NON MI HAI CAMBIATO, LO SAI: UNA RIFLESSIONE DI INIZIO ANNO

Inutile girarci intorno. La maggior parte delle persone che conosco (e certo questo non fa una statistica, né una verità assoluta: è un piccolo fatto, e in quanto tale lo registro) ha trascorso questi giorni festivi a cavallo tra il vecchio e il nuovo anno col cuore stretto. E non per la rinuncia ai veglioni, che è la più ovvia delle ridicolizzazioni che vengono fatte in questi casi: complice la pioggia battente su Roma, il buio, il freddo, siamo stati male. Lo sono stata evidentemente anche io, e ieri sera, quando mi sono sorpresa a lottare contro il sonno davanti al computer, e infine il sonno mi vinceva e crollavo col mento sul petto come una vecchietta, mi sono detta che occorre fare qualcosa.
Fare, ovvero l’imperativo con cui abbiamo convissuto per decenni. Dal momento che sempre più spesso, nei film, nelle serie, nelle storie, si guarda indietro, a quel tempo che fino a non molto tempo fa veniva considerato oscurissimo, anzi plumbeo, come gli anni Settanta, e agli scintillanti e colpevoli, così veniva detto, anni Ottanta, e dal momento che è in atto una sorta di rivalutazione sulla generazione dei sognatori, sia pure sconfitti, sia pure decimati dall’eroina, sia pure rifluiti nel cinismo, varrà la pena fare una riflessione su cosa significava questo verbo, fare.
Negli anni Settanta quel “fare” aveva un significato preciso. Fare qualcosa per cambiare il mondo. Si può anche ridere sulla faccenda, e naturalmente lo farà qualcuna delle mammette feroci che in questi giorni definiscono la mia generazione come “quelli del sei politico” e vorrebbero vederla dissolversi nel nulla ora e subito perché, al solito, è per colpa dei vecchi che non vogliono morire se i bimbi delle mammette feroci sono chiusi in casa. Eppure il concetto, per molti di noi, era quello. Quando le mie amiche e io sognavamo sulle copertine del Mondo immaginando di far parte il prima possibile delle armate Brancaleone che si opponevano ai poteri, pensavamo a questo. Sognavamo, in particolare, sulla copertina  dove c’era Pannella vestito da Robin Hood con Spadaccia che impugnava una penna invece della lancia o della spada. Non lo cantava anche Francesco De Gregori? Il signor Hood era un galantuomo/ Sempre ispirato dal sole/Con due pistole caricate a salve/E un canestro di parole.
Fare. Molti di noi hanno fatto, ma in un tempo che allora sembrava rapidissimo ed era lento, invece, con mille spazi vuoti dove si insinuavano i libri e i dischi e gli amori e i mille discorsi, e dove l’idea di fare-per-ottenere era lontana. Tra i miei compagni di strada di allora c’erano indubbiamente gli ambiziosi, quelli che già a vent’anni sapevano esattamente dove volevano arrivare (in alto) e come farlo. Ma erano eccezioni. Non sto dicendo che eravamo santi: dico che eravamo, con ogni probabilità, meravigliosamente illusi. E quando le illusioni si affievoliscono o scoppiano del tutto, si reagisce come si può. Qualcuno non regge, e passa all’eroina (e così fu), qualcuno non regge, e passa alla lotta armata (e così fu), qualcuno regge come può e trasforma la sua vita in un lungo rimpianto dell’età dell’oro, salvo accusare il mondo circostante di aver fatto di lui un fallito (e ci sarebbe stato il momento in cui qualcuno, assai abile, avrebbe raccolto quel lungo risentimento fingendo di trasformarlo in politica), qualcuno cerca altre strade. E quelle strade possono comportare la conservazione di chi si era stati o la cancellazione di chi si era stati.
Ricordo una pubblicità televisiva di Repubblica. Credo fosse per il decennale della nascita del quotidiano, quindi grosso modo metà degli anni Ottanta. Un manager (si diceva, allora, uno yuppie) seduto alla sua bella scrivania che guarda la fotografia di se stesso dieci anni prima, con eskimo e capelli lunghi, nel pieno vento della giovinezza e della ribellione. Sei cresciuto, era il sottinteso, sei cambiato. Che bello.
E’ stato, anche, bello. Degli anni Ottanta non ricordo solo l’ossessione del comprare e del circondarsi di cose, di uscite, di locali, di vestiti, come ha raccontato Bret Easton Ellis in American Psycho. Ricordo l’arte, le sperimentazioni, il teatro, i libri, la musica. Poi, certo, quel periodo fu, è vero, il turning point, la curvatura due dei fragorosi consumi culturali: quei maglioni a ottocentomila lire, e i vestiti di Armani, e poi il lavoro e la carriera e tutte le altre cose, per i figli, i peluche e giocattoli e le videocassette di Disney, tutti quei cinema e quelle scarpette, tutte quelle vacanze, tutta quella vita che scorre addosso, quel “fare” che ha coinciso con essere nel successo, nel guadagno, nel riconoscimento degli altri, tutto quel che ha fatto sì che anche i figli e i nipoti crescessero con quel desiderio, e figurati quando arriva Internet, e poi i social, quando diventare famosi, fare per essere, diventa più facile.
E di colpo tutto si inchioda, di nuovo, qui.
Un post così lungo per dire un’ovvietà, già. Il “fare” si è sbriciolato fra le nostre mani. E anche chi da quell’impossibilità di fare non ha visto schiantata la sua vita (penso, evidentemente, a tutte le persone che hanno perso il lavoro), sta male, così come stiamo male tutti, o quasi tutti.
Ora, se fossi una guida spirituale, o fingessi di esserlo, se fossi un modello per qualcuno, o fingessi di esserlo, direi che dobbiamo capovolgere quel significato di “fare”, riconsiderare i nostri desideri e chiederci quanto fossero davvero nostri. Cosa che peraltro sto chiedendomi, da quando per la seconda volta, e con più angoscia della prima, mi trovo chiusa a casa, e ringrazio la dea di avere una casa peraltro. Io non so dove cammineremo e come cammineremo nei prossimi mesi. Non so se saremo o meno migliori. So che saremo diversi, e con questo essere diversi dobbiamo giocoforza fare i conti. Ci sto provando. Spero che siano in molti a provare. Perché l’alternativa è rintanarci sulla poltrona, davanti a una serie o a un film o a un documentario, e sentire le palpebre che si fanno pesanti. E no, non può andare avanti così.
Buon anno, commentarium, di cuore.

4 pensieri su “NON MI HAI CAMBIATO, LO SAI: UNA RIFLESSIONE DI INIZIO ANNO

  1. Già. Mentre per chi è andata peggio c’è stata una lenta ma inesorabile frana, tipo bradisismo, mentre dentro e intorno a te ti dicevi: “Va tutto bene, non può capitare a me, io ne uscirò; non come gli altri”.
    Poi, al primo vero terremoto, scopri di essere “gli altri” e di non saperti guardare da fuori se non attraverso quei giudizi che erano pure i tuoi. Così capisci di essere contemporaneamente solo e senza scampo.
    A questo punto tutti i finali sono aperti: forse “Il Trono di Spade” (tv) ha da dirci qualcosa.

  2. Non si può andare avanti così infatti E se fossi una guida spirituale, mi piacerebbe che la nostra società cominciasse a pensare un po’ al futuro, ai giovani ai ragazzi ai bambini.
    Uno dei danni collaterali di questa “pandemia e per es. dell’uso delle mascherine, è il fatto che i bambini dei nidi e degli asili, non riescono ad imparare a parlare. Aumentano le varie patologie legate al linguaggio, problemi di fonazione dislessie etc. questo perché ( non ci avevo pensato) si impara a parlare guardando gli altri che lo fanno, come muovono la bocca come respirano come articolano i muscoli del viso . Stando tutto il giorno con insegnanti che hanno volto coperto questo non è possibile, cos’ aumentano i ritardi le sofferenze e il lavoro per gli psicologi. Ma di questo come di tanti altri problemi non si può nemmeno parlare viene da chiedersi davvero perché.

  3. …veramente hanno inventato anche mascherine trasparenti sulla zona della bocca: basterebbe adottarle. E comunque ti assicuro che ci sono situazioni ben più gravi che vengono dal passato anche recente e che la pandemia ha acuìto scavando fossati spesso incolmabili a livello di disuguaglianze sociali ed economiche. Il post di Loredana, poi, abbraccia un periodo ben più ampio dell’ultimo anno e suggerisce riflessioni ancor più amare sia sul passato che, soprattutto, sul futuro.

  4. Penso che ogni tempo sia figlio del suo tempo. In ogni fare è insito il seme del proposito e della conseguente, potenziale delusione che rende retrospettivamente quel fare un’illusione. Ma non potrebbe essere altrimenti. Il riscatto sta nella interegenerazionalità. Apprendo da 50enne dai millennials e dalla generazioni z e la aiuto come posso. Non rinnego e al contempo mi reciclo. Il mio fare è divenuto esserci, andare più veloce, capire invece di opinare. Il lavoro è divenuto la sua sua controfigura, un costante piano B

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