Giusto un anno fa ero a Bergamo, alla Fiera dei librai, sotto un tendone a presentareMagia nera e poi in giro per la città, dopo un sorprendente incontro con un compaesano di Serravalle, a cercare un pettine a forchetta perché avevo inopinatamente dimenticato il mio (una donna riccia non può sopravvivere senza un pettine a forchetta, anzi a forchettone, comprenderete), e poi a bere vino bianco e parlare di come si vive bene a Bergamo, e di come è bella e ricca la Fiera dei librai. Sarei tornata a Bergamo, anzi a Nembro, il 1 febbraio scorso, a chiacchierare con molte persone in una splendida biblioteca. Nulla, ovviamente, si presagiva: Bergamo e Nembro erano due nomi come tanti, due luoghi belli e vivissimi culturalmente.
Ora, non sto scrivendo questo post per nostalgia, ma perché sto riflettendo, in questi giorni, sul significato che abbiamo fin qui dato alle parole e su quello che dovremo dare già ora.
Ieri sera, dopo aver ascoltato Giuseppe Conte, mi sono posta un paio di domande pratiche (una, sostanzialmente: posso andare a trovare i miei suoceri, che vivono in un paese fuori Roma, con i miei figli? I figli sono due, due più due fa quattro, gatti esclusi: siamo un assembramento?). Non lo avessi mai fatto, perché subito è scattato, da alcuni almeno, il predicozzo (gli anziani! andarli a trovare! Guai! eccetera). La mia era solo una domanda: peggio incoglie a coloro che hanno – a mio parere giustamente – parlato dei bambini, da due mesi chiusi in casa, o della scuola, o – figurarsi!- della cultura.
Domande legittime quanto mai, eppure c’è come una perdita di senso in questi giorni su come ci rivolgiamo gli uni agli altri: ed è certo comprensibile, certo umanissimo, visto lo smarrimento in cui ci troviamo, e che però si somma a quella terribile illusione che in questi anni ci ha dato Facebook.
La letteratura fantastica lavora spesso, anche inconsapevolmente, sui presagi. Pensate a tutte quelle storie dove il protagonista è in grado di percepire i pensieri degli altri e, per non esserne sommerso, chiude la propria mente (me ne vengono in mente diverse di King, ma anche di Matheson). Quello che non ha previsto – giustamente, è letteratura – è che un giorno non avremmo saputo farne a meno. Di percepire i pensieri degli altri, le vite degli altri, le immagini degli altri. Sui social, per esempio. Dove, anche non volendo, so che qualcuno ha cucinato una torta, o è andato in ospedale, o ha ricevuto una telefonata importante, si è innamorato, ha avuto un figlio, ha comprato un vestito, si è tagliato i capelli, ha perso un genitore, e via così. E soprattutto ora, sappiamo così tanto delle vite altrui che ci sentiamo in diritto non solo di giudicarle, ma di interferire e di guidarle.
E’ un esercizio, quello di dare senso alle parole, che dovremmo fare con più energia di prima. Paolo Giordano, sul Corriere della Sera di oggi, ci ricorda che quella che si apre ora, con i contagi ancora alti, è una sfida al virus, non una vittoria. E aggiunge:
“Quella a cui stiamo per essere sottoposti è la più grande sperimentazione mai fatta sulla nostra responsabilità individuale.
Sarebbe provvidenziale, quindi, che un esempio straordinario di responsabilità arrivasse dall’alto. Purtroppo, la concordia e la compostezza dell’inizio emergenza sono finite da un pezzo. Tra le regioni, tra i politici, anche tra gli esperti si va già a rintracciare nella cronologia chi abbia sottovalutato di più e più gravemente la minaccia, chi non aveva capito o peggio, chi aveva capito e non ha parlato. Se da bambini ogni litigio sfociava nel «ha cominciato prima lui!», nel contagio l’accusa è contraria: «ha cominciato dopo lui!». Alle accuse si risponde con altre accuse più forti, oppure rivendicando fieramente: «abbiamo fatto tutto bene. Stiamo facendo tutto bene. Anzi, rifaremmo tutto identico». Sul serio? Sopra le traiettorie degli indici puntati, intanto, si dispiega un grande condono all’italiana: «era impossibile da prevedere… anche gli altri paesi… l’Italia poi si è trovata per prima… una situazione senza precedenti».
«“Scusa” sembra essere la parola più difficile», cantava Elton John. Da queste parti è una parola difficilissima. Ma questa volta abbiamo bisogno di essere stupiti. Perché la sofferenza di molti non si trasformi in frustrazione e poi in rabbia indiscriminata, ci serve una novità nel nostro dibattito pubblico: un’assunzione di responsabilità individuale e spontanea da parte degli attori principali di questa crisi, prima che torniamo là fuori. Non di colpa: di responsabilità, laddove le responsabilità comprendono le sottovalutazioni, gli errori, le disorganizzazioni, i ritardi, le leggerezze. L’opinione pubblica sarebbe molto più comprensiva di quanto non si creda. C’è uno spazio inedito di compassione nei confronti del potere, perché tutti riconosciamo l’eccezionalità delle circostanze. Ma non durerà a lungo. L’unico segnale che ho captato finora è un «mi dispiace» del sindaco Gori. Non è molto, ma è un inizio. Un apripista”.
Ma dovremmo, credo, cominciare da noi. Leggo molto, leggo analisi lucidissime come quelle dei Wu Ming, eppure non ho, e non mi vergogno di dirlo, idee chiare. Come detto, procedo lentamente, provando a orientarmi come quando si cammina in un corridoio buio, mettendo le mani avanti per tastare un armadietto, una scarpiera, per non inciampare. Respiro. Avanzo. Cerco compagni di strada che provino lo stesso disorientamento, la stessa volontà di non ergersi a giudice e di contenere la rabbia. Non ci riesco, non sempre almeno. Riprovo.
Sono una donna riccia anch’io, stanno ricrescendo ricci persino dopo la chemio, nonostante i foschi presagi di alcune amiche forse non tanto amiche, vedrai non saranno mai più come prima dicevano. Invece sono come prima, in compenso non ho più il pettine a forchetta. Dimenticato chissà dove,tanto non serviva, qui nel paesello di montagna non saprei dove acquistarlo.Le mie idee, a proposito di corona virus e fase due, sono contorte come i capelli. Non riesco a capire, nonostante anch’io legga e legga molto. Analisi lucide e ameno lucide. A me questo tempo fermo è piaciuto, non lo dico a voce alta però. Grazie dei tupi pensieri Un faro.
Cinzia cara, una delle due stelle! Ti capisco, perché il tempo fermo, in un certo senso, si sta rivelando molto utile anche per me. Un bacio, doppio.