C’è un bigliettino, famoso, che Franco Fortini lascia sul banco di uno dei suoi studenti. Quello studente è Angelo Branduardi, e una volta cresciuto metterà in musica alcune poesie di Fortini. Dunque, il bigliettino. Il testo diceva così:
“No, non perdetelo il tempo ragazzi,
non è poi tanto quanto si crede;
date anche molto a chi ve lo chiede,
dopo domenica è lunedì”.
Ecco, quel “Date anche molto a chi ve lo chiede” è un passaggio di testimone prezioso, secondo me. Aggiungerei, volendo, “e persino a chi non lo chiede”. Ma non per una canonica, formale, retorica celebrazione della generosità. La generosità non si celebra: semmai si coltiva, anche quando la si possiede per indole, formazione, altro. Scrivo questo, in questa giornata di ricordi, la seconda di tre, e in realtà di molte di più, per parlarvi, sia pur brevemente, di K. K è una rivista, cartacea, solo di racconti, e questa già è una faccenda preziosa, vista l’antica diffidenza italiana verso la forma breve (e che noia però: il fantastico no, i racconti no, quello non vende, quell’altro neppure, dicono. Che noia). Prezioso è il fatto che esca ora, per volontà de Linkiesta e per la direzione di Nadia Terranova. Che è appunto una di quelle scrittrici e persone che irradiano generosità e attenzione verso le parole degli altri, invece di limitarsi a coltivare le proprie. Per farla breve, sono usciti fin qui due numeri con due parole-chiave diverse: Sesso e Memoria. Chi scrive ha partecipato al volume due, ma non è solo per questo che ne parlo. E’ perché ieri sera abbiamo presentato la rivista al Teatro India, insieme ad Annalisa De Simone e Romana Petri, ma ad ascoltare c’erano altre amiche che lavorano con le parole, come Viola Lo Moro e Gilda Policastro, e alla fine, nonostante la pioggia che rischiava di far saltare tutto, mi sono ritrovata a pensare che non è vero che non esista la cosiddetta “società letteraria”. O meglio: che è bene che non esista quella canonizzata in precedenza, come gruppo di titolate e titolati che si incontra per parlare, essi credevano, noi credevamo, di forme inscalfibili dal mondo. Chi scrive, secondo me, ha bisogno sì di incontrarsi, ma di parlare di tutto: amori e dolori, cani e fidanzati, film e vaccini, teatro e scrittura e ricette della parmigiana, volendo. Perché è da quell’intreccio che nasce la profondità, e in quella profondità, in quelle pieghe e in quegli inghiottitoi, si rafforza la narrazione.
Aneddoto conclusivo e irrilevante, ma che dimostra che la realtà è irreale, altro che generi, altro che fantastico: per arrivare in tempo al bar del Teatro India, lontanissimo da casa mia, una volta chiusa la diretta mi sono precipitata a chiamare un taxi. Mi confermano tre minuti, la sigla fingiamo che sia Marte42. Bene, pochi secondi dopo il mio arrivo sul vialetto, Marte42 mi sfreccia davanti. L’autista e io ci guardiamo per un istante, io gli faccio un cenno ma lui mi scambia per qualcuna-che-cerca-un-taxi e procede. Per fortuna, dopo due minuti, arriva per puro caso un altro taxi e lo prendo al volo, avvertendo intanto la compagnia di Marte42 perché lo avvertissero a loro volta (supponevo che sarebbe tornato indietro, ma dopo un bel po’, visto il giro che avrebbe dovuto fare) e annullassero la corsa. Questo avveniva alle sei e un quarto del pomeriggio. Alle 11 passate, riprendo un taxi dal Teatro India. E chi ti arriva? Marte42. “Ma lei…”, “Ma lei…”, ci diciamo e poi scoppiamo a ridere, sul suo navigatore che l’ha ingannato, sulla compagnia che non lo ha richiamato e su tutto il resto. “Era destino che dovesse salire sul mio taxi”, dice lui. “Queste cose succedono solo dopo una serata con Nadia Terranova”, penso io. Ed è vero.