Ma che fine ha fatto il futuro ?

Oggi post doppio per festeggiare il nuovo template (ho rimesso i link, se notate). Riccardo Ferrazzi mi invia i testi di un anno di blog, con i post usciti su Uffenwaken (a proposito, torna: date uno sguardo alla colonna a destra sotto Franz Krauspenhaar) e su Nazione Indiana. Uno era rimasto "in canna" ed io lo accolgo volentieri. Qui:

Certe volte faccio fatica a credere che siamo nel 2005. Apro il Magazine del Corriere e leggo una recensione. Di che si tratta ? Di un romanzo ambientato nella provincia italiana in epoca fascista. Apro il giornale, vado alle pagine culturali e l’articolo principale verte sul tema: è vero che Silone ha fatto l’informatore dell’OVRA ? Accendo la televisione: pare che papa Pacelli abbia promosso un complotto per assassinare Hitler. E via di questo passo. Il comune di Riccione restaura una casa dei Mussolini e la trasforma in museo: segue polemichetta estiva. Una canzoncina caraibica intitolata Camisa negra parla d’amore, ma quel titolo fa apologia di fascismo ? Segue polemichetta poco seria. Qua e là, nelle pagine culturali dei quotidiani, non si è ancora spenta l’eco dei trascorsi nazisti di Heidegger e di von Karajan (ma non di Furtwaengler, chissà perché).

  Leggo tutte queste cose e mi domando: ma chi se ne frega ? Sono passati 60 o 70 anni. Nel 1935, o giù di lì, i giornalisti andavano a rivangare lo scandalo Tanlongo – Banca Romana ? Sfruculiavano gli elenchi della massoneria per scoprire l’anno di affiliazione di Giosuè Carducci ? Forse a quei tempi non era di moda dedicarsi allo studio del passato remoto: solo perché il regime non gradiva i pettegolezzi o anche (e soprattutto) perché di ciò che era successo settant’anni prima non gliene fregava più niente a nessuno ?

Sasso_3  Il fatto è che una volta si guardava al futuro, e non al passato, perché nel futuro c’era scritta una parola terribile: guerra. Anche dopo il 1945 per un bel po’ si continuò a guardare al futuro con il timore di Armageddon. Ci fu la guerra di Corea (chissà perché non se ne parla mai), ci fu la nascita di India e Pakistan (con guerra civile e omicidio del mahatma Gandhi), la liquidazione degli imperi coloniali (Dien Bien Phu, altro nome dimenticato), la spedizione anglo-francese a Suez, la repressione della rivolta d’Ungheria. Di tutto questo si tace alla grande. Niente rievocazioni, niente revisionismi. Nessuno storico se ne interessa. Eppure ormai sono passati cinquant’anni e tutti gli archivi dovrebbero essere accessibili, persino quelli del Pentagono e del Cremlino.  E allora perché ogni estate delle poche che mi restano da vivere deve essere funestata da documentari con gerarchi in divisa che posano prime pietre, dall’immancabile libro di Arrigo Petacco, dall’immancabile replica di Luciano Canfora, dall’immancabile indignazione di Bocca e dall’immancabile piede-in-due-scarpe di Pansa ?   

  Ho un sospetto. Magari è una cazzata, ma lasciatemela esporre per esteso.

  In Inghilterra, Germania e in Francia la storia, la politica e i sistemi elettorali hanno fatto sì che dopo il 1945 gli integralismi fossero messi al bando. I partiti comunisti erano fuori legge o contavano poco. I partiti “cristiani” erano partiti conservatori, divisi al loro interno tra cattolici, protestanti e agnostici anticomunisti. Di partiti fascisti neanche l’ombra. In Italia invece, finché si votò con il sistema proporzionale, il 90% dei voti si concentrava su tre integralismi: quello cattolico, quello comunista, quello fascista. Queste due diverse impostazioni, in Italia e in Europa, stavano in piedi unicamente perché c’era la cortina di ferro e al di là c’era l’Armata Rossa: il babau.

  Anni 90: implode l’URSS, cade la cortina di ferro, baci e abbracci con l’Armata Rossa. In Italia cambia il sistema di voto, la sinistra diventa “liberal”, la destra diventa… boh ? Nel giro di dieci anni, anche chi non vuole ammetterlo si rende conto che, derubricati gli integralismi, destra e sinistra si riducono a due diversi comitati d’affari che, spesso, non sono neanche in concorrenza. Non si parla più di futuro semplicemente perché nessuno ha programmi e prospettive con un orizzonte temporale che vada al di là dei due-tre anni. Impegnarsi in una discussione sul modello di società da lasciare ai nostri figli significa soltanto esibire in pubblico l’assenza di ideali che contraddistingue gli uomini politici di tutta Europa (se non del mondo intero).

  In questa situazione, i giornalisti avvertono il desiderio che ha la gente di sentirsi prospettare certezze assolute (magari false e bugiarde, ma che non obblighino a pensare con la propria testa, come invece costringe a fare la maledetta democrazia). E siccome il fallimento del socialismo reale è troppo recente per alimentare altro che un po’ di nostalgia, siccome i papi carismatici non riescono a convincere più di tanto, che si può fare per trastullare le masse: emozionarle con un po’ di cerimoniali macabri e con il fascino del Male, per poi stupirle con le immagini di piazzale Loreto ? Ma sì: saccheggiamo i cinegiornali dell’Istituto Luce, ricuperiamo le lettere d’amore di Margherita Sarfatti, le immagini della battaglia del grano, tutto fa brodo.

  Ecco a cosa ci ha ridotti la pochezza intellettuale di una classe politica fatta di parvenus, di intrallazzatori, di eunuchi di palazzo. L’interesse per il ventennio non è che un sintomo della nostalgia per le visioni del mondo totalizzanti (leggi: Weltanschauung). Colpa nostra, se è vero che subiamo ancora il fascino degli slogan e del conformismo (non ultimo, il politically correct). Colpa nostra, visto che non sappiamo far politica se non contro qualcuno o qualcosa, e non vogliamo impegnarci per un ideale e per obbiettivi concreti. Ma colpa soprattutto di chi si propone come guida e si rivela incapace.

  Lo dico per la terza volta e non mi stancherò di ripeterlo: abbiamo bisogno di guardare al futuro e di pensare in grande.

15 pensieri su “Ma che fine ha fatto il futuro ?

  1. Non è facile raccogliere l’invito. Guardare avanti e pensare in grande era rimasta una delle poche speranze che si potevano coltivare in giardino insieme ai pomodori. Poi è arrivato Berlusconi che ha contaminato le nostre speranze con le sue ambizioni e adesso pensare in grande e guardare al futuro è diventato lo slogan preferito di questa banda di pomodori geneticamente modificati.

  2. Desidero ringraziare Loredana Lipperini, che è stata di una gentilezza davvero non comune. Penso di continuare a scrivere questi commenti, quando l’attualità ne offre il destro. Li posterò dove sarà possibile, sempre ringraziando per l’ospitalità.
    r.f.

  3. una certa curiosità morbosa per la storia recente (e non) non è una novità recente, mancoperniente.
    avere delle immagini “sdoganate” e avere perduto un po’ di tabu rende riciclabili argomenti già visti e replicati, e vabè.
    il “guardare avanti e pensare in grande” è una donchisciottata e basta, se non rappresenta un’esigenza collettiva esplicita.
    inoltre non necessariamente una certa disillusione rappresenta un passo indietro rispetto all’avere grandi speranze. anzi.
    e comunque trovo più preoccupante certo revisionismo storico.

  4. Abbiamo bisogno di pensare in grande, Riccardo? Difficilmente i grandi pensieri offrono soluzioni immediate – a meno che non siano sterminatori.
    Credo, invece, che abbiamo bisogno di cominciare a guardare al futuro con occhi da protagonisti.

  5. Più volte, quando insegnavo, feci adottare come testo di narrativa per le terze medie “Fontamara”, bellissimo romanzo sul passato che additava pericoli sempre in agguato anche per il futuro. Quanto all’uomo Silone… hai ragione, chissenefrega?

  6. Una pars destruens su cui concordo al cento per cento, condivido drammaticamente quello che hai scritto, ma non ho capito la proposta.
    E’ anche vero che la fine delle ideologie forti ha creato un vuoto, ma è altrettanto vero che 150 anni fa non c’erano, che sono un’anomalia della storia, che come sono apparse sono anche scomparse lasciando la loro traccia di sangue e qualche nostalgico.
    Guardare al futuro vuol forse dire figurarsi un mondo altro da quello che abbiamo nel passato? in questo caso ci vorrebbe una nuova ideologia fondante che parta da una tabula rasa, a meno di accogliere sine glossa lo sviluppo economico sostenibile e corretto come linea generale di guida che corregga il cammino iniziato nel dopoguerra dall’occidente per la nuova umanità, ma anche questo sa di Metropolis, di istanza ideale, di truffa.
    Ci sono al mondo ancora regni, regimi socialisti, dittature fasciste, democrazie vere o finte che siano, ma da nessuna parte sembra provenire un segnale positivo e ciò che critichiamo di più in fondo sono proprio le nostre democrazie, perchè ipocrite (Leggi political correctness), perchè tiranniche, perchè in bancarotta ideale e finanziaria.
    Sarei ben volentieri comunista se ci fosse meno sangue in quel nome, Budda, che conosco a malapena diceva che il modo migliore di aiutare l’umanità è migliorare se stessi, io che non sono certo buddista lo approvo, è concreto, contadino, sono semi veri. L’uomo, credo, si salverà, uno alla volta.

  7. Non ho altra proposta che quella di Mia: se ognuno trova la sua collocazione e vi agisce da protagonista fa evolvere la società civile e una classe politica degna di questo nome favorirebbe l’evoluzione. Invece oggi ho la sensazione di un pericoloso deficit propositivo. Magari mi sbaglio, ma lo penso e l’ho detto. Chiedermi anche la soluzione credo che sia troppo. Come ho sottolineato, i pensieri forti hanno tutte le soluzioni e hanno successo perché evitano alla gente il fastidio di pensare, mediare, litigare, ecc. La democrazia dovrebbe essere sforzo teso a costruire, invece, secondo me (e spero di sbagliare) è sempre più festival (vediamo chi vince) o Palio di Siena (non importa se vinco io, basta che perda il mio avversario). Così ci si riduce a guardare il passato, non per trarre lezioni dalla storia, ma solo per evitare di pensare al futuro.

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