TOLKIEN E I COHABITERS

In gemellaggio con Carmilla e la rivista  “endóre”, ecco il saggio di Wu Ming 4 su Tolkien. Il sottotitolo, assai significativo, è “il romanzo come incanto e comunità”.
Se vuoi la mia opinione, il fascino [del Signore degli Anelli] consiste in parte nell’intuizione dell’esistenza di altre leggende e di una storia più ampia, di cui quest’opera non contiene che un accenno. (J.R.R. Tolkien, lettera 151, settembre 1954)
Senza falsa modestia è stato lo stesso Tolkien a riconoscere uno dei segreti del proprio successo di pubblico. Da studioso della letteratura antica e medievale sapeva quale enorme attrattiva possa esercitare su chi legge l’ingresso in un mondo e in un’epoca sconosciuti. Nella sua opera ha infatti saputo rendere quella che Tom Shippey chiama la “beowulfiana impressione di profondità”, riscontrabile nelle grandi epopee letterarie.

In questo senso Tolkien non si differenzia molto da un romanziere storico, tanto più perché proprio con attitudine “storica” si è avvicinato alla narrativa fantastica. Prima ancora che un inventore di mondo, si considerava l’indagatore di un passato mitico, per quanto ipotetico (“ho sempre avuto la sensazione di registrare qualcosa che c’era già, da qualche parte: non di inventare.” – lettera 131, autunno 1951). Si considerava cioè il narratore di un “tempo immaginario”, ma “con i piedi ben puntati sulla nostra madre terra” (Lettera 211, ottobre 1958).
Da questo punto di vista è relativamente secondario che le fonti indagate da Tolkien fossero prodotte da lui medesimo. Anche un romanziere storico classicamente inteso infatti compie un’operazione creativa più che mimetica, non solo immaginando la psicologia dei personaggi, che devono risultare tanto storicamente plausibili quanto comprensibili agli occhi dei lettori contemporanei, ma anche scegliendo quali zone del passato illuminare e quali lasciare in ombra, attraverso quale angolazione – quali occhi – far vedere un dato contesto, quali singole storie far risaltare sul fondale della grande Storia.
A questa si aggiunge un’altra affinità. Sia che si tratti di resuscitare un mondo passato, sia che se ne voglia immaginare uno fantastico, le vicende narrate si svolgeranno in un contesto in buona parte ignoto, dai confini inevitabilmente vaghi per un pubblico non specializzato. Se sfruttata al meglio – ad esempio attraverso il rimando a piani e vicende ulteriori – questa “vaghezza” fornisce facilmente alla narrazione un effetto di profondità, di tridimensionalità, che ne aumenta il fascino. Lasciando intendere che la storia non si esaurisce nelle pagine del romanzo che si sta leggendo, si allude a una sua potenziale espansione in molte direzioni. Il romanzo diventa portale d’accesso a un mondo tutto da scoprire, nel quale la vicenda narrata rappresenta solo uno dei sentieri percorribili.
È questa, per Tolkien, la prospettiva dell’artista creatore di universi narrativi, ovvero del “subcreatore”.
Il subcreatore si pone nel ruolo di guida, di apripista attraverso una landa inesplorata. Insieme al lettore compie un viaggio, dalla prima all’ultima pagina, che li vede ineluttabilmente uniti nella condivisione dell’avventura e della scoperta. Scoperta di quel mondo e di come andrà a finire la storia che in esso si dipana.
Tolkien definiva questo processo “Incantesimo”:
L’Incantesimo genera un Mondo Secondario nel quale possono entrare sia l’artefice sia lo spettatore, a soddisfazione dei loro sensi mentre vi si trovano. (J.R.R.T., Sulle fiabe)
Questo movimento di condivisione e di esplorazione congiunta, questo farsi compagnia ed essere compagnia, nella buona e nella cattiva sorte, è qualcosa di unico, che già connota e contraddistingue la narrativa-Incantesimo, o se si preferisce la narrativa-mondo.
L’Incantesimo, precisa Tolkien, è cosa assai diversa dalla Magia. A differenza dell’incanto, che spinge a credere, che trasporta altrove, che fa uscire dal proprio sé particolare, la Magia è un mero gioco di abilità. Essa non crea mondi secondari:
La Magia produce, o finge di produrre, un’alterazione nel Mondo Primario […]. Non è un’arte ma una tecnica… (Ibidem) C’è il mago, sotto i riflettori, e di fronte a lui, nel buio, il pubblico che assiste e contempla la sua bravura. I ruoli sono distinti e ben marcati. Lo spettatore sa che nulla di ciò che sta vedendo è vero, ma decide razionalmente di sospendere l’incredulità e godersi lo show. Sa perfettamente che il Mondo Primario non verrà davvero alterato e che alla fine del prestigio tutto tornerà come prima: la donna segata verrà ricomposta e ciò che è sparito riapparirà. Il messaggio è catartico e rassicurante: tutto finisce bene, l’ordine delle cose viene ripristinato, il sé è salvo e può tornare alla vita di sempre.
La narrativa-Incantesimo, al contrario, vuole essere fondativa: ci chiede di abitare un altro spazio-tempo dai confini tratteggiati, di condividerlo, di mapparlo. E’ uno dei motivi per cui facilmente intorno a certi romanzi, o saghe letterarie (e cinematografiche) nascono comunità di “coabitanti”, cioè di persone che vogliono partecipare al racconto. Il cosiddetto fandom e la fan fiction rappresentano appunto questo tipo di fioritura comunitaria.
La critica letteraria raramente riesce a cogliere e analizzare questo aspetto vitale di certa narrativa. Più spesso tende a stigmatizzarlo come effetto collaterale, o addirittura degenerazione feticistica. Questo è particolarmente vero in Italia, dove il pregiudizio ideologico e idealistico rispetto alla letteratura è ancora forte. Critici e accademici guardano troppo spesso con freddezza e snobismo ai fenomeni culturali che nascono dal basso e che bypassano il loro ruolo castale di mediatori. Tanto più tendono a denigrare la passione popolare che spinge le persone a partecipare all’impresa creativa.
Un esempio eclatante di questo atteggiamento è L’Anello che non tiene (Minimum Fax, 2003), in cui gli autori, Lucio Del Corso e Paolo Pecere, irridono spocchiosamente la fan culture tolkieniana. L’intero capitolo 2 del saggio in questione, «Società Tolkieniane», è un caso perfetto di equivoco, di incomprensione, nonché – è il caso di dirlo – di ignoranza del fenomeno fandom e di ciò che esso rappresenta. Un esempio valga per tutti: i due autori prendono in giro il “fanatismo” che a loro dire spinge alcuni appassionati a comporre vocabolari, grammatiche o glossari delle lingue della Terra di Mezzo. Dimostrano così di ignorare come l’opus tolkieniano abbia avuto origine proprio dall’invenzione di lingue fantastiche. Già un quarto di secolo fa uno studio dirimente come quello di Verlyn Flieger (Splintered Light, 1984) ha dimostrato che proprio la filologia fantastica (o meglio, ipotetica) costituisce l’architrave dell’intera costruzione narrativa di Tolkien, nonché la sua principale chiave esegetica. Che qualcuno voglia cimentarsi su quello stesso terreno quindi può essere un modo filologicamente corretto di affrontare la materia in questione, e senz’altro è un tentativo di dare compimento a qualcosa a cui Tolkien teneva moltissimo.
Al di là della diffidenza nei confronti delle forme più o meno pittoresche di passione partecipativa, il problema di fondo è forse un altro. Gli studi letterari nella scuola e nell’accademia italiana hanno sempre prediletto un approccio autoriale alla narrativa. L’analisi delle opere avviene alla luce vincolante della biografia e del pensiero dei singoli autori, delle correnti letterarie a cui fanno riferimento e della loro storicizzazione. Questo rende difficoltoso considerare l’opera come qualcosa che trascende l’autore stesso e che non si limita a rispecchiare il suo pensiero o lo spirito dell’epoca in cui viene scritta, nonostante sia proprio ciò che accade per la grande letteratura.
Paradossalmente si potrebbe dire che l’autorialità è il vero effetto collaterale della narrativa. I narratori passano, le storie restano e continuano a essere raccontate. L’autore è un ricettore, un elaboratore di archetipi e stilemi che l’hanno preceduto e che gli sopravvivranno. La sua originalità risiede nella capacità (sub)creativa di ridare vita, di ricombinare e rideclinare l’ininterrotto flusso di storie prodotto dall’umanità. Per dirla ancora con Tolkien, l’arte narrativa consiste nella capacità di cogliere il nocciolo di “verità” presente nel mito e riproporla in forme non scontate e poeticamente affascinanti. In questo senso la mitopoiesi di Tolkien è quanto mai paradigmatica.
Nella sua costruzione narrativa confluiscono svariate tradizioni mitiche e letterarie, nonché filosofiche, abilmente miscelate attraverso l’utilizzo di almeno tre generi letterari: il romanzo, il legendarium, la poesia.
Conseguenza diretta di questa concezione della narrativa è che, una volta resa pubblica l’opera, l’autorità dell’autore su di essa viene meno e le storie che ha saputo raccontare rientrano nel flusso delle narrazioni, per diventare patrimonio collettivo:
Naturalmente Il Signore degli Anelli non mi appartiene. E’ stato portato a termine e ora deve andare per la sua strada, nel mondo, benché sia naturale che io provi molto interesse per le sue fortune, come un genitore si interessa a un figlio. (Lettera 328, autunno 1971)
L’indipendenza dell’opera dall’autore è una delle ragioni d’essere della narrativa stessa.
Cosa sarebbe successo se i servitori avessero eseguito le disposizioni di Virgilio sul letto di morte e avessero bruciato i libri dell’Eneide?
Certo se Tolkien fosse stato affetto dalla stessa paranoia autoriale e avesse distrutto le proprie storie incompiute per impedire che gli sopravvivessero, oggi potremmo leggere forse meno di metà della sua produzione narrativa (e negli ultimi trent’anni Christopher Tolkien avrebbe avuto molto più tempo libero!). Fortunatamente non solo Tolkien non ha fatto nulla del genere, ma ipotizzava che prima o poi le ampie zone da lui lasciate in ombra nella storia della Terra di Mezzo avrebbero potuto attirare nuovi esploratori disposti a illuminarle, facendo addirittura convergere differenti media:
Alcuni dei racconti più vasti li avrei raccontati interamente, e ne avrei lasciati altri solo abbozzati e sistemati nello schema d’insieme. I cicli sarebbero stati legati in un grande insieme, e tuttavia sarebbe rimasto lo spazio per altre menti e altre mani che inserissero pittura e musica e dramma. (Lettera 131, autunno 1951)
Viene da chiedersi cosa il vecchio professore avrebbe pensato se gli avessero predetto che alle soglie del XXI secolo l’attitudine coabitativa tra autori e pubblico, l’interscambio paritetico e la condivisione di mondo, sarebbe stata favorita dai creativi dell’industria culturale, e che in questo senso proprio la Terra di Mezzo sarebbe stato uno degli universi narrativi più popolosi:
La narrazione è divenuta sempre più l’arte della creazione di mondi, dal momento che gli artisti creano ambientazioni affascinanti non completamente esplorabili e non concluse in un unico lavoro o su un singolo medium. Il mondo è più grande del film, e perfino del franchise, dato che le elaborazioni e le congetture dei fan lo espandono in varie direzioni. (H. Jenkins, Cultura Convergente, 2007).
Soprattutto grazie allo sviluppo delle nuove tecnologie e alla loro grande accessibilità, è oggi possibile l’intervento di “altre menti” e “altre mani” auspicato da Tolkien. Per dirla con Shippey, le vie per la Terra di Mezzo si sono moltiplicate.
Le storie di Tolkien non sono soltanto contemplate e feticisticamente mimate – come vorrebbero Del Corso e Pecere -, ma vengono anche integrate e raccontate secondo modalità e prospettive diverse. La qualità dei risultati ovviamente dipende dalla perizia e dal talento di chi si cimenta nell’impresa, ma del resto questo vale sempre e comunque per ogni narrazione.
Peter Jackson ad esempio ha scelto di violare il vincolo che Tolkien si era imposto, cioè quello di raccontare le vicende legate alla Guerra dell’Anello dall’esclusiva visuale degli hobbit. Cambiando medium cambiano le esigenze narrative e certe cose è preferibile farle vedere in presa diretta, anziché farle raccontare dai personaggi in lunghi flash-back.
Non solo. Jackson ha inserito nel flusso della narrazione episodi che comparivano nelle Appendici del romanzo (come la storia d’amore tra Aragorn e Arwen) e ne ha espunti altri (Tom Bombadil, la liberazione della Contea da parte degli hobbit, etc.). Il regista neozelandese non ha soltanto “tratto liberamente” un film dal romanzo, bensì ha raccontato la stessa storia in un modo nuovo, fornendo la propria lettura dei temi sottesi all’opera, che non coincide con quella dell’autore. Per fare questo si è avvalso proprio delle comunità di tolkieniani sparse per il mondo, andando in mezzo a loro, spiegando le proprie scelte sui forum degli appassionati, addirittura usando la loro forza d’urto contro i tagli draconiani che la produzione avrebbe voluto imporre alla storia (vedi il bel saggio di Kristin Thompson The Frodo Franchise: The Lord of the Rings and Modern Hollywood, Berkeley 2007). Inutile dire che solo un fan avrebbe potuto farlo.
Un altro esempio interessante è naturalmente quello di Alex Lewis, fondatore della rivista di fan fiction tolkieniana Nigglings, che ha prodotto alcuni spin off e perfino ucronie interne all’opera di Tolkien, provando a immaginare l’inversione di destini tra alcuni personaggi (Una radura nell’Ithilien) o raccontando le stesse storie sotto una luce differente (come Il Libro Nero del Mastio Rosso, originale rilettura della storia del principe Isildur). Uno spunto notevole lo forniscono anche i creativi della Electronic Arts, che hanno sfruttato una delle fenditure lasciate aperte da Tolkien per illuminare una zona d’ombra della Guerra dell’Anello e ideare il videogioco La Battaglia per la Terra di Mezzo II (EA Games, 2006). Anche in questo caso si tratta di uno spin off del Signore degli Anelli, nato da poche righe nell’Appendice A del romanzo, dove lo stesso Tolkien fornisce notizie su una vicenda parallela a quella principale. Mentre la narrazione segue la Compagnia che si sposta e combatte a sud, un grande scontro avviene anche a nord, dove l’offensiva di Sauron incontra la resistenza di nani e uomini:
Quando infine sopraggiunse la Guerra, l’assalto più massiccio fu rivolto a sud; e tuttavia allungando molto la mano destra Sauron avrebbe potuto creare grossi danni a nord, se non avesse incontrato la resistenza di Re Dàin e di Re Brand. (Il Signore degli Anelli, Appendice A)
Il fatto che non si tratti di un episodio bellico secondario è dimostrato dalle parole che Tolkien fa pronunciare a Gandalf:
Eppure le cose sarebbero potute andare assai diversamente, e molto peggio. Quando penserete alla grande Battaglia del Pelennor, non dimenticate le Battaglie della Valle e il coraggio del Popolo di Durin. Pensate a ciò che sarebbe potuto succedere. Fuochi di Draghi e spade selvagge nell’Eriador, notte cupa a Gran Burrone. Potrebbe ora non esserci una Regina a Gondor. E noi al nostro ritorno dalla vittoria avremmo potuto trovare nient’altro che cenere e distruzione. (Ibidem)
Il videogioco La Battaglia per la Terra di Mezzo II vede protagonisti di questa campagna collaterale due personaggi di seconda linea del romanzo: il nano Glòin e l’elfo Glorfindel, già presenti al Consiglio di Elrond in rappresentanza dei loro popoli, ma che non si uniscono alla Compagnia dell’Anello. Insieme guideranno una spedizione per intercettare e arginare l’avanzata degli eserciti di Sauron a nord, fino a distruggerli completamente.
Tuttavia la storia sottaciuta da Tolkien che forse più di tutte si presta a essere “scoperta” è quella dei due Stregoni Blu inviati nella Terra di Mezzo insieme a Saruman, Gandalf e Radagast, e che si persero nelle lande orientali. Quanto più perigliosa (e vana) rispetto a quella di Gandalf deve essere stata la loro impresa, sulle sponde del Mare di Rhun, nelle steppe degli Esterling. E certo qualche solerte fan ha già provato a immaginarla. Del resto, già da molti anni la comunità dei più tradizionali giocatori di ruolo pratica un’attività di complemento e compendio creativo, nonché un modo ludico – e non per questo banale – di coabitare la Terra di Mezzo, come dimostra il grande lavoro della Middle-Earth Role-Playing Community.
Infine è il caso di citare il fan film autoprodotto dal giovane regista Chris Bouchard con un budget di appena 3000 sterline, The Hunt for Gollum (2009). Il cortometraggio di 45 minuti racconta un episodio che si colloca nel periodo di interregno tra Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli, a cui si accenna di sfuggita nel romanzo e negli scritti collaterali. Si tratta dell’inseguimento di Gollum da parte di Aragorn per ottenere informazioni sul possessore dell’Anello. Visto il successo dell’operazione (dovuto all’eccellente qualità del prodotto amatoriale), Bouchard si è subito messo all’opera per girare un secondo episodio, Born of Hope, che ha visto la luce nell’autunno 2009.
Si potrebbe continuare a lungo citando esempi su esempi di come nel caso della Terra di Mezzo il fandom abbia saputo rivelarsi una risorsa viva e prolifica. L’opera dei lettori prosegue quella dell’autore, rendendola a tutti gli effetti una narrazione corale con la quale interagire e alla quale porre sempre nuove domande.
In questo modo il movimento reale dei fan, la loro “class action”, sta dando risposta ai dubbi che Tolkien stesso aveva avanzato riguardo allo sviluppo della propria architettura narrativa:
Non sono del tutto sicuro, ora, che la tendenza a trattare tutto come una specie di grande gioco sia veramente buona – certamente non per me, che trovo questo genere di cose fatalmente affascinante. È, suppongo, un tributo da pagare visto il curioso effetto di questa storia, basata su una geografia, una cronologia e un linguaggio molto elaborati e dettagliati, che tanta gente debba chiedere a gran voce “informazioni” o “cognizioni”. Ma le domande che la gente fa richiederebbero un libro per rispondere… (Lettera 160, marzo 1955)
E ancora:
Il fascino del Signore degli Anelli è in parte dovuto, penso, all’intuizione di una storia più ampia sullo sfondo: un fascino simile a quello esercitato dalla visione di un’isola lontana e inesplorata, o a quello delle torri di una città che brillano in lontananza nel pulviscolo del sole. Andare fin là significa distruggere la magia, a meno che non si rivelino altri irraggiungibili panorami. (Lettera 247, settembre 1963)
Tolkien temeva due cose: da un lato di essere fagocitato dal processo di specificazione e indagine del mondo da lui stesso creato; dall’altro di rovinare l’effetto di profondità guadagnato con la pubblicazione del Signore degli Anelli, svelando “troppo” (nelle Appendici e nel Silmarillion) della storia pregressa della Terra di Mezzo.
Ebbene, si può dire che se oggi fosse qui vedrebbe svanire i suoi timori.
Se suo figlio Christopher ha raccolto il testimone, dando compimento all’opera del padre e mantenendolo un autore prolifico durante i trentasei anni che ci separano dalla sua morte, l’impresa titanica di approfondimento e trattazione dei singoli aspetti della Terra di Mezzo – compito immane per un uomo solo e forse anche per due – è stata presa in carico da un’intera comunità. È infatti diventata responsabilità collettiva dei lettori più appassionati proseguire l’esplorazione laddove Tolkien non ha avuto il tempo e il modo di farlo. Ma questo è ben lungi dall’impedire l’avvistamento di “altri irraggiungibili panorami”, poiché se è vero che molta parte della storia in questione è stata lasciata in forma di legendarium e di cronologia, proprio questo garantisce un serbatoio inesauribile di vicende romanzabili. Basti pensare alla Seconda Era (quella più oscura), o alla Quarta, dopo la Guerra dell’Anello, il lungo tempo storico che dal regno di Re Elessar giunge fino a noi. Romanzieri, fan writers, registi, ideatori di videogiochi, potenzialmente hanno ancora moltissimo materiale su cui cimentarsi e si può ben sperare che continuino a farlo, a prescindere dal fatto che “feticisticamente” si travestano da elfi o pretendano di fumare erba-pipa.
A conti fatti è proprio questo che colloca il ciclo della Terra di Mezzo nel solco delle grandi saghe epiche a cui tanto deve la subcreazione tolkieniana. Saghe che sono giunte fino a noi grazie al passaggio di mano e al contributo di generazioni di “fan”.
In fondo se si dovesse trovare un punto d’origine di questa lunga vicenda letteraria, si potrebbe risalire a un piccolo studio del Magdalen College, a Oxford, un giorno di tanti anni fa, quando C.S. Lewis espresse a Tolkien una celebre quanto semplice considerazione: “Se nessuno scrive quello che noi vorremmo leggere, dovremo essere noi a scriverlo.” (Lettera 159, marzo 1955) Va da sé che se invece qualcuno scrive ciò che vogliamo leggere, e se anche a noi piace scrivere, non c’è niente di meglio che farlo insieme.

20 pensieri su “TOLKIEN E I COHABITERS

  1. Sì, Francesco hai ragione. Questo articolo stavo per linkarlo proprio qui una settimana fa, dopo averlo letto, poi visto tutte le polemiche che si erano verificate ho lasciato perdere…

  2. Sono d’accordo. È un articolo bellissimo, e è un meraviglioso esempio di come vivificare l’asfittica critica tolkieniana italiana utilizzando il lavoro di Jenkins e le riflessioni teoriche sulla nuova epica dei Wu Ming. Questi lavori non solo stanno indicando strade per una nuova narrativa, ma anche strade nuove per leggere quella vecchia.

  3. Concordo sulla bellezza dell’articolo, e sulle prospettive che può aprire la cultura partecipativa dei fan. Purtroppo, nelle comunità di autori di fanfiction spesso manca la consapevolezza di questa potenzialità, e sono necessarie voci come questa per coltivarla.

  4. È un articolo bellissimo che fa riflettere molto! Il fandom è una risorsa e l’ostilità di critica e detentori dei diritti è una cosa molto miope. Non capiscono come la comunità e la condivisione portino una maggior riflessione su un’opera stessa (oltre che pubblicità gratuita per loro…). Inoltre, il media storytelling è una cassa di risonanza potentissima. Jenkins ne parla spesso e fa bene, perché la sua autorevolezza aiuta a far arrivare il messaggio. Lo stesso dicasi del lavoro di Wu Ming sulla new italian epic qui da noi.

  5. Non c’è dibattito!?!? Fermi tutti!
    Eccomi, determined to be a villain…
    Lasciando un attimo da parte Tolkien (per non finire di nuovo a dir sempre le stesse cose) vorrei buttare lì un paio di perplessità su culture convergenti e fanfiction. Wu Ming 4 e voi la vedete da un lato, io dall’altro e la parola che mi viene in mente è ‘bulimia’.
    “Se nessuno scrive quello che noi vorremmo leggere, dovremo essere noi a scriverlo.” – e quel qualcosa si rivela, immancabilmente, una replica.
    Una delle difficoltà maggiori della cultura di massa oggi, a come la vedo io, è la crisi del finale, l’impossibilità di portare a conclusione le storie raccontate cui fa riscontro la dilatazione (seguiti su seguiti, saghe multivolume che fanno impallidire la Recherche, finali aperti, spinoff) nel tempo e nello spazio e nelle possibilità. Per certi generi come il telefilm la dilatazione e apertura (cioè si va avanti finchè gli indici d’ascolto reggono) sono costituzionali, in altri si sono imposti di recente. Pensiamo ai ‘seguiti’ di Via col Vento o ai nuovi romanzi di 007, anche a opera di scrittori affermati.
    A questo si aggiunge la pratica, un tempo feconda, oggi meccanica, della contaminazione di generi. Kurosawa importava il western nel film di samurai ed ecco i Sette Samurai; oggi un impiegato annoiato inventa un Orgoglio e Pregiudizio fra zombi o un’Anna Karenina androide – chiaro che non si aggiunge niente in questo caso.
    Non si vuole rinunciare a nulla: ne’ i produttori ne’ i consumatori. Entrambi a loro modo contribuiscono a gonfiare il canone, che l’autore fosse (sia) d’accordo o no. Non mi pare abbia molta importanza se questo viene dai produttori (cattivi) o dai lettori-fan (buoni), il risultato è lo stesso: the same but more. In fondo il pubblico non è poi così appassionato di novità come un tempo si credeva: preferisce le repliche, magari con qualche faccia nuova ogni tanto.
    Il rapporto può essere conflittuale, fra difensori dei diritti e fan che ritengono ‘roba loro’ i personaggi che non hanno creato. Ma, per esempio, che dire delle rivalità fra fan di fumetti diversi che pretendono film dei loro personaggi preferiti di cui poi aspettano con ansia i risultati al box office commentando in dettaglio i perchè e percome di vittorie e sconfitte come tifosi al lunedì?
    Più in generale quest’ansia di buttare a mare l’autore in attesa del mitico romanzo collettivo prodotto dall’intelligenza collettiva della rete (pronostico: don’t hold your breath) è parte di due correnti di pensiero oggi dominanti o in ascesa. Da una parte, l’ideologia della Rete, che vuole applicare a ogni campo possibile l’idea base dell’economia liberista, che il mercato non regolato porti comunque al migliore dei risultati (intelligenza collettiva, crowdsourcing…)
    Dall’altro il desiderio di liberarsi delle tante figure simbolo della modernità, in questo caso l’autore, per ritornare ad un passato mitico e favoloso (ma ovviamente senza farsi mancare alcun comfort tecnologico).
    Omero forse non è mai esistito ma allora è caratteristico il desiderio di trovare un autore a cicli mitici più antichi. Per quanto riguarda la letteratura la modernità è iniziata un mucchio di tempo fa ed è popolata di figura prometeiche e molto comprese di se stesse che lottavano fra di loro per la supremazia e l’immortalità. Oggi, ci viene detto, la loro epoca è passata e il futuro è dei comitati o delle folle: buona fortuna.
    Volendo vedere a tutti i costi un lato positivo…
    I miei due scrittori preferiti, Balzac e Simenon, hanno entrambi cominciato le loro carriere nell’oscuro mondo degli pseduomini, scrivendo letteratura ‘industriale’ (termine coniato da Sainte Beuve) sui generi alla moda del momento e certo l’apprendistato fu fecondo. Oggi, in mancanza di riviste o altri sbocchi per i principianti, e visto il fatto che, all’inizio può essere pratica saggia imitare modelli di successo esistenti, la fan fiction online può essere un apprendistato. Ma Balzac e Simenon passarono ad altro, un altro, ai loro occhi, migliore e personale (benchè, giustamente, non tagliassero mai del tutto le loro radici ‘pulp’). Il pericolo oggi è l’assenza del concetto stesso di ‘migliore’: i nuovi Balzac e Simenon potrebbero passare la vita a scrivere imitazioni senza mai trovare il coraggio di dire la loro e confrontarsi col mondo in prima persona…
    (poi se mi viene in mente qualcos’altro…)

  6. @ Wu Ming 4
    Lawrence mi interessa un po’, Tolkien meno, Lewis per nulla, ma la ringrazio caldamente per aver scritto un romanzo su Robert Graves, quello sì un mio mito.
    L’ho comprato qualche giorno fa e lo leggerò appena posso.
    Una curiosità: l’ha letto, di Graves, The Long Weekend? Direi che ha parecchio a che fare con l’argomento del suo romanzo.

  7. @Sasha: purtroppo no, ho letto soltanto una parte della sconfinata produzione di Graves, prediligendo quella poetica e saggistica, più della prosa (anche se “La figlia di Omero” è uno dei miei romanzi preferiti e ha assolutamente a che fare con l’argomento del mio romanzo e del mio articolo). Ad ogni modo prima o poi intendo ritornare su Graves. E con un po’ di pazienza ci tornerò proprio tramite Tolkien…

  8. The Long Weekend, scritto insieme al giornalista Aland Hodge e pubblicato nel 1940, è una storia dell’Inghilterra fra le due guerre: politica, cultura, arte, società, gossip… E’, a dir poco, estremamente personale e originale. Il primo capitolo, in cui Graves descrive lo spirito rivoluzionario dei soldati al ritorno dalle trincee è storicamente abbastanza discutibile ma dice parecchio su Graves (appena lo ritrovo vedo cosa dice di Lawrence).
    Le fiction storiche di Graves ebbero un enorme successo (gli pagarono la poesia, in pratica) ma credo oggi non siano molto di moda, purtroppo. Jesus Rex, fra l’altro, anticipa Dan Brown molto, ma molto meglio. Il suo unico romanzo di fantascienza, Sette giorni fra mille anni, è piuttosto buono. Quel che mi attira di Graves è che, malgrado tutta la sua conoscenza mitologica e le sue teorie, al cuore era un entertainer e leggendolo si sente sempre la ribalta del teatro e il trucco pesante…

  9. @Sasha: capisco cosa intendi. E’ vero, Graves non ha mai finto che la scrittura, a qualsiasi livello, non fosse un mestiere e un’arte tecnica, ovvero un modo di stare su un palcoscenico, in un teatro. Tant’è che polemizzò con i poeti modernisti che pretendevano di sovvertire il linguaggio e sbriciolarlo, e ancora molti anni dopo si premuniva di ricordare agli aspiranti scrittori che “Il lettore è alle vostre spalle”. Lo humour poi – anche amaro – e un certo gusto performativo nello scrivere non lo ha mai abbandonato. Basti pensare che ex post descrisse la propria autobiografia bellica, “Goodbye to All That”, come un’operazione commerciale senz’anima! Ad ogni modo, se esistono libri che cambiano la vita, io posso dire che “La Dea Bianca” per me è stato (e continua a essere) una pietra miliare.
    Tuttavia, per non andare troppo OT, vorrei dire una parola in più su “La Figlia di Omero”, perché ha a che fare con il mio articolo postato da Loredana Lipperini. Quel romanzo è pura fan fiction e di altissimo livello. E’ di fatto il romanzo che un fan di Omero dedica al proprio beniamino, ipotizzando che l’autore dell’Odissea fosse una donna (Nausicaa), la quale nel poema abbia raccontato – romanzandoli – episodi reali della propria vita. Odisseo ovviamente non c’è, è il personaggio ideale che la ragazza immaginerà come comune denominatore per la propria storia e per riallacciarsi al ciclo della guerra di Troia (se non ricordo male nel romanzo l’eroe che deve tornare è suo fratello). Graves avalla le teorie di Samuel Butler sull’autore/autrice dell’Odissea, ma lo fa attraverso la fiction, ovvero l’ingresso nello stesso mondo omerico, cimentandosi con il padre della letteratura occidentale sul suo terreno (se così si può dire).

  10. “ambientazioni non completamente esplorabili/ate”
    Il succo è tutto qui. Quando sento che un romanzo (realista o fantastico) sta mappando il ‘noto’, non lo leggo oltre. Se invece a lettura ultimata ci sono ancora gli narrativi inesplorati che io posso riempire, vuol dire che il romanzo “mi sta abitando”; ed è una bella emozione.
    M.

  11. Perdonate, è saltato un pezzo di frase dall’invio precedente:
    “ambientazioni non completamente esplorabili/ate”
    Il succo è tutto qui. Quando sento che un romanzo (realista o fantastico) sta mappando il ‘noto’, non lo leggo oltre. Se invece a lettura ultimata scopro che ci sono ancora spazi narrativi inesplorati, che io posso riempire, vuol dire che il romanzo “mi sta abitando”; ed è una bella emozione.
    M.

  12. Comunque, a proposito di culture convergenti, voglio vedere che si dirà ‘nell’ambiente’ della partecipazione di Aldo Busi all’Isola dei Famosi (proprio adesso che m’ero stufato persino io…).
    Ho come il sospetto che in questo caso verrà considerata una convergenza poco ‘cool’…
    Per quanto mi riguarda, benchè probabilmente abbia già dato tutto quel che poteva, Aldo Busi è uno dei massimi scrittori italiani viventi.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Torna in alto