Lo dico, quando mi capita. Lo scrivo. Qual è stata la data spartiacque? Quando abbiamo smesso di sognare una possibilità di futuro? Vent’anni fa. Dal 19 al 21 luglio del 2001, a Genova.
Dalle moltitudini d’Europa in marcia contro l’Impero
e verso Genova (19-21 luglio 2001)
Noi siamo nuovi, ma siamo quelli di sempre.
Siamo antichi per il futuro, esercito di disobbedienza le cui storie sono armi, da secoli in marcia su questo continente. Nei nostri stendardi è scritto “dignità”. In nome di essa combattiamo chi si vuole padrone di persone, campi, boschi e corsi d’acqua, governa con l’arbitrio, impone l’ordine dell’Impero, immiserisce le comunità.
A differenza dei molti che vent’anni dopo raccontano e testimoniano, io non ero là. Vent’anni fa avevo portato i bambini al mare, a Pineto degli Abruzzi. Vent’anni fa non avevo uno smartphone né una connessione Internet. Avevo un piccolo portatile che mi serviva solo per scrivere. Avevo una radio. Guardavo la televisione. Leggevo cinque quotidiani ogni mattina.
Siamo i contadini della Jacquerie. I mercenari della Guerra dei Cent’anni razziavano i nostri villaggi, i nobili di Francia ci affamavano. Nell’anno del Signore 1358 ci sollevammo, demolimmo castelli, ci riprendemmo il nostro. Alcuni di noi furono catturati e decapitati. Sentimmo il sangue risalire le narici, ma eravamo in marcia ormai, e non ci siamo più fermati.
Siamo i ciompi di Firenze, popolo minuto di opifici e arti minori. Nell’anno del Signore 1378 un cardatore ci guidò alla rivolta. Prendemmo il Comune, riformammo arti e mestieri. I padroni fuggirono in campagna e di là ci affamarono cingendo d’assedio la città. Dopo due anni di stenti ci sconfissero, restaurarono l’oligarchia, ma il lento contagio dell’esempio non lo potevano fermare.
Lavoravo con i fax, e con le postazioni Internet che riuscivo a trovare in giro. Fu quello l’anno in cui, tornata a Roma, affittai il primo modem, 56k, così lento che, se ricordate, prima che una pagina caricasse c’era il tempo di alzarsi, preparare la moka, far uscire il caffé. A Pineto degli Abruzzi non avevo nulla di tutto questo, tranne la moka. Ma avevo un cellulare, un Motorola StarTac che la compagnia telefonica mi aveva regalato per premiarmi di essere stata fra i primissimi utenti di telefonia mobile (un telefono gigantesco che mi tenne connessa con l’esterno nei lunghi mesi di ospedale prima della nascita di mia figlia). E telefonavo. E aspettavo telefonate. Come sta andando a Genova?
Siamo i contadini d’Inghilterra che presero le armi contro i nobili per porre fine a gabelle e imposizioni. Nell’anno del Signore 1381 ascoltammo la predicazione di John Ball: “Quando Adamo zappava ed Eva filava / chi era allora il padrone?”. Con roncole e forconi muovemmo dall’Essex e dal Kent, occupammo Londra, appiccammo fuochi, saccheggiammo il palazzo dell’Arcivescovo, aprimmo le porte delle prigioni. Per ordine di re Riccardo II° molti di noi salirono al patibolo, ma nulla sarebbe più stato come prima.
Siamo gli hussiti. Siamo i taboriti. Siamo gli artigiani e operai boemi, ribelli al papa, al re e all’imperatore dopo che il rogo consumò Ian Hus. Nell’anno del signore 1419 assaltammo il municipio di Praga, defenestrammo il borgomastro e i consiglieri comunali. Re Venceslao morì di crepacuore. I potenti d’Europa ci mossero guerra, chiamammo alle armi il popolo ceco. Respingemmo ogni invasione, contrattaccando entrammo in Austria, Ungheria, Brandeburgo, Sassonia, Franconia, Palatinato… Il cuore di un continente nelle nostre mani. Abolimmo il servaggio e le decime. Ci sconfissero trent’anni di guerre e crociate.
I miei compadres Wu Ming avevano scritto per Genova il testo che leggete qui in corsivo. Un testo famoso, ormai. Lo avevo ricevuto per fax. Lo avevo trovato bellissimo. E ci credevo, e ci credevamo, già. Noi credevamo. Credevamo che quel movimento “antico per il futuro”, composito per età e provenienza e appartenenza, potesse davvero cambiare le cose. Che quello potesse essere l’inizio di un cambiamento. Nonviolento, per quanto speravo e spero, perché nella nonviolenza ho sempre militato. Eppure, fiutavo l’aria, mentre tornavo dalla spiaggia e i bambini facevano la doccia e raccattavo secchielli e palette e sciacquavo costumini, e cercavo notizie. Qualcosa non mi tornava. La stessa cosa, ma molto più in grande, che avevo già vissuto il 12 maggio 1977.
Siamo i trentaquattromila che risposero all’appello di Hans il pifferaio. Nell’anno del Signore 1476, la Madonna di Niklashausen si rivelò ad Hans e disse:
“Niente più re né principi. Niente più papato né clero. Niente più tasse né decime. I campi, le foreste e i corsi d’acqua saranno di tutti. Tutti saranno fratelli e nessuno possederà più del suo vicino.”
Arrivammo il giorno di S. Margherita, una candela in una mano e una picca nell’altra. La Santa Vergine ci avrebbe detto cosa fare. Ma i cavalieri del Vescovo catturarono Hans, poi ci attaccarono e sconfissero. Hans bruciò sul rogo. Non così le parole della Vergine.
Siamo quelli dello Scarpone, salariati e contadini d’Alsazia che, nell’anno del Signore 1493, cospirarono per giustiziare gli usurai e cancellare i debiti, espropriare le ricchezze dei monasteri, ridurre lo stipendio dei preti, abolire la confessione, sostituire al Tribunale Imperiale giudici di villaggio eletti dal popolo. Il giorno della Santa Pasqua attaccammo la fortezza di Schlettstadt, ma fummo sconfitti, e molti di noi impiccati o mutilati ed esposti al dileggio delle genti. Ma quanti di noi proseguirono la marcia portarono lo Scarpone in tutta la Germania. Dopo anni di repressione e riorganizzazione, nell’anno del Signore 1513 lo Scarpone insorse a Friburgo. La marcia non si fermava, né lo Scarpone ha più smesso di battere il suolo.
C’era qualcosa nell’aria. Si potevano riconoscere i segni. I fascicoli riservati. Quelli che prefiguravano lanci di palloncini contenenti sangue infetto (Aids, all’epoca). Fionde che lanciavano bulloni. Apocalisse e morte. L’errore nella scelta della città. La zona rossa, che allora aveva un altro significato.
Siamo il Povero Konrad, contadini di Svevia che si ribellarono alle tasse su vino, carne e pane, nell’anno del Signore 1514. In cinquemila minacciammo di conquistare Schorndorf, nella valle di Rems. Il duca Ulderico promise di abolire le nuove tasse e ascoltare le lagnanze dei contadini, ma voleva solo prendere tempo. La rivolta si estese a tutta la Svevia. Mandammo delegati alla Dieta di Stoccarda, che accolse le nostre proposte, ordinando che Ulderico fosse affiancato da un consiglio di cavalieri, borghesi e contadini, e che i beni dei monasteri fossero espropriati e dati alla comunità. Ulderico convocò un’altra Dieta a Tubinga, si rivolse agli altri principi e radunò una grande armata. Gli ci volle del bello e del buono per espugnare la valle di Rems: assediò e affamò il Povero Konrad sul monte Koppel, depredò i villaggi, arrestò sedicimila contadini, sedici ebbero recisa la testa, gli altri li condannò a pagare forti ammende. Ma il Povero Konrad ancora si solleva.
Siamo i contadini d’Ungheria che, adunatisi per la crociata contro il Turco, decisero invece di muover guerra ai signori, nell’anno del Signore 1514. Sessantamila uomini in armi, guidati dal comandante Dozsa, portarono l’insurrezione in tutto il paese. L’esercito dei nobili ci accerchiò a Czanad, dov’era nata una repubblica di eguali. Ci presero dopo due mesi d’assedio. Dozsa fu arrostito su un trono rovente, i suoi luogotenenti costretti a mangiarne le carni per aver salva la vita. Migliaia di contadini furono impalati o impiccati. La strage e quell’empia eucarestia deviarono ma non fermarono la marcia.
Altri stanno ricostruendo, in queste ore. Io potevo solo guardare, ascoltare, telefonare. Stai bene che succede. Intanto i bambini guardavano i Teletubbies e giocavano a nascondino con gli amici del mare. E guardando loro, che ridevano sempre (o al massimo piangevano per un’indigestione di frittelle) pensavo, e forse lo pensavo per la prima volta, come sarebbe stato il mondo dove avrebbero camminato da adulti. Ecco, non sarebbe stato lo stesso, dopo Genova.
Siamo l’esercito dei contadini e dei minatori di Thomas Muentzer. Nell’anno del Signore 1524, al grido di: “Tutte le cose sono comuni!” dichiarammo guerra all’ordine del mondo, i nostri Dodici Articoli fecero tremare i potenti d’Europa. Conquistammo le città, scaldammo i cuori delle genti. I lanzichenecchi ci sterminarono in Turingia, Muentzer fu straziato dal boia, ma chi poteva più negarlo? Ciò che apparteneva alla terra, alla terra sarebbe tornato.
Siamo i lavoranti e contadini senza podere che nell’anno del Signore 1649, a Walton-on-Thames, Surrey, occuparono la terra comune e presero a sarchiarla e seminarla. “Diggers”, ci chiamarono. “Zappatori”. Volevamo vivere insieme, mettere in comune i frutti della terra. Più volte i proprietari terrieri istigarono contro di noi folle inferocite. Villici e soldati ci assalirono e rovinarono il raccolto. Quando tagliammo la legna nel bosco del demanio, i signori ci denunciarono. Dicevano che avevamo violato le loro proprietà. Ci spostammo a Cobham Manor, costruimmo case e seminammo grano. La cavalleria ci aggredì, distrusse le case, calpestò il grano. Ricostruimmo, riseminammo. Altri come noi si erano riuniti in Kent e in Northamptonshire. Una folla in tumulto li allontanò. La legge ci scacciò, non esitammo a rimetterci in cammino.
Siamo i servi, i lavoranti, i minatori, gli evasi e i disertori che si unirono ai cosacchi di Pugaciov, per rovesciare gli autocrati di Russia e abolire il servaggio. Nell’anno del Signore 1774 ci impadronimmo di roccaforti, espropriammo ricchezze e dagli Urali ci dirigemmo verso Mosca. Pugaciov fu catturato, ma il seme avrebbe dato frutti.
Ero sdraiata sul divano-letto quando apparve in televisione Berlusconi per dare notizia della morte di Carlo Giuliani. Ricordo di aver pensato, di nuovo, a Giorgiana Masi. Ricordo di aver pensato che anche questa volta c’era stata un’onda di utopia e di speranza che era stata fermata. Ma non sapevo ancora, lo avrei saputo dopo, di Bolzaneto e della Diaz.
Siamo l’esercito del generale Ludd. Scacciarono i nostri padri dalle terre su cui vivevano, noi fummo operai tessitori, poi arrivò l’arnese, il telaio meccanico… Nell’anno del Signore 1811, nelle campagne d’Inghilterra, per tre mesi colpimmo fabbriche, distruggemmo telai, ci prendemmo gioco di guardie e conestabili. Il governo ci mandò contro decine di migliaia di soldati e civili in armi. Una legge infame stabilì che le macchine contavano più delle persone, e chi le distruggeva andava impiccato. Lord Byron ammonì:
“Non c’è abbastanza sangue nel vostro codice penale, che se ne deve versare altro perché salga in cielo e testimoni contro di voi? Come applicherete questa legge? Chiuderete un intero paese nelle sue prigioni? Alzerete una forca in ogni campo e appenderete uomini come spaventacorvi? O semplicemente attuerete uno sterminio?… Sono questi i rimedi per una popolazione affamata e disperata?”.
Scatenammo la rivolta generale, ma eravamo provati, denutriti. Chi non penzolò col cappio al collo fu portato in Australia. Ma il generale Ludd cavalca ancora di notte, al limitare dei campi, e ancora raduna le armate.
Siamo le moltitudini operaie del Cambridgeshire, agli ordini del Capitano Swing, nell’anno del Signore 1830. Contro leggi tiranniche ci ammutinammo, incendiammo fienili, sfasciammo macchinari, minacciammo i padroni, attaccammo i posti di polizia, giustiziammo i delatori. Fummo avviati al patibolo, ma la chiamata del Capitano Swing serrava le file di un esercito più grande. La polvere sollevata dal suo incedere si posava sulle giubbe degli sbirri e sulle toghe dei giudici. Ci attendevano centocinquant’anni di assalto al cielo.
Siamo i tessitori di Slesia che si ribellarono nell’anno 1844, gli stampatori di cotonate che quello stesso anno infiammarono la Boemia, gli insorti proletari dell’anno di grazia 1848, gli spettri che tormentarono le notti dei papi e degli zar, dei padroni e dei loro lacchè. Siamo quelli di Parigi, anno di grazia 1871.Abbiamo attraversato il secolo della follia e delle vendette, e proseguiamo la marcia.
Non sapevo, ma evidentemente lo avrei saputo, come tutti, che uno degli orrori più grandi del nostro paese non avrebbe trovato giustizia. Non sapevo che molti dei responsabili della mattanza avrebbero fatto carriera. Non sapevo, non so, cosa pensano di se stessi. Forse non voglio saperlo.
Loro si dicono nuovi, si battezzano con sigle esoteriche: G8, FMI, WB, WTO, NAFTA, FTAA… Ma non ci ingannano, sono quelli di sempre: gli écorcheurs che razziarono i nostri villaggi, gli oligarchi che si ripresero Firenze, la corte dell’imperatore Sigismondo che attirò Ian Hus con l’inganno, la Dieta di Tubinga che obbedì a Ulderico e annullò le conquiste del Povero Konrad, i principi che mandarono i lanzichenecchi a Frankenhausen, gli empii che arrostirono Dozsa, i proprietari terrieri che tormentarono gli Zappatori, gli autocrati che vinsero Pugaciov, il governo contro cui tuonò Byron, il vecchio mondo che vanificò i nostri assalti e sfasciò ogni scala per il cielo.
Oggi hanno un nuovo impero, su tutto l’orbe impongono nuove servitù della gleba, si pretendono padroni della Terra e del Mare.
Sono passati vent’anni. Ci sono nuovi bambini che vanno al mare. Alcuni genitori di quei bambini oggi pensano che debbano crescere in un mondo “decoroso”, senza l’immagine della povertà, e per questo plaudono quando le strade vengono ripulite e in luogo degli ultimi spuntano fiori. Quell’onda non si è alzata di nuovo. Ma forse, prima o poi, avverrà. Forse saranno gli stessi bambini cresciuti ad alzarla, uscendo dalla bolla di benessere che è stata costruita loro attorno come Siddharta uscì dal palazzo del padre, il re Suddhodana. Forse sì.
Oggi è il tempo del ricordo. L’augurio è che non sia retorico. L’augurio è che non risuonino parole di autogiustificazione da parte di chi ordinò e di chi realizzò quegli ordini. L’augurio è che serva, e servirà.
Contro di loro, ancora una volta, noi moltitudini ci solleviamo.
Genova.
Penisola italica.
19, 20 e 21 luglio
di un anno che non è più di alcun Signore.