equilibrio nella teoria dei giochi presuppone parì razionalità e pari informazione tra i giocatori. Tuttavia gli individui sono giocatori altamente imperfetti, presupponendo che il masochismo e l’autolesionismo dovrebbero essere evitati e non perseguiti.
    Insomma, se l’individuo fosse capace di porsi razionalmente la sua ipotesi, estendola a tutti, non avremmo problemi e il mondo sarebbe un paradiso in terra.

  29. Uno schema di Ponzi è uno schema di Ponzi è uno schema di Ponzi
    una piramide finanziaria è una piramide finanziaria è una piramide finanziaria
    http://www.guardian.co.uk/business/dan-roberts-on-business-blog/interactive/2009/jan/29/financial-pyramid
    http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2011-11-23/mondo-seduto-52mila-miliardi-090333.shtml?grafici
    i Sig.ri Rossi e Smith che mettono i loro soldi in una catena di S.Antonio sono …eccetera
    Tutti sappiamo che fine sono destinati a fare i Ponzi’s Scheme meglio noti come catene di S.Antonio, anche quelli migliori, studiati dai migliori cervelli matematici e basati sulle teorie dei giochi o sulla speculazione fraudolenta o..
    E’ solo questione di tempo. Chiedetelo a Madoff. Troppo casalingo per durare. Ma durato abbastanza
    http://en.wikipedia.org/wiki/Bernard_Madoff
    In Europa si profila la fase dei vulture funds. La fase terminale.
    i Sig.ri Rossi e Smith che mettono i loro soldi nei vulture funds sono eccetera..
    tutto si regge finchè ci sono carogne da spolpare.
    infine ci si augura almeno un sano cannibalismo che metta fine all’agonia. Amen
    ecchecaz…
    http://en.wikipedia.org/wiki/Vulture_fund
    http://icebergfinanza.finanza.com/2012/01/23/grecia-accordo-raggiunto-anzi-no-mai-fare-i-conti-senza-gli-hedge-fund/
    http://www.liquida.it/hedge-fund/
    http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2012-01-17/avvoltoi-finanza-carneficina-greca-215453.shtml?uuid=AaB0XLfE
    ..In occasione dell’ultima crisi finanziaria, quella che adesso rischia di affossare la Grecia, Marathon fu uno dei primi a ritirare i propri capitali da Bear Sterns (accelerandone il crack) e a creare un suo fondo per beneficiare dal bagno di sangue dei mutui subprime.
    «La liquefazione del mercato dei subprime è stata assolutamente incredibile. E ha creato opportunità significative» scrisse in quell’occasione Richards in una lettera ai suoi clienti in cui annunciava la creazione di un nuovo fondo «per giovarsi della carneficina del mercato subprime con una strategia di acquisto opportunistico di beni sottovalutati». Parole sue. Che descrivono il modus operandi di Marathon con un cinismo a cui non sarebbe arrivato neppure a un membro di Occupy Wall Street.
    Ed è la stessa strategia che adesso Richards sta applicando alla Grecia. Marathon è infatti uno degli speculatori che negli ultimi mesi si sono gettati sui titoli di Stato greci. Assieme ad altri fondi speculativi come York Capital Management Lp, passato alla storia per le fortune fatte comprando bond di società fallite, dalla Enron alla Adelphia Communications, da Tyco International a World Comm.
    Beati i signori Rossi e Smith che hanno scommesso i loro dinè in Marathon. Di stati europei in fallimento coatto se ne vedranno parecchi, gli avvoltoi (signori Smith e Rossi?) avranno lauti pasti per una generazione… almeno.
    e ricordiamoci il mantra: gli Stati POSSONO fallire Banche/finanza NO, visto che sono sempre (o quasi) troppo grandi per fallire e devono essere salvate (dagli Stati, prima che falliscano).
    una Banca è una Banca è una Banca
    uno Stato è un’accozzaglia di sfigati (a parte poche eccezioni ben selezionate).
    Besos

  30. Peccato che il sistema bancario globalizzato è già fallito, è solo imbalsamato dai governanti codardi e pusillamini, a partire da Obama, il più pusillamine di tutti.
    Il fatto è che la marea di titoli che inondano i mercati finanziari sono da un punto di vista obiettivo carta straccia (non vi corrisponde alcun valore effettivo, almeno nel senso di valore d’uso, e sono complessivamente inesigibili già soltanto in base al loro importo), ma nello stesso tempo sono per le grosse corporations che le hanno emesse e se le sono nel corso degli anni scambiate, la loro stessa ricchezza.
    Noi parliamo tanto di bilanci pubblici, di possibili default, di misure di austerità, ma l’unica cosa che bisognerebbe dire alla gente è che il sistema bancario è fallito, solo questa elementare verità.
    Dal mio punto di vista quindi, la questione non sta nella scelta di fallire o non fallire e simili amenità, sta nell’inevitabilità di un big bang che, malgardo lo sforzo di governi che hanno tradito il loro popolo, avverrà prima di dieci anni, forse anche molto prima.
    Se le cose stanno così, ciò che un governo previggente che avesse a cuore il destino dei suoi governati, dovrebbe fare sarebbe quello di premunirsi per quando tutto ciò avverrà. Nessuno sarà esente dagli effetti distruttivi di questo big bang, ma sarà comunque possibile minimizzarne i costi per potere il giorno dopo ripartire celermente e appropriatamente.
    Che ognuno lo dica come sa, con la fiction o coi grafici, purchè dica questa verità, perchè dire cose diverse è sostanzialmente mentire.

  31. hommequirit
    stavi andando da dio (anche se io ho capito poco più di un tubo di tutto quello che hai detto, per limiti miei, intendiamoci), poi anche tu, o meglio tu quoque, mi sei caduto su Sanremo e sull’invettiva verso tutti i milioni – dico milioni – di persone che passivamente lo guardano, EVIDENTEMENTE tutti rimbambiti.
    E’ proprio vero ahimè: come si fa con gentaglia così che si beve tutto quel che gli vien detto ed è del tutto priva di senso critico e che si autoinduce sedativi, come si fa dico anch’io a organizzare una bella rivoluzioncina!
    Strano però: io che sono una sempliciotta ho trovato in rete diverse iniziative concrete a cui potersi aggregare, soprattutto quando si è comunisti favorevoli a “un’organizzazione in soviet e non per partiti”…

  32. È già girato in rete, ma vi segnalo questa prima parte di una puntata de L’Infedele, dove Andrea Fumagalli argomenta in modo più “scientifico” di cosa significa “default controllato”. Per chi ha fretta, la seconda parte del suo intervento (quella più in tema) è al minuto 10, la replica alle obiezioni del direttore del “Corriere della Sera” (non diverse da quelle di @hommequirit) al minuto 25, più o meno. Andrea Fumagalli non insegna alla Bocconi, ma è cmq un “accademico” e un “economista”, per quel che contano i titoli, e gli cedo volentieri la parola.
    Intanto, stamattina una madre ridotta a vivere da un anno in un’opera pia per poveri si è tolta la vita assieme alla figlia, gettandosi giù.

  33. @ Hommequirit
    Non voglio assolutamente personalizzare la discussione con te solo che non ho capito bene la risposta sui soviet , che mi sembra un tantinello più irrealizzabile di un default controllato ( come ti dicevo sono , dal punto di vista economico, una totale zappa) e ti faccio altre domande per capire meglio
    Per quale motivo devo necessariamente cedere i miei diritti piuttosto che fare un default controllato? Che cosa è, veramente, più devastante per un cittadino X qualsiasi? Perchè un audit sul ns debito è così deleterio? La proposta che fa Binaghi perchè sarebbe irrealizzabile?

  34. Vedo che il mio commento non è stato preso in alcuna considerazione.
    La cosa potrebbe lasciarmi abbastanza indifferente, se non per quanto possa essere addebitato alla mia insufficiente chiarezza. Così, proverò a non saltare divento a mia volta alcuni passaggi che ho dato per scontati.
    La crisi scoppia nel 2008 a causa di titoli tossici, cioè divenuti inesigibili. Se io banca emetto titoli di credito che i debitori non riescono a restituirmi, divento a mia volta un debitore inaffidabile. Poichè però non sono un privato cittadino e sono al contrario attivo sui mercati finanziari, la mia insolvenza si propaga rapidamente a tutto il sistema. Negli ultimi mesi di mandato, Bush prende la decisione di lasciar fallire la sola Lehman e brothers, salvando le latrte grosse banche cintervenendo con un fondo apposito a garanzia dei debiti bancari.
    Badate, non è che questo fondo (di 700 miliardi di dollari) risolveva il problema dei titoli tossici, togliendoli dai mercati, no, questo sarebbe stato impossibile dato il loro ammontare enorme, i titolli tossici sono rimasti dov’erano e sono in gran parte ancora lì. Anzi, di nuovi, altrettanto tossici, sono stati emessi dalle banche, non per malvagità, ma per ritardare il momento della resa dei conti. Emettendo cioè nuovi titoli, le banche riescono ad onorare le scadenze che riguardano in primis le loro transazioni interne al sistema bancario.
    In più, abbiamo i CDS, una sorta di assicurazione che l’investitore che sceglie un investimento rischioso, può sottoscrivere. Non so se è chiaro a che livello di perversione si è giunti. Io, investitore, scelgo di rischiare, ma senza rischiare, la follia assoluta, anche perchè chi assicura è certo che non potrà fornire la copertura del rischio su cui pure si è impegnato.
    Oggi, siamo nella condizione che in giro per i mercati finaziari del mondo, circolano circa 600 mila miliardi di dollari di titoli di ogni tipo, una cifra enorme difficilmente quantificabile. Per capire quanto sia enorme questo importo si consideri che esso corrisponde a circa nove anni di PIL annuo mondiale. Insomma, per pagare questi titoli, il mondo intero dovrebbe produrre per nove anni utilizzando tutto per il loro pagamento.
    Se le cose stanno così, ma queste sono cifre non contestabili, questi titoli sono evidentemente cartaccia, e neanche lo sforzo c0oncertato degli stati potrebbe risolvere questo problema, s enon riducendo drasticamente il valore facciale dei titoli, cosa che però determinerebbe automaticamente il fallimento dell’in tero sistema bancario.
    Ciò che USA e Regno Unito stanno facendo è creare la liquidità necessaria al rimborso dei titoli man mano che vanno in scadenza stampando il denaro necessario. Quel che però dovrebbe essere chiaro è che gli stati non possono
    Per questo, dovrebbe essere chiaro che quando si parla di manovre varie, di provvedimenti a livello governativo, o di FMI, o ancora di banche centralisino al punto di stampare tutto il denaro che sarebbe necessario, se non coinvolgendo anche il denaro in una situazione analoga a quella in cui oggi si trovano i titoli, cioè determinando una spaventosa inflazione che si tradurrebbe presto nel rifiuto generalizzato ad accettare denaro tornando forse al baratto.
    Per questo, dovrebbe essere chiaro chwe provvedimenti di ogni genere assunti a livello governativo o di FMI o ancora di banche centrali ed istituzioni europee rappresentano solo differenti modalità per giungere a quel nodo ineludibile, il fallimento dell’intero sistema bancario, evento che si potrà forse rinviare ma non più evitare.

  35. @Broncobilly, tié
    “Piccoli regni con pochi abitanti: arnesi da lavoro in luogo d’uomini (sian dieci o cento) il popolo non usi. Tema la morte e fuori non emigri. Se anche vi son navigli e vi son carri, il popolo non tenti di salirvi; se anche vi son corazze e vi son armi, mai e poi mai le tiri fuori il popolo. E ritorni ad usar nodi di corda; e trovi gusto in cibi e vesti suoi; ed ami la sua casa, i suoi costumi. Se stati si vedessero vicini tanto che cani e galli se ne udissero, invecchino così, fino alla morte quei due popoli: senza alcun contatto.”
    (Lao Tse – Tao te King, 80)

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