LE ROSE DI HITLER E IL NOSTRO SCONTENTO

Dunque, proviamo a fermarci. Siamo già fermi, direte voi, ed è vero. Ma quanto fermi? Quante ore di queste lunghe settimane abbiamo davvero pensato non dico a riprogettare le nostre vite, perché è faccenda che neanche i santoni o gli indovini possono fare ora, ma a interrogarci su qualcosa di diverso che non sia il pangolino o lo zibetto o il procione o il pipistrello o il laboratorio o il bunker della Spectre da cui è partito tutto, su cosa avremmo fatto noi al posto di, su quello che hanno fatto gli altri, sui test sierologici, sull’ibuprofene, sui retrovirali, sull’indice di contagio, su cose di cui non capiamo per lo più nulla e di cui sembriamo espertissimi, su quanto rimpiangiamo il tiramisù di quel determinato bar, la coda alla vaccinara di quel ristorante e su come ci mancano laghi, mari, baite, voli e treni.
Tutto legittimo, sono cose che faccio anche io, o per meglio dire che ho fatto fin qui anche io, esclusi i rimpianti per la coda alla vaccinara. Però, mentre guardo la pioggia stamattina, penso che sono certamente tutti ragionamenti e pensieri ed emozioni che ci sono utili, che ci impediscono di urlare (e so, prima che qualcuno me lo dica, che moltissimi hanno molte più ragioni di me per urlare e disperarsi), ma che a questo punto stagnano come i bordi degli acquitrini, e nuotarci dentro come girini non mi attira più.
Mi sembra chiara una sola cosa: non ci capiamo niente. Né noi profani, né molti esperti, e non per loro colpa, ma perché questo virus è faccenda nuova e tutta da studiare, ancora, e uno studio di questo genere richiede tempo, competenze, soldi e fortuna, e non è detto che li avremo tutti insieme.
Bene, brava, che si fa? Non lo so. Se c’è una cosa che ho imparato in questi mesi è che non siamo in grado, o per lo meno non lo sono io, di insegnare niente a nessuno, dunque non lo faccio. Pretendere che mi venga ricambiata la cortesia è eccessivo, e forse non lo voglio nemmeno, perché appunto continuo a leggere, studiare, informarmi e alla fine, davanti alla pila di notizie e studi che mi si accumula nel cervello continuo a dire: non ne sappiamo nulla, o ne sappiamo appena poco di più di febbraio.
Quel che posso fare io è intestardirmi sulla complessità, sulle cose che non sono bianche e non sono nere, che si torcono in spirali di chiaroscuri e ci mostrano che bene e male non sono divisi. Come gli scrittori sanno. Come gli scrittori fantastici, soprattutto, se posso, sanno.
Per questo, la miglior cosa da farsi stamattina (cit) per me, oggi, è riportare qui quanto Stephen King dice di Harlan Ellison, e del suo strepitoso racconto Hitler painted roses, in Danse macabre. Forse serve, forse no, comunque è qui.
“I suoi racconti migliori sembrano abbastanza forti da contenere sia idee sia concezioni morali, e la cosa più sorprendente, in questi racconti, è che se la cava anche con la morale; è raro che venda il suo nome per una storia con un messaggio. Non dovrebbe essere così, ma nella sua furia Ellison riesce a trascinare tutto, non barcollando ma di corsa.
In Hitler Painted Roses, abbiamo Margaret Thrushwood, le cui sofferenze fanno sembrare quelle di Giobbe un’unghia incarnita. Nel racconto Ellison suppone che la realtà del dopo-morte dipenda dalla politica: cioè da ciò che pensano di noi i viventi. In più, immagina un universo in cui Dio (qui, un Dio multiplo e ci si rivolge a Lui con il Loro) è un imbroglione che bada alla sua immagine e non ha alcun interesse per ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
L’amante di Margaret, un veterinario di nome Doc Thomas, uccide l’intera famiglia Ramsdell nel 1935, quando scopre che l’ipocrita Ramsdell («Non voglio puttane a casa mia», dice Ramsdell quando scopre Margaret a letto con Doc) si è trastullato anche lui ogni tanto con Margaret; apparentemente la definizione di «puttana» per Ramsdell comincia quando lui smette di essere il partner sessuale di Margaret.
Solo Margaret sopravvive alla follia omicida di Doc, e quando i suoi concittadini la trovano viva, la dichiarano subito colpevole e la linciano. Margaret è mandata all’inferno per il crimine che si pensa abbia commesso, mentre Doc Thomas, che muore in pace nel suo letto ventisei anni dopo, va in paradiso. Il modo in cui Ellison vede il paradiso è  un posto in cui una moderata bellezza bilancia a stento una moderata volgarità.
Margaret Thrushwood fugge dall’inferno per un colpo di fortuna, e nella sua descrizione eroicamente gonfiata dei presagi che anticiparono questo evento soprannaturale, Ellison ci diverte con una riscrittura dell’Atto primo del Giulio Cesare di Shakespeare. Lo humour e l’orrore sono gli originali Chang ed Eng della letteratura, ed Ellison lo sa. Si ride… ma c’è sempre quella corrente sotterranea di disagio.
Mentre il sole spento passava l’equatore celeste andando da Nord a Sud, si rivelarono innumerevoli portenti: un vitello a due teste nacque a Dorset, vicino alla cittadina di Blandford; navi fracassate affiorarono dalle profondità della Fossa delle Marianne; ovunque, gli occhi dei bambini si fecero vecchi e saggi; le nuvole assunsero la forma di eserciti in armi sopra lo Stato indiano del Maharashtra; il muschio squamoso nacque velocemente sui lati a sud dei megaliti celtici e morì dopo pochi minuti; in Grecia le piccole violacciocche cominciarono a sanguinare e la terra intorno ai mazzetti emise un puzzo di putrefazione; tutte e sedici le sinistre diræ designate da Giulio Cesare nel primo secolo avanti Cristo, incluso il versare il sale e il vino, l’incespicare, lo starnutire e lo scricchiolare delle sedie, divennero manifesti; l’aurora australe apparve ai maori; un cavallo con le corna fu visto dai baschi correre per le strade di Vizcaya. Innumerevoli altri presagi.
E si aprirono le porte dell’inferno.
La cosa migliore del passaggio sopracitato è che si può sentire Ellison decollare, compiaciuto per l’effetto e l’equilibrio del linguaggio e dei particolari descritti, spingere, divertirsi. Tra quelli che scappano dall’inferno durante il breve periodo in cui le porte rimangono aperte ci sono Jack lo Squartatore, Caligola, Carlotta Corday, Edward Teach («con la barba ancora ispida ma semibruciata e incolore… ridendo malvagiamente»), Burke e Hare, e George Armstrong Custer.
Sono tutti riportati indietro eccetto Margaret Thrushwood. Va fino in paradiso, affronta Doc… Ed è mandata indietro da Dio quando il suo rendersi conto di tutta l’ipocrisia fa sì che il paradiso si incrini e si sfaldi agli angoli. La pozza d’acqua in cui Doc tiene i piedi, quando Margaret gli si para davanti con il suo corpo annerito e piagato, comincia a riempirsi di lava.
Margaret ritorna all’inferno, convinta di poterlo sopportare, mentre il povero Doc, che comunque lei ama ancora, no. «Ci sono certe persone cui non dovrebbe essere permesso scherzare con l’amore», dice lei a Dio nella migliore frase della storia. Hitler, nel frattempo, sta ancora dipingendo le sue rose proprio all’entrata delle porte dell’inferno (troppo assorto perfino per pensare a scappare quando queste si erano aperte). Dio gli dà un’occhiata, ci dice Ellison, e «non vede l’ora di tornare da Michelangelo, a dirgli della grandezza che aveva scorto, lì, nel più improbabile dei posti».
La grandezza che Ellison vuole che vediamo, naturalmente, non sono le rose di Hitler ma l’abilità di Margaret di amare e continuare a credere in un mondo in cui sono puniti gli innocenti e premiati i colpevoli. Come in molti racconti di Ellison, l’orrore si avvolge intorno a una qualche fetida ingiustizia; il suo antidoto consiste in genere nella capacità degli uomini di superare l’ingiusta situazione, o, senza quella, di raggiungere almeno un modus vivendi per conviverci”.

2 pensieri su “LE ROSE DI HITLER E IL NOSTRO SCONTENTO

  1. Sarà un off topic ma questa cosa la devo dire. Ieri mattina dopo nove anni di matrimonio ho dato per la prima volta della stronza a mia moglie. Poi nel pomeriggio, quasi richiamato da uno spirito invisibile, ho deciso di cominciare il tuo libro Magia nera (che avevo acquistato mesi prima insieme ad un’altra decina di libri). Ed è qui che comincia la straordinaria “coincidenza”. La storia che tu racconti in “Tu stessa, per inseguirlo” è verosimilmente vicina alla giornata che ho vissuto ieri, tranne la mia morte per fortuna, anche se due anni fa ci sono andato molto vicino. La lettura è stata terapeutica, e l’ho fatto leggere anche a mia moglie. Ora stiamo un po’ meglio. Quando si dice il potere della letteratura. Grazie Loredana

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