ONDE DI MAREA

Lettura per il week end. Parte di un intervento di Geert Lovink, teorico dei media, per Lettera Internazionale, già anticipato una decina di giorni fa dal Manifesto. Lo ripesco e lo metto qui. Perché merita.
Il concetto «social media», che descrive un insieme confuso di siti web come Facebook, Digg, YouTube, Twitter e Wikipedia, non è un progetto nostalgico volto a rilanciare il potenziale, un tempo pericoloso, del «sociale», inteso come una folla inferocita che richiede la fine della diseguaglianza economica. Piuttosto, il sociale è riportato in vita come simulacro della sua stessa capacità di creare relazioni sociali significative e durature. Vagando tra le reti globali virtuali, ci sembra di essere sempre meno legati ai nostri ruoli all’interno della comunità tradizionale, come la famiglia, la chiesa, il quartiere. Soggetti storici, una volta definiti come cittadini o membri di una classe con determinati diritti, sono stati trasformati in attori dinamici chiamati «utenti», clienti che si lamentano, e prosumer. Ciò che conta – per esempio nella politica e nel mondo degli affari – sono i «fatti sociali» così come si presentano attraverso l’analisi della rete e le corrispondenti visualizzazioni dei dati. La parte istituzionale della vita è un altro discorso, un regno che viene rapidamente lasciato alle spalle. Si è tentati di rimanere positivi e di fare una sintesi, proseguendo lungo questo percorso, tra le strutture di potere formalizzate all’interno delle istituzioni e la crescente influenza delle reti informali. Il sociale, che era un tempo il collante utilizzato come rimedio al danno storico, può rapidamente trasformarsi in materiale instabile, esplosivo.
In Questo non è un manifesto (Feltrinelli), Michael Hardt e Antonio Negri evitano di discutere la dimensione sociale più ampia della comunità, della coesione e della società. Parlano di una schiavitù inconsapevole: «Accade a volte che le persone lottino per la propria condizione di schiavitù come se fosse la salvezza». I due teorici sono interessati al diritto individuale nei «social media», piuttosto che al sociale in generale. «È dunque possibile che nella comunicazione ed espressione volontaria, nei blog, nella ricerca sul web e nell’uso dei social media, le persone contribuiscano a fare crescere invece di contrastare le forze repressive?» Per noi, il lavoro e il tempo libero mediatizzati non sono più separabili. Ma che cosa dire dell’aspetto positivo dell’essere collegati agli altri?
Hardt e Negri fanno l’errore di ridurre il social networking a una questione di medium, come se Internet e gli smartphone fossero usati solo per cercare e produrre informazioni. Per quanto riguarda il ruolo della comunicazione, concludono che «niente può sostituire la vicinanza fisica e la comunicazione corporea che è la base dell’intelligenza politica collettiva e del- l’azione».
In questo senso, la vera natura della vita sociale online resta fuori campo, e non viene quindi esaminata. L’incontro tra il sociale e i media non deve essere venduto come una sintesi in senso hegeliano, come un’evoluzione storico- mondiale; tuttavia, la forte seppur astratta concentrazione di attività sociale sulle piattaforme network di oggi è qualcosa che ha bisogno di essere teorizzato.
L’appello di Hardt e Negri al rifiuto della mediazione deve essere superato. Abbiamo bisogno di «costruire nuove verità che possono essere create unicamente da singolarità comunicanti in network e nello stare insieme». Abbiamo invece bisogno sia di lavorare in rete che di piantare le tende. Nella loro versione del sociale, «ci muoviamo in sciami come insetti» e agiamo come «una decentralizzata moltitudine di singolarità che comunica orizzontalmente». In questa prospettiva, le strutture di potere e le frizioni che emergono da questa situazione non sono ancora state affrontate.
Quello che dobbiamo fare invece è prendere il processo di socializzazione al valore nominale ed evitare di perderci in interpretazioni politiche benpensanti (come ad esempio le «rivoluzioni su Facebook» della Primavera araba e dei movimenti delle piazze). I meccanismi dei «social media» sono sottili, informali e indiretti. Ma è possibile concepire la svolta sociale nei nuovi media come qualcosa di freddo e intimo allo stesso tempo, così come dice la sociologa israeliana Eva Illouz nel suo libro Intimità fredde (Feltrinelli)?
La letteratura dell’industria dei media e dell’information technology evita di rispondere a questa domanda. Virtù come l’accessibilità e la fruibilità non spiegano che cosa le persone stiano cercando «là fuori». Limiti analoghi si ritrovano nel discorso sulla fiducia, che cerca di gettare un ponte tra la sfera informale e la sfera giuridica delle norme e dei regolamenti. Il sociale non è semplicemente la consapevolezza (digitale) dell’altro, anche se l’importanza del «contatto diretto» non va sottovalutata. Deve esserci un’interazione effettiva, reale, esistente. Questa è la differenza principale tra i vecchi media radiotelevisivi e il modello attuale dei «social network».
Nel contesto online, il sociale richiede infatti il nostro coinvolgimento costante, sotto forma di click. Abbiamo però bisogno di fare il link con il reale al di fuori dello schermo. Le macchine non potranno effettuare il collegamento vitale per noi, a prescindere da quanto avremo delegato loro. Non basta incrementare il nostro capitale sociale esistente. Ciò che i social media possono fare è espandere algoritmicamente la nostra portata, o almeno, è ciò che promettono.
Il «genio maligno del sociale» non ha dunque altro modo di esprimere se stesso se non tornando nelle strade e nelle piazze, guidato e assistito dalla moltitudine di punti di vista prodotti da smartphone «cinguettanti» e da fotocamere digitali. Così come Jean Baudrillard considerava l’esito dei sondaggi di opinione come una sottile vendetta della gente comune contro il sistema politico-mediatico, allo stesso modo dovremmo mettere in discussione la verità oggettiva dei cosiddetti big data provenienti da Google, Twitter e Facebook. La maggior parte del traffico sui «social media» proviene da milioni di computer che comunicano tra loro. Considerare un 10% di partecipazione attiva è già dire tanto, visto che gli utenti sono assistiti da un esercito di diligenti e laboriosi automatismi del software. Il resto degli account è infatti inattivo.
Il sistema di «social media» non è tuttavia più in grado di «immergerci in uno stato di stupore», come diceva Baudrillard riguardo all’esperienza dei media, decenni fa. Ora, piuttosto, il sistema ci mostra la via per avere le applicazioni più alla moda e altri prodotti che elegantemente ci fanno dimenticare il sapore della giornata di ieri. Basta un click, selezionare, e trascinare via la piattaforma per trovare qualcos’altro che ci distragga. Così trattiamo i servizi online: ce li lasciamo alle spalle, se possibile, su hardware abbandonati. In poche settimane, dimentichiamo l’icona, il segnalibro, o la password. Non è necessario ribellarsi contro i media del web 2.0, abbandonandolo mentre protestiamo per via di norme sulla privacy che riteniamo invadenti; al contrario, possiamo tranquillamente scartarlo, immaginando che alla fine si unirà al buon vecchio Html, nelle città fantasma dei passati anni Novanta.
Ci sono molti dubbi sul fatto che Facebook e Twitter, oggi piattaforme per milioni di utenti, siano ancora in grado di generare autentiche esperienze di comunità online. Ciò che conta sono gli argomenti di tendenza, la nuova piattaforma e le app più recenti. Un giorno, gli storici di Silicon Valley diranno che i siti di «social network» nascono dalle ceneri della crisi del «punto-com», quando un manipolo di sopravvissuti che operavano dai margini degli alti e bassi dell’e-commerce ha riconfigurato i concetti ancora operativi del web 1.0, così da rafforzare il ruolo dell’utente come produttore di contenuti. Il segreto del web 2.0, che ha preso il via nel 2003, è la combinazione tra uploads (gratuiti) di materiale digitale e possibilità di commentare i contributi di altre persone. L’interattività è sempre stata costituita da queste due componenti: azione e reazione.
Come spiega Andrew Keen in Vertigine digitale (Egea edizioni), il sociale nei social media è prima di tutto un contenitore vuoto; Keen porta a esempio la solita banalità secondo cui internet «sta diventando il tessuto connettivo della vita del XXI». Secondo Keen, il sociale sta diventando un’onda di marea che spiana tutto ciò che trova lungo il proprio percorso. Keen avverte che ci ritroveremo in un futuro anti-sociale, caratterizzato dalla «solitudine di un uomo isolato in mezzo a una folla connessa».
Confinati nelle gabbie di software come Facebook, Google e i loro cloni, gli utenti sono incoraggia- ti a ridurre la loro vita sociale alla «condivisione» di informazioni. Il cittadino che si automediatizza trasmette costantemente il suo stato d’animo a un gruppo amorfo e insensibile di «amici». Keen fa parte di un gruppo in crescita di critici (principalmente) americani che ci allertano sugli effetti collaterali derivati da un uso estensivo dei social media. Dai discorsi di Sherry Turkle sulla solitudine, agli allarmi lanciati da Nicholas Carr sulla perdita di brain power e di capacità di concentrazione, alla critica di Evgeny Morozov del mondo utopico delle Ong, fino alla preoccupazione di Jaron Lanier per la perdita di creatività, ciò che unisce questi commentatori è che tutti evitano di dire quello che il sociale potrebbe essere in alternativa, se non fosse definito da Facebook e Twitter. Il problema qui è la natura dirompente del sociale, che si presenta come una rivolta contro un ordine sconosciuto e indesiderato: vago, populista, radical-islamico, guidato da memi buoni a nulla.
L’Altro come opportunità, come canale, oppure come ostacolo? A voi la scelta. Non è mai stato così facile «auto-quantificare» i contorni personali di un individuo. Seguiamo le nostre statistiche sul blog e sulle nostre menzioni di Twitter, controlliamo gli amici degli amici su Facebook, o andiamo su eBay per comprare un paio di centinaia di «amici» che poi possano mettere il loro «mi piace» sulle le nostre ultime foto e diffondere il nostro ultimo look. Secondo Dave Winer, il futuro dell’informazione sarà come «creare un fiume, aggregando i feed dei blogger che ammiri di più e le fonti delle notizie che leggono. Condividere le tue fonti con i tuoi lettori, nella consapevolezza che quasi nessuno è solo fonte o solo lettore. Mescolare il tutto. Fare una zuppa di idee e assaggiarla spesso. Essere connessi con tutti coloro che sono importanti per te, il più velocemente possibile, nella maniera più automatica possibile, premere al massimo l’acceleratore e togliere il piede dal freno». È così che i programmatori oggi incollano tutto a un codice. Collegare persone a dati, oggetti a persone. Questo è il sociale, oggi.

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