Contare, parlare. Serve, non serve? E chi è in grado di dare una risposta?
Non serve a fermare le mani che si vorrebbero fermare. Perché un blog non basta. Perché non ne bastano dieci, cento, mille. Anche se tutte e tutti avremmo voluto essere là, sotto il sole delle campagne di Erice, per fermare davvero quelle mani. Mani che hanno preso, sembra, una pietra e con quella hanno colpito una, due, dieci volte fino a spaccare la testa di Maria, che aveva trentanove anni e tre figli. Quattro, perché uno era nella sua pancia, e mancava poco alla nascita.
Maria è il numero…? Settantaquattro? Ottantuno? Non lo so. So che è un’altra donna uccisa, e non voglio sapere la causa, e la parola gelosia non vorrei più leggerla, perché continua a essere il drappo che viene sventolato per giustificare. Non è stato sempre così? Non ci siamo inteneriti su Otello che stringe il candido collo di Desdemona (anche se era “innocente”: e se non lo fosse stata, sarebbe stato, forse, legittimato a farlo?), su Don José che pugnala Carmen, su tutti gli assassini delle nostre storie, delle storie su cui siamo cresciuti?
Cominciate, vi prego, a eliminare la parola gelosia. Il mostro dagli occhi verdi non ha nulla a che vedere con questo orrore: e se così fosse, non giustifica, non assolve, non deve portare a compassione. Il delitto d’onore, troppo tardi cancellato (il 5 agosto 1981) è ancora radicato nella coscienza di questo paese. Vi ricordate cosa diceva?
Codice Penale, art. 587
Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella.
Nello stato d’ira determinato dall’offesa.
E’ come se la narrazione dell’odierna mattanza risentisse ancora di queste parole.
E allora, visto che di parole mi occupo e questo solo so fare, e visto che fin qui la proposta di un codice deontologico sulle parole giornalistiche a proposito di femminicidio sembra essere caduta nel vuoto e giudicata priva d’interesse da parte di chi di giornalismo e questione femminile si occupa, torno a proporlo e a fare mio quello che dai movimenti è stato diffuso.
Mi rendo disponibile per discuterne in ogni sede, da ora.
Sì. Che si fa? Spingiamo quello, ne facciamo un altro? Quello mi sembra buono: come diffonderlo?
Ma la gelosia esiste, e può davvero essere la causa di un gesto violento. E’ uno stato emotivo, e come tale può influenzare il comportamento di una persona; se poi, la stessa persona, è portatrice anche di altri “problemi”, il rischio che la gelosia scateni una reazione violenta aumenta. Insomma, non capisco perché non si dovrebbe usare questo termine.
In ogni caso, nell’articolo sull’omicidio di Maria non si parla di gelosia; e non mi sembra che il giornalista lasci trasparire “comprensione” per l’omicida. Allo stesso modo, trovo forzato l’accostamento al delitto d’onore; l’«offesa» non è stata il “tradimento” di lei, ma probabilmente (ci arrivo per logica, visto che dall’articolo non si capisce) la scelta della donna di non accettare la situazione.
Francamente, l’articolo citato non mi pare che contraddica il Codice Etico.
CAMPAGNA CONTRO IL LINGUAGGIO USATO DAI MEDIA NEL TRATTARE IL TEMA DELLA VIOLENZA ALLE DONNE
http://illustrautrice.blogspot.it/2012/07/non-sono-un-mediacomplice.html
anche su:
http://www.parola di strega.wordpress.com
MP non nell’articolo linkato, e proprio per quello – peraltro – linkato. Ma se hai la pazienza di fare una breve analisi di come vengono raccontati i femminicidi, noterai che è così. Ti rimando, se credi e se hai voglia, all’inchiesta fatta da Femminismo a Sud sulla narrazione dei femminicidi medesimi.
Quanto al legame col delitto d’onore, libero di non vederlo. Ma la prima notizia data, che corrispondeva alla versione dell’assassino, riguardava il presunto tradimento della moglie e addirittura l’idea che il bambino non fosse suo figlio.
Ps. Dario. Una delle proposte fatte durante gli incontri sul femminicidio era proprio quella di intraprendere iniziative analoghe a quanto si fa per il razzismo. Creazione di siti, promozione di incontri, nascita di una carta etica per provare a mutare la narrazione.
E’ FONDAMENTALE VERIFICARE LE CIRCOSTANZE IN CUI SI PRESUME L’ESISTENZA DI VIOLENZE DOMESTICHE ED INTERVENIRE CON PENE CERTE, E’ NECESSARIO PER SPEZZARE UNA SPIRALE DI VIOLENZA CHE NON VIENE PIù NEMMENO PERCEPITA COME TALE, MA SEMPLICIMENTE COME UNA QUESTIONE DA “RISOLVERE” IN “PRIVATO”.INVECE QUESTI EVENTI, INDICANO UNA EMERGENZA SOCIALE, OCCORRE UN INTERVENTO SOVRANAZIONALE VISTO CHE IN ITALIA è IN ATTO UN GENOCIDIO DI FRONTE AL QUALE LE ISTITUZIONI RESTANO, DI FATTO, INERTI: STUPRATORI SANGUINARI RILASCIATI AI DOMICILIARI, CASI DI FEMMINICIDI E DI DONNE SCOMPARSE IN CIRCOSTANZE DUBBIE LASCIATI INSOLUTI PER DECENNI, INDAGINI POCO INCISIVE, ECCESSIVO GARANTISMO VERSO I PRESUNTI COLPEVOLI, INDIFFERENZA VERSO LE VITTIME.
Un’altra donna scomparsa in circostanze tutt’ora al vaglio della Procura è Roberta Ragusa, anche lei, come Maria assassinata ad Erice, subiva la presenza dell’amante del marito praticamente nello stesso ambiente domestico e lavorativo, bisogna trovare al più presto una soluzione per questi soggetti inclini alla poligamia ed impedire che le loro mogli possano “sparire” quando diventano di troppo
@ Loredana
so bene che in altri luoghi i «femminicidi» vengono raccontati così. Le considerazioni sulla gelosia, per come sono state poste, mi sono sembrate legate all’articolo e al modo di raccontare quell’omicidio specifico; tutto qui.
@ Anna Maria
«Genocidio»? Forse anche misurare le parole potrebbe essere un passo importante da fare. Eviterei anche un certo afflato giustizialista; come è stato più volte dimostrato, l’aumento o l’irrigidimento della pena non è la soluzione. Un «presunto colpevole», in ogni caso, è prima di tutto «presunto», dunque non certo, dunque portatore di un sacrosanto diritto di essere considerato «innocente». Insomma, attenzione a non trasformarci in mostri a nostra volta.
Sarebbe bene far presente che determinare i possibili “moventi” di un omicidio (sovente necessari per trovare l’assassino) spetterebbe agli inquirenti non ai cronisti di nera (che credo siano cosa diversa dal giornalismo investigativo o sbaglio?). E ritengo auspicabile (senza pretendere di dire ai giornalisti come lavorare) che i cronisti di nera negli articoli riportassero i fatti senza fare i romanzieri o i drammaturghi..quello è un altro mestiere, un altro campo con diverse caratteristiche, ambizioni, obiettivi. E’ solo il mio debole parere, ovviamente
Quoto mp. La parola genocidio è del tutto fuori luogo e fuorviante. La responsabilità penale è personale e fino a sentenza – tutti – sono innocenti. A meno che questo non valga solo per Battisti o per altri tipi di omicidio.
Magari è già stato fatto, o magari sto dicendo una sciocchezza, ma femminicidio andrebbe inserito nei vocabolari, con una definizione chiara, inequivocabile e che spighi bene il termine, altrimenti il temine verrà continuamente ignorato. Non risolve, ma aiuta.
Le parole sono importanti, tengono prigionieri i concetti. “Femminicidio” è un termine che i media non vogliono adoperare? facciamolo noi. Ogni giorno, nei nostri blog, nel nostro quotidiano. Non siamo ciò che pensa la televisione.
Circa la gelosia patologica, credo che sia la giustificazione in cui trovano sfogo, ammantandosi di un falso concetto d’ amore, passioni feroci e inconfessabili, la crudeltà e perché no, l’uso di sostanze stupefacenti. Non ci potrebbe essere una correlazione tra le nuove droghe, la cocaina da discount e i femminicidi?
@m.p
In questo articolo non ricorre la parola “gelosia”, e siamo tutti d’accordo che questo sentimento influenzi i nostri comportamenti. Ciò che ci preoccupa è che quando molti giornali riportano casi di femminicidio usano termini come gelosia, raptus, depressione in modo inconsapevole – voglio sperare. Il risultato, quando anche non voluto, è veicolare questo messaggio: sì, l’uomo ha compiuto una azione crudele e punibile, però stava male, però aveva perso il lavoro e ha perso le staffe, era disperato per la decisione della donna di lasciarlo, non ha resistito al dolore di perderla, soffriva troppo senza di lei. Altrimenti: mica avrebbe agito così, no?! E questo è un grosso sbaglio.
Credo sia possibile riportare le notizie in modo accurato e preciso senza cadere in questo errore.
E poi: se davvero tutti gli uomini che uccidono donne agiscono per gelosia, beh: facciamoci tutti un esame di coscienza.
La butto lì. Ho visto che la voce femminicidio è presente su wikipedia ma più legata a eventi del Messico. Se qualcuno che segue il blog scrive su wikipedia potrebbe modificare la voce aggiornadola alla realtà italiana, con link alla voce delitto d’onore già presente, ad altre collegate e approfondendo il tema.
@ Amedeo
Non amo parlare in astratto. Se in alcuni articoli il termine «gelosia» è usato a sproposito, non so che dire; in questo non lo è. Esiste un problema di linguaggio, è evidente a tutti. Ho però la sensazione che parlando, talvolta, noi stessi non poniamo le stesse attenzioni che poi richiediamo agli altri (giornalisti, etc.). Forse un po’ meno di vaghezza aiuterebbe. Anche nell’uso di certi concetti.
Un atto di violenza è sempre ingiustificabile. È invece sacrosanto il tentativo di comprenderlo. Solo che per comprenderlo, una necessità – direi una necessità etica – è considerarlo non già il risultato di un’unica causa, bensì di una serie di concause che interagiscono tra di loro. La gelosia, da sola, non basta ad accendere un atto violento, così come non sono sufficienti l’abbandono subito o la depressione. Mi sono chiesto: il termine «femminicidio» aiuta?
Nel Codice Etico proposto da Loredana, per femminicidio si intende «quel tipo di violenza con la quale viene colpita una donna per il solo fatto di essere donna; si tratta di violenza sessuata, fisica, psicologica, economica, normativa, sociale e religiosa, che impedisce alla donna di esercitare appieno i diritti umani di libertà, integrità fisica e morale». Per verificare se il termine mi è utile per comprendere un atto di violenza, parto proprio dall’articolo segnalato da Loredana, quello sull’uccisione di Maria.
L’uomo costringe sua moglie ad accogliere in casa l’amante. Lo fa perché ritiene di essere il legittimo controllore del rapporto, e quindi l’unico proprietario delle condizioni all’interno delle quali si sviluppa il matrimonio. Il problema è culturale: l’idea che sta alla base di quella relazione è la sottomissione della donna ai capricci dell’uomo. Ora, sappiamo bene che questa idea è molto diffusa; allo stesso modo, però, non tutti quelli che la fanno propria sono dei violenti. Non basta avere un’idea “maschilista” della donna per diventare violenti; chi lo diventa è perché su quell’idea si intersecano tutta un’altra serie di fattori, soprattutto psicologici. Siamo nel campo di patologie probabilmente complesse, e alla fine, ben più capaci di scatenare violenza che non l’idea maschilista presa di per se stessa. Insomma, la Maria dell’articolo non è stata uccisa «per il solo fatto di essere donna». Almeno in questo caso, il termine «femminicidio» rischia di essere consolatorio, o comunque non in grado di spiegare adeguatamente le cause della violenza.
Ora, nell’atto di violenza sono due le dimensioni, quelle della vittima e quelle del colpevole. Chi osserva, chi vuole capire e provare a fare in modo che gli atti di violenza diminuiscano, non può che affrontarle entrambi. Il termine «femminicidio» riporta l’attenzione sulla vittima; giustamente toglie all’ambito del “privato” un atto che è, a tutti gli effetti, “sociale”. Ma l’essenza dell’atto, nella sua interezza di azioni-e-reazioni, è più complesso del solo «fatto sociale» che riafferma il dominio sulla donna; il privato, e proprio in termini di «vissuto» che spinge a certi comportamenti, entra in gioco a pari titolo.
Maria è stata uccisa «in quanto donna», ma è stata uccisa anche da altro.
PS: Un giornalista dovrebbe impegnarsi, prima di tutto, a capire le reali cause che hanno condotto una persona a fare violenza contro un’altra. Se viene fuori, dalle indagini, che il marito era ossessionato dalla «gelosia» a tal punto da uccidere la moglie, perchè non dovrebbe usare quel termine? «Gelosia», come «depressione», «sindrome da abbandono», etc., sono termini che riportano a stati d’animo o a patologie; non sono sbagliati e, in certi casi, si possono anche usare. Ricorrere a questi termini non è «giustificare» l’omicida; talvolta può essere solo un modo per dire la verità.
mp: l’articolo è stato, giustamente, modificato ora dopo ora, dopo l’arrivo di ulteriori elementi. I primi pezzi usciti parlavano di ossessionante gelosia e basta.
Ora, se, ribadisco, fai una semplice ricerca su quanti omicidi sono stati attribuiti alla medesima, noterai che c’è una certa predominanza. Che poi, a forza di insistere, cominci ad aumentare l’attenzione, è bene. Mi segnalano che anche il Tg2 è stato molto corretto.
La correlazione con la troppo tardiva cancellazione del delitto d’onore, insisto, è un problema che ci portiamo dietro e che, mio parere, non è stato affrontato abbastanza.
Purtroppo il giornalismo ha delle responsabilità. Basti pensare ai processi per stupro e a certe cronache degli anni 60 -70. Ci sono voluti presidi delle donne nei tribunali, le piazze , la proposta di una legge, l’accesso delle donne nelle redazioni per operare un cambiamento che poi c’è stato.Oggi in questa situazione di retroguardia avverto – ma questa è una mia personale opinione – una scarsa sensibilità da parte delle colleghe giornaliste. Con troppa facilità un certo linguaggio è stato accettato in silenzio, come se fosse normale, mentre era ed è offensivo nei confronti delle donne. Di fronte al femminicidio torna il movente gelosia,ossia il fatto intrappolato in un contesto privato. I cronisti devono riferire i fatti ma anche comunicarli con le parole giuste. La cultura del delitto d’onore come della donna che se l’è voluta quando viene stuprata ci accompagna eccome!
@m.p. Un rapporto in cui l’uomo sia convinto che la donna debba essere sottomessa ai suoi capricci è intrinsecamente un rapporto violento, perchè presuppone in caso di opposizione al “diritto” maschile la facoltà di applicare una sanzione alla donna “ribelle” e sappiamo bene dove porta questa idea. Stiamo parlando di cose già viste, in passato era molto comune che il marito correggesse la moglie a suon di sberle e ciò era socialmente accettato, e il passo successivo era il delitto d’onore, altrettanto accettato e sancito dal codice.
il termine femminicidio applicato a questi casi vittimizza un genere e ne colpevolizza un altro, quindi è auspicabile che non rientri nel vocabolario giuridico ufficiale.
Dal codice etico dei movimenti leggo: “i giornalisti e le giornaliste devono inoltre rappresentare i personaggi della notizia come uomini e donne veri, reali, evitando accuratamente di ricorrere a stereotipi…….” Bene, se tale regola si fosse applicata al caso in questione, negli articoli, che si sono succeduti nell’immediatezza della notizia, non avremmo letto che l’uomo riteneva che la moglie fosse incinta di un figlio non suo. Bastava descrivere i fatti in sè stessi e non “rappresentare il personaggio dell’uomo tradito”. Ma, si sa, questo è il vulnus del problema!!!
ot/ non ho parole, davvero non ne ho, ma ce ne vogliono, di ferme e durissime, e non solo parole, bisogna fare qualcosa.
OT
Immagino che in molte qui abbiate avuto notizia del dibattito in corso negli USA a partire da un articolo di Anne-Marie SLAUGHTER su “L’Atlantic”. Vorrei segnalarlo comunque perché mi sembra interessante.
Questo è il link dell’articolo originale, che consiglio vivamente di leggere, per chi non sapesse l’inglese ho visto che Google traduttore funziona abbastanza bene
“Why Women Still Can’t Have It All”
http://www.theatlantic.com/magazine/archive/2012/07/why-women-still-can-8217-t-have-it-all/9020/?single_page=true
Anne Marie Slaughter, 53 anni, 2 figli di 14 e 12 anni, è una professoressa statunitense di diritto internazionale, a cui Hillary Clinton aveva affidato il prestigioso incarico di Director of Policy Planning.
Dopo un anno e mezzo di “passione”, pur con un marito molto volenteroso e collaborativo, vede che i figli adolescenti soffrono della sua assenza e getta la spugna.
E scrive un articolo in cui dice, più o meno, che alle ragazze il mantra “ce la puoi fare” serve a tacere la verità: le donne non possono mettere insieme famiglia e carriera. E analizza punto per punto le storture della nostra società fatta dagli uomini per gli uomini.
Sicuramente moltissime persone -non solo negli USA- prenderanno solo il titolo di questo articolo come la conferma reazionaria che il posto di una donna è in casa, oppure come un bruttissimo messaggio di pessimismo.
Personalmente invece l’ho trovato bello perché fa autocritica, dicendo che per la prima volta nella sua vita non si trova nella parte della superwoman che guarda con sufficienza la donna accanto a lei che getta la spugna, e si rende conto che con il suo sguardo e i suoi commenti aveva (involontariamente?) fatto sentire inadeguate le donne che guardavano a lei come modello mentre è di famiglia ricca con un lavoro che le permetteva di gestire i suoi tempi.
Il tutto mentre lo stato sociale USA è il peggiore di tutti i paesi industrializzati.