LE FIABE DEVONO ESSERE INEDUCATE: DIGRESSIONE DA GIAN BURRASCA A BANKS

Due fatti fra loro distanti mi fanno pensare a una stessa problematica. Il primo, più grande e doloroso, è la morte di Russell Banks, uno scrittore eccelso stranamente non notissimo in Italia. Il secondo è minimo ma fa pensare: gli sms che quotidianamente lamentano la lettura ad alta voce de Il giornalino di Gian Burrasca di Vamba in quanto, in ordine sparso, diseducativo o disturbante o addirittura (dagli inizi del secolo!) causa del peggioramento morale del nostro paese.
Perché le due cose sono collegate? Partiamo da Russell Banks, che nel 1991 scrive Il dolce domani. Per Banks, il dolce domani è il sogno dell’America liberal: e quando racconta l’incidente di uno scuolabus che precipita sul ghiaccio uccidendo la gran parte dei bambini della cittadina di Sam Dent, ha in mente qualcos’altro: “negli Stati Uniti – diceva – da una ventina d’anni qualcosa di terribile è accaduto ai nostri bambini. Li abbiamo persi”. Era il 1991. Aggiunse: “Una comunità che perde i bambini perde l’anima. L’America è in uno stato di crisi profonda, antropologica. Con la perdita dei nostri bambini, l’avvenire passa dietro di noi, e ci lascia di fronte al dolce domani illusorio”.
Nel 1997 Atom Egoyan trarrà un film dal romanzo. Nel film risuonano i versi del Pifferaio magico di un poeta, Robert Browning.
The Mayor was dumb, and the Council stood
As if they were changed into blocks of wood,
Unable to move a step or cry,
To the children merrily skipping by–
And could only follow with the eye
That joyous crowd at the Piper’s back.

Molti anni dopo, nel 202o, i fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo ritorneranno sugli stessi passi con il film Favolacce. Nella Spinaceto di Favolacce non si vive male, in apparenza. Le villette sono graziose, hanno il giardino, volendo ci si può collocare la piscina (salvo poi distruggerla per evitare di distinguersi troppo, o di allargare i confini della famiglia, forse). Sicuramente ci si crescono bene i figli. Nella periferia romana sono spuntati da anni piccoli complessi residenziali quasi identici: ne conosco e ne ho frequentati diversi. Si entra con un codice numerico, le strade sono curate, ogni villino ha il box auto e i padri tagliano da soli l’erba del giardino e naturalmente grigliano bistecche e salsicce e bruschette nel forno a mattoni di cui i villini sono provvisti. Ci si saluta da un villino all’altro. A volte si cena insieme. Ci si odia, anche, segretamente o meno. Perché sono una delle crescenti gated community, comunità serrate dove ci si rinchiude perché fuori, ehi, non è sicuro, ci sono gli zingheri, ci stanno i ladri, e noi abbiamo i bambini.
“Abbiamo” i bambini significa “possediamo” i bambini. Credo che ancora non si sia ragionato abbastanza sul senso di possesso e iperprotezione che si è sviluppato negli ultimi venti-venticinque anni. Bambini da esibire. Da proteggere spianando macerie, includendo nelle macerie tutti gli altri. Bambini che sono, devono, essere noi, meglio di noi anzi: ma non è affatto il famoso gesto di Ettore, che leva in alto, con speranza, il piccolo Astianatte. E’ poco più di un selfie, invece. Tu sei come me, appunto. E se sei come me devo non ascoltarti ma plasmarti, ignorandoti. E’ l’appagamento infinito del desiderio, quello che si mette in atto. Come scriveva Michela Marzano anni fa, “ sacralizzazione del “desiderio”, e dunque anche del “desiderio di un figlio”, corrisponde perfettamente ad un´epoca in cui la rivendicazione della propria libertà di scelta si traduce molto più spesso di quanto non si creda in una nuova forma di conformismo. Se tutti desiderano un figlio, perché io non posso? E, soprattutto: se non ci riesco, c´è qualcosa, in me, che non va?”. E un padre, in una puntata di Presa diretta del 2016, negava ogni ruolo educativo alla scuola, ribadendo “mio figlio è mio”.
Le cose sono peggiorate anno dopo anno, con le lotte fra genitori sui social, con l’attacco agli insegnanti sui gruppi whatsapp. Chiara Volpato nel suo bellissimo saggio “Le radici psicologiche della disuguaglianza” spiega che in una società disuguale la competitività aumenta, e nel caso del materno, ignorato socialmente o turpemente utilizzato da certi fautori della “famiglia”, a disuguaglianza si somma disuguaglianza, e a competizione si somma competizione e a possesso si somma possesso.
Dunque le famiglie di Favolacce hanno bambini. Ruotano anzi attorno a quei bambini, alla bella pagella che sono chiamati a esibire, al risentimento per i pidocchi che sicuramente qualche “pulciaro” ha diffuso. Quei bambini sono anche oggetto di sfogo violento, eppure sono altrettanto certamente amati in quanto proprietà da esibire: in quanto, come dice il padre di uno di loro, “sei come me”, sei la mia proiezione nel mondo, sei mio. C’è un insegnante di chimica nella storia, a cui i bambini si rivolgono quando provano a costruire una bomba, suscitando sgomento nelle famigliole. Quando il professore viene per questo licenziato, terrà la sua ultima lezione su un pesticida mortale che si trova facilmente in ogni giardino, e costa poco. Tutti i bambini, alle quattro del mattino, si suicidano, lasciando gli adulti nella disperazione e nell’orrore. Tutti tranne uno, il più timido, il più strano, che il padre ha portato via prima di quell’ultima lezione, e per questo, cresciuto, racconta la storia (o forse non è lui a farlo, ma non ha importanza).
In estrema sintesi, questa è la trama. E questa, a mio modo di vedere, è la rielaborazione di una delle fiabe più angosciose della tradizione. Parlo del Pifferaio di Hamelin, trascritto dai fratelli Grimm da una leggenda che nasce nel tredicesimo secolo in Germania, molto probabilmente nel corso di un’epidemia di peste. Il pifferaio viene chiamato dal borgomastro per allontanare i topi da Hamelin con il suo piffero magico, visto che i topi portano con sé il bacillo della peste. La cittadinanza si rifiuta di pagarlo, e nella notte, mentre gli adulti dormono, il pifferaio irretisce tutti i bambini col suono della sua musica e li porta con sé, facendoli scomparire per sempre. Tutti e 130, tranne uno, il diverso, lo zoppo, che non riesce a tenere il passo con gli altri e si salva, o almeno può tornare a raccontare quel che è avvenuto (cosa, poi? I bambini sono finiti nel fiume Weser come i topi? Attraversano le grotte di una montagna e si ritrovano in un luogo felice? Le varianti sono numerose, ma la sensazione è che il lieto fine di alcune versioni sia posticcio).
Ora, ognuno può giudicare la somiglianza delle tre storie, favola e romanzo e film, e identificare il pifferaio. Tutte e tre aprono tantissime questioni: la prima riguarda proprio il lieto fine delle favole, che in moltissimi casi riteniamo indispensabile, per noi e per i nostri figli. Ma nel momento in cui scrivo “per noi e per i nostri figli” dovreste avere un brivido, perché è esattamente questo che pensano convintamente i genitori di Favolacce e quelli dell’antica cittadina del pifferaio.
Qualche tempo fa, su Topipittori, si commentava la così il Pifferaio di Hamelin:
“Questa fiaba mette a fuoco un’evidenza dirompente: l’incapacità di una comunità adulta di essere all’altezza della crescita della nuova generazione. E non per ragioni astratte o vaghe o filosofiche, fumose e poco comprensibili. Il non mantenere la parola data, il tradire il principio della giustizia, la lealtà, il rispetto e la fiducia su cui si basa il patto sociale, non sono semplicemente un escamotage scusabile per tirare l’acqua al proprio mulino e rendere più floride le casse del governo (e quindi della comunità), ma qualcosa di ben più grave e dalle conseguenze più drammatiche: è minare le fondamenta stesse della comunità nella sua stessa ragione d’essere. E mette a nudo un nodo fondamentale: una comunità adulta che fa questo può essere considerata ancora adeguata a crescere i propri figli? Su che base, su che principi lo farà? Potrà essere credibile la sua parola per i più giovani?”
In queste storie, muoiono tutti i bambini tranne uno. Così nella fiaba del Pifferaio di Hamelin, dove il bambino zoppo resta indietro e dunque non riesce a seguire il pifferaio come vorrebbe, e torna a raccontare quel che è accaduto. Così ne Il dolce domani, dove sopravvive una bambina in sedia a rotelle. Così in Favolacce, dove Geremia, quello strano, quello che vive fuori dal complesso residenziale, in una casa in mezzo alla campagna e non ha madre, ma solo un padre incosciente ma nel suo vorace modo amoroso, che lo porta via prima dell’ultima lezione, via da tutti gli altri, via prima che si decida la morte collettiva. E’ lui, il fool di Dio, a sopravvivere, crescere, forse raccontare.
Perché questa è la funzione dei testimoni, che non casualmente nella fiaba e nel film di Egoyan sono zoppi o resi inabili a camminare: uno zoppo, in alchimia, raffigura qualcosa che è a cavallo tra due mondi, lo spirituale ed il materiale. E chi attraversa i mondi deve raccontare, tirare le fila.  E raccontare in modo “ineducato”.
Le fiabe raccontano sempre la vita, in modo ineducato, e solo dopo arriva qualcuno ad abbellirle, a renderle dolci e innocue. Salvo, poi, conservare uno spiraglio di speranza, nel sopravvissuto che resta per ricordare per noi, per consegnarci una storia, e fare di quella storia, se non un monito, uno specchio.
Ecco, dopo questo lungo post, questo vorrei fosse chiaro: le storie per bambini non devono essere educate. Altrimenti, come diceva Banks, quei bambini li perdiamo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Torna in alto