MAMMA, QUANDO E' MORTA LA LETTERATURA?

Così mi chiede a cena: “Mamma, quando è morta la letteratura?”. Ha un sorrisetto curioso e intelligente, il mio venticinquenne figlio, mentre mi pone la domanda, e io rimango senza parole. “E’ morta, secondo te?”, gli chiedo a mia volta (mai rispondere a una domanda con un’altra domanda, a meno di non essere Moni Ovadia, ma tant’è). “Non ha presa sull’immaginario – dice lui – e non mi pare di vedere in giro i movimenti che esistevano nel Novecento”. Già, le avanguardie. Esito. Quali sono le avanguardie letterarie oggi? Chi sono e dove agiscono? Hanno terminato la propria ragion d’essere col finire del secolo?
E perché non lo so?
Vent’anni fa, e forse persino dieci anni fa, avrei risposto che le avanguardie agivano in rete, perché ancora era forte la convinzione dell’intelligenza angelica disincarnata che ci aveva accompagnato nell’euforia dei pionieri digitali. Questo avrei detto, ma oggi non posso. Non posso, dopo tutte le mattine del mondo recente passate a guardare gli altri, in metropolitana, per strada, in automobile, chini sul proprio smartphone. Non posso, quando vedo cedere le intelligenze più brillanti all’insulto facile, all’autocelebrazione, alla chiusura virtuale fra quattro pareti che per di più, come nei vecchi film, si stringono fino a soffocare. E che parlano di se stessi, come è normale, come faccio anche io.
Meglio di me lo dicono i Wu Ming, in un lungo articolo in due parti su Giap! dove raccontano le proprie scelte relative alla presenza su Twitter. Quanto a Facebook, ecco un passaggio:
“Nell’estate 2010 leggemmo un saggio “seminale” di Maria Maddalena Mapelli, apparso sulla rivista Aut Aut e poi su Carmilla, e di lì a poco espanso in libro col titolo Per una genealogia del virtuale. Dallo specchio a Facebook (Mimesis, Milano 2010). Mapelli definiva Facebook un dispositivo «omologante e persuasivo»:

«persuasivo, nel senso che induce comportamenti automatici e prevedibili (ci vuole, appunto, tutti verisocial) e al tempo stesso omologante, nel senso che induce, in noi utenti, assetti identitari, modalità di interazione e di narrazione, regimi di visibilità che ci rendono seriali e simili»

Fin dai suoi primi passi, con l’ingiunzione all’uso del nome vero – che nella storia della rete fu una svolta radicale: prima «nessuno sapeva che eri un cane» – e al metterci la faccia, Facebook ha dimostrato di volerci «verireali in quanto individui»:

«Facebook induce processi di soggettivazione individualizzanti: induce una visione monolitica e coesa dell’identità, vietandoci in modo esplicito di giocare con riposizionamenti creativi del Sé. Questo aspetto del dispositivo […] potenzia enormemente l’effetto di somiglianza al reale del nostro alter ego digitale: così come noi siamo indotti a dare di noi stessi un’immagine “vera“, assegniamo anche agli altri “avatar”, agli alter ego digitali dei nostri “amici”, una consistenza che in altri luoghi della rete non possiede la stessa forza persuasiva.»

Quanto all’omologazione, all’epoca si poteva pensare che Mapelli esagerasse, ma la cosa è diventata sempre più evidente. Su Facebook si finisce per comunicare quasi tutti allo stesso modo, per seguire gli stessi schemi e percorsi, per reagire agli stessi stimoli standardizzati secondo gli stessi pattern”.
E allora, cosa posso rispondere a mio figlio, che quasi si diverte a incalzarmi dicendo “ma proprio tu, che ti occupi di libri, annaspi?”. Certo che annaspo. Perché posso anche insistere, e infatti insisto, dicendogli che la letteratura non è morta e non morirà, che gli esseri umani hanno bisogno di storie dall’alba del mondo, e nel frattempo però penso a quei dati Aie, alle cento copie vendute dall’ottanta per cento dei libri, e penso a quante di quelle storie rotoleranno via in una manciata di mesi, e questo va anche bene, se vengono scritte e narrate per il piacere e la felicità e l’acqua di vita di kinghiana memoria, ma so anche che così non è nel novanta per cento dei casi, perché la necessità della performance, del successo a ogni costo, muove chi le scrive e questa non è affatto una colpa, è il mondo in cui ci muoviamo, l’acquario che si fa più torbido ogni giorno.
E allora? Allora non ho la risposta, figlio. Se non quella che occorre tenere gli occhi aperti, guardarsi intorno e serbare come dono prezioso il brivido di piacere che una bella storia, una poesia e, sì, che anche una serie televisiva, un film, un videogioco possono darci. Il nome di un uomo non è così importante, diceva Orson Welles, continuiamo a cantare. E magari, prima o poi, usciamo dall’acquario e ritroviamo la strada per il fiume.

Un pensiero su “MAMMA, QUANDO E' MORTA LA LETTERATURA?

  1. E’ possibile che non sia sufficiente tornare a commentare e leggere direttamente sui blog, però ora come ora, dopo aver riprovato a stare su facebook – ad esempio – e avere la certezza che è un mezzo che fagocita e basta e crea circoli dannosi, credo sia qualcosa da tornare a fare. Perché un blog richiede attenzione e cura costante per esistere ed essere un lettore implica (o dovrebbe implicare) educazione e un minimo di stile. Poi se dalle pagine di uno o più blog possa mai oggi – o un domani – partire una nuova avanguardia non lo so. Però qualcosa che può andare controcorrente a questa ondata omologante credo di sì, almeno *sento* che è una possibilità. La letteratura è morta tanto quanto il Rock, lasciamolo dire e continuiamo a suonare

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