LE FAVOLE MORALI DEL FANTASTICO: STEPHEN KING SU HARLAN ELLISON

Da oggi e fino al 26 agosto, come ogni anno, questo blog chiude per far riposare un po’ la sua titolare. Ma vi lascio un piccolo regalo che è insieme un consiglio di lettura: è una raccolta di racconti di Harlan Ellison, “Strange Wine” (1978), di cui Stephen King parla in “Danse macabre” (traduzione di Giovanni Arduino) nel passo che riporto. Parla di quel che, secondo me, dovrebbe fare la letteratura fantastica. Buone vacanze a tutti.
«Tu non sei uno scrittore», mi disse una volta un giornalista in tono leggermente offeso; «tu sei una maledetta industria. Come puoi pensare di esser preso sul serio se continui a sfornare un libro all’anno?» Prima di tutto, io non sono una «maledetta industria» (a meno che non si tratti di un’industria a conduzione famigliare); io lavoro con un ritmo costante, ecco tutto. Lo scrittore che produce un libro ogni sette anni non sta facendo Pensieri Profondi; anche un libro lungo richiede al massimo tre anni. No, uno scrittore che produce un solo libro in sette anni sta facendosi delle seghe. Ma la mia fecondità (per quanto io possa essere definito fecondo) impallidisce di fronte a quella di Ellison, che ha scritto a una velocità incredibile; fino al 1979 aveva pubblicato più di mille racconti. Oltre a quelli pubblicati sotto il suo nome vero, Ellison ha scritto con i nomi di: Nalrah Nosille, Sley Harson, Landon Ellis, Derry Tiger, Price Curtis, Paul Merchant, Lee Archer, E.K. Jarvis, Ivar Jorgensen, Clyde Mitchell, Ellis Hart, Jay Solo, Jay Charby, Wallace Edinondson e Cordwainer Bird.
(…)
I suoi racconti migliori sembrano abbastanza forti da contenere sia idee sia concezioni morali, e la cosa più sorprendente, in questi racconti, è che se la cava anche con la morale; è raro che venda il suo nome per una storia con un messaggio. Non dovrebbe essere così, ma nella sua furia Ellison riesce a trascinare tutto, non barcollando ma di corsa.
In Hitler Painted Roses, abbiamo Margaret Thrushwood, le cui sofferenze fanno sembrare quelle di Giobbe un’unghia incarnita. Nel racconto Ellison suppone (come fa anche Stanley Elkin nel suo The Living End) che la realtà del dopo-morte dipenda dalla politica: cioè da ciò che pensano di noi i viventi. In più, immagina un universo in cui Dio (qui, un Dio multiplo e ci si rivolge a Lui con il Loro) è un imbroglione che bada alla sua immagine e non ha alcun interesse per ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
L’amante di Margaret, un veterinario di nome Doc Thomas, uccide l’intera famiglia Ramsdell nel 1935, quando scopre che l’ipocrita Ramsdell («Non voglio puttane a casa mia», dice Ramsdell quando scopre Margaret a letto con Doc) si è trastullato anche lui ogni tanto con Margaret; apparentemente la definizione di «puttana» per Ramsdell comincia quando lui smette di essere il partner sessuale di Margaret.
Solo Margaret sopravvive alla follia omicida di Doc, e quando i suoi concittadini la trovano viva, la dichiarano subito colpevole e la linciano. Margaret è mandata all’inferno per il crimine che si pensa abbia commesso, mentre Doc Thomas, che muore in pace nel suo letto ventisei anni dopo, va in paradiso. Il modo in cui Ellison vede il paradiso è simile a quello di Stanley Elkin in The Living End. «Il paradiso», ci dice Elkin, «sembra un parco di divertimenti.» Ellison lo vede come un posto in cui una moderata bellezza bilancia a stento una moderata volgarità. Ci sono altre somiglianze; in entrambi i casi, persone buone (ma che dico, sante) vengono mandate all’inferno per quello che sembra essere un errore di trascrizione, e in questa disperata visione della condizione umana, anche gli dèi sono esistenzialisti. Il solo orrore che ci è risparmiato è la vista dell’Onnipotente con le scarpe da ginnastica Adidas, una racchetta Head sulla spalla e un cucchiaino da cocaina al collo. Lo vedremo prossimamente.
Prima di abbandonare questo paragone, dirò che mentre il romanzo di Elkin fu molto ben accolto dalla critica, la storia di Ellison, pubblicata per la prima volta su Penthouse (rivista che in genere non è acquistata da chi va in cerca di eccellenza letteraria), è quasi sconosciuta. Lo stesso Strange Wine è quasi sconosciuto, in realtà. La maggior parte dei critici ignorano la fantasy perché non sanno che dirne, se non è un’esplicita allegoria. «Scelgo di non scrivere critiche di fantasy», mi disse una volta un critico che scrive nientepocodimeno che sulla New York Review of Books. «Non mi interessano le allucinazioni dei pazzi». Sempre bene essere in contatto con persone così democratiche. Ti apre la mente.
Margaret Thrushwood fugge dall’inferno per un colpo di fortuna, e nella sua descrizione eroicamente gonfiata dei presagi che anticiparono questo evento soprannaturale, Ellison ci diverte con una riscrittura dell’Atto primo del Giulio Cesare di Shakespeare. Lo humour e l’orrore sono gli originali Chang ed Eng della
letteratura, ed Ellison lo sa. Si ride… ma c’è sempre quella corrente sotterranea di disagio.
Mentre il sole spento passava l’equatore celeste andando da Nord a Sud, si rivelarono innumerevoli portenti: un vitello a due teste nacque a Dorset, vicino alla cittadina di Blandford; navi fracassate affiorarono dalle profondità della Fossa delle Marianne; ovunque, gli occhi dei bambini si fecero vecchi e saggi; le nuvole assunsero la forma di eserciti in armi sopra lo Stato indiano del Maharashtra; il muschio squamoso nacque velocemente sui lati a sud dei megaliti celtici e morì dopo pochi minuti; in Grecia le piccole violacciocche cominciarono a sanguinare e la terra intorno ai mazzetti emise un puzzo di putrefazione; tutte e sedici le sinistre diræ designate da Giulio Cesare nel primo secolo avanti Cristo, incluso il versare il sale e il vino, l’incespicare, lo starnutire e lo scricchiolare delle sedie, divennero manifesti; l’aurora australe apparve ai maori; un cavallo con le corna fu visto dai baschi correre per le strade di Vizcaya. Innumerevoli altri presagi.
E si aprirono le porte dell’inferno.

La cosa migliore del passaggio sopracitato è che si può sentire Ellison decollare, compiaciuto per l’effetto e l’equilibrio del linguaggio e dei particolari descritti, spingere, divertirsi. Tra quelli che scappano dall’inferno durante il breve periodo in cui le porte rimangono aperte ci sono Jack lo Squartatore, Caligola, Carlotta Corday, Edward Teach («con la barba ancora ispida ma semibruciata e incolore… ridendo malvagiamente»), Burke e Hare, e George Armstrong Custer.
Sono tutti riportati indietro eccetto Margaret Thrushwood. Va fino in paradiso, affronta Doc… Ed è mandata indietro da Dio quando il suo rendersi conto di tutta l’ipocrisia fa sì che il paradiso si incrini e si sfaldi agli angoli. La pozza d’acqua in cui Doc tiene i piedi, quando Margaret gli si para davanti con il suo corpo annerito e piagato, comincia a riempirsi di lava.
Margaret ritorna all’inferno, convinta di poterlo sopportare, mentre il povero Doc, che comunque lei ama ancora, no. «Ci sono certe persone cui non dovrebbe essere permesso scherzare con l’amore», dice lei a Dio nella migliore frase della storia. Hitler, nel frattempo, sta ancora dipingendo le sue rose proprio all’entrata delle porte dell’inferno (troppo assorto perfino per pensare a scappare quando queste si erano aperte). Dio gli dà un’occhiata, ci dice Ellison, e «non vede l’ora di tornare da Michelangelo, a dirgli della grandezza che aveva scorto, lì, nel più improbabile dei posti».
La grandezza che Ellison vuole che vediamo, naturalmente, non sono le rose di Hitler ma l’abilità di Margaret di amare e continuare a credere in un mondo in cui sono puniti gli innocenti e premiati i colpevoli. Come in molti racconti di Ellison, l’orrore si avvolge intorno a una qualche fetida ingiustizia; il suo antidoto consiste in genere nella capacità degli uomini di superare l’ingiusta situazione, o, senza quella, di raggiungere almeno un modus vivendi per conviverci.
(…)
Molti di questi racconti sono favole (parola difficile in un momento letterario in cui il concetto di letteratura è visto in modo semplicistico) ed Ellison usa la parola con sincerità in molte delle sue introduzioni ai racconti. In una lettera che mi scrisse, datata 28 dicembre 1979, discute dell’uso della favola nella fantasy, relegata sullo sfondo dal mondo moderno
«Il mio messaggio è sempre lo stesso: siamo i più sofisticati, i più ingegnosi, in potenza i più divini costrutti che l’universo abbia mai creato. E ogni uomo o donna ha dentro di sé il potere di riordinare a suo piacimento l’universo percepito. Tutti i miei racconti parlano di coraggio, morale, amicizia e durezza. A volte lo fanno con amore; a volte con violenza, a volte con dolore, rimpianto o gioia. Ma tutti danno lo stesso messaggio: più sai e più puoi fare. O come disse Pasteur: «Il caso favorisce le menti preparate».
«Io sono contro l’entropia. Il mio lavoro è a favore del caos. Passo la mia vita in modo personale, e faccio il mio lavoro in modo professionale. Quando non sei più pericoloso ti chiamano zanzara; preferisco piantagrane, scontento, desperado. Mi vedo come un incrocio tra Zorro e il Grillo Parlante. Le mie storie scaturiscono da questo e suscitano un gran chiasso. Ogni tanto un critico o un denigratore dice del mio lavoro: «Scrive solo per scioccare».
«Io sorrido e annuisco. Precisamente».
Così scopriamo che il tentativo di Ellison di «vedere» il mondo attraverso la lente della fantasia non è molto diverso dai tentativi di Kurt Vonnegut di «vederlo» attraverso una lente di satira, di semifantascienza, e di una specie di insulsaggine («Hi-ho… Ecco com’è… che vi sembra»); o dai tentativi di Heller di «vederlo» come una tragicommedia senza fine rappresentata in un manicomio a cielo aperto; o dai tentativi di Pynchon di «vederlo» come la commedia dell’assurdo da più tempo in programmazione (la citazione che precede la seconda sezione di L’arcobaleno della gravità è tratto da Il mago di Oz: «Non credo che siamo più in Kansas, Toto…» e probabilmente Harlan Ellison sarebbe d’accordo che questo riassuma la vita del dopoguerra in America). L’essenziale similarità tra questi scrittori è che tutti loro scrivono favole. Nonostante i vari stili e punti di vista, il fatto è che questi sono tutti racconti morali.

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