OPERA SECONDA

Nella rubrica Internet club uscita sabato su Repubblica ho parlato, fra l’altro, di quanto riferisce il Wall Street Journal. Ovvero, di un necrologio lungo diciannove anni: è quello della slush pile, ovvero quei manoscritti “non sollecitati” e inviati direttamente dagli autori o da un agente sconosciuto all’editore. Secondo Katherine Rosman del Wall Street Journal, risale al 1991 l’ultima volta che un editor della Random House pescò un testo dalla sua pila. Era Carpool di Mary Cahill, e divenne un best-seller. Oggi, scrive Rosman, Random House e le altre major non accettano più manoscritti “non sollecitati”: se il sollecito non c’è stato, dicono, c’è una buona ragione. Dunque gli editori americani respingono quei testi che non siano sottoposti da un agente: ma trovare un agente è difficile, e anche se l’esordiente riesce a farsi rappresentare capita spesso che il suo libro venga letto da un manager piuttosto che da un editor. Non tutti hanno la fortuna di Stephenie Meyer che, nel 2003, mandò una lettera all’agenzia Writers House chiedendo se qualcuno era interessato a dare un’occhiata a un manoscritto di 130.000 battute. Per puro caso, le rispose un’assistente ignara della regola dell’agenzia: i romanzi per young adult dovevano essere rigorosamente contenuti fra le 40.000 e le 60.000 battute. A proposito, e il Web? “Il web – scrive Rosman – viene spesso considerato dai cacciatori di talenti come una palude non navigabile”.
E in Italia? Chiacchierando, in questi giorni, con alcuni amici scrittori, va a confermarsi una sensazione che serpeggia da mesi, e di cui avevo parlato in più occasioni a Fahrenheit. Ovvero, che i grandi editori non hanno più alcun interesse a puntare a lungo sugli esordienti, a meno che, al primo libro, l’esordiente medesimo non ottenga subito vendite a quattro zeri. Che male c’è? dirà qualcuno: una casa editrice è un’azienda e non un ente benefico. Verissimo (forse).  Ma se questa logica fosse stata adottata anche solo dieci anni fa, molti degli attuali scrittori quaranta-cinquantenni avrebbero pubblicato un solo libro, senza che fosse stata data loro la possibilità di crescere e, infine, raggiungere anche i famosi quattro zeri.
Dunque? Dunque, il ruolo più importante sarà affidato agli editori medi e piccoli: i grandissimi, temo, non concederanno facilmente seconde possibilità a coloro che non entrano in classifica, e il rischio di innescare un circolo vizioso è evidente.
Poi, certo, voglio sbagliarmi.

53 pensieri su “OPERA SECONDA

  1. cara loredana, non ci conosciamo di persona ma leggo i tuoi articoli su repubblica e ti apprezzo molto. non intervengo nei blog ma ho letto questo post e vorrei portare la mia esperienza e alcune considerazioni. sono uno scrittore, diciamo giovane, e pubblico libri per uno dei tre grossi gruppi editoriali italiani (qui sto usando un nome fittizio, non voglio usare questo spazio per farmi pubblicità né per creare polemiche che investano il mio editore, che lavora come tutti gli altri e che alla fine, se sono qui a scrivere le cose che sto per scrivere, ha creduto in me). prendili così, come pensieri sparsi. uno dei miei libri ha venduto piuttosto bene (quattro zeri, come scrivi tu), l’ultimo che ho scritto si avvia a farlo, anche grazie (anzi, soprattutto) ai buoni lanci che stanno per fare i miei editori stranieri (anche qui, tutti grossi gruppi editoriali, trovati grazie al lavoro meticoloso e pieno di passione e convinzione dell’agente che mi rappresenta) e che il mio editore italiano ha ben pensato di non fare, ritenendo che le mie vendite passate portassero in automatico altre vendite. la mia storia è questa: prima di pubblicare non conoscevo nessuno, non avevo agganci, niente di niente. mi è andata bene. non credo di essere il nuovo proust e ho sempre molti dubbi su quello che scrivo, ma cerco di farlo seguendo ogni giorno quello che sento, penso, studio e credo, senza seguire presunte logiche commerciali spesso suggerite dai miei referenti editoriali. i miei libri sono piuttosto diversi tra loro, e vengo spesso accusato da loro di non voler creare un filone in cui i miei “presunti” lettori si possano riconoscere. inutile sottolineare che vivo tutto ciò con un’enorme malinconia di fondo, ma alla fine ci si passa sopra (non per arrendevolezza, ma per incapacità pratica di spostare una montagna con due sole mani). quando in casa editrice leggono un mio nuovo lavoro e mi chiamano alle riunioni per il lancio, lo chiamano “il prodotto”. in quelle riunioni chiedono a me suggerimenti per quel lancio (che poi non realizzano, perché non rientrano nelle “logiche”, le chiamano così, di mercato. le “logiche” di lancio per loro sono ripetere le stesse strategie, da anni, mai nessuna innovazione, e di aumentarle di intensità nei libri in cui credono di più). quando cerco di discutere con l’editor o con qualcuno che lavora lì dentro, spesso trovo persone impreparate, che si scusano perché, dicono, non possono leggere tutto, non possono sapere tutto, già è fatica leggere i libri che devono pubblicare. li guardo, è lì che nasce la mia malinconia. dal deserto. Sabbia, che arriva dentro da molte delle loro parole. ma questa è soltanto la mia esperienza, e il mio parere. una volta uno della dirigenza, a pranzo, mi disse: “tu scrivi bene, chiaro, se il prossimo libro che fai sarà un thriller, ti prometto un lancio alla grande” (preciso: non so come gli sia venuto in mente, non scrivo e non ho mai avuto intenzione di scrivere thriller). l’ho guardato, negli occhi. inutile che ti dica cosa ci ho visto. deserto. sabbia. a volte mi chiedo se sono un’idealista, un bambino che vive nel corpo di un grande e cerca da illuso le cose pulite. ma continuo così. conosco molti scrittori giovani (e non “giovani scrittori”, ma questa è una solfa ritrita, e lascio perdere), alcuni continuano a pubblicare, con investimenti al ribasso dopo i loro primi libri, altri sono estromessi dall’ambiente editoriale, e per rientrarci devono pubblicare con i piccoli. non c’è niente di male. ma editore piccolo significa anticipo basso o nullo, e molte difficoltà per dedicare tempo a scrivere, ricerche, viaggi, che non sono velleità, ma tentativi di dare spessore e idee a quello che facciamo (forse non sempre ci riusciamo, spesso veniamo criticati per i nostri libri, magari, ma la questione, se capisci cosa voglio dire, è un’altra). punto due. gli editori italiani, a quanto vedo, leggono i libri che arrivano, o almeno alcuni di loro li fanno leggere, spesso da neolaureati malpagati. quando mi presi un po’ di tempo per capire, qualche anno fa, se potevo iniziare questo percorso di lavoro e di vita, ho capito però che quella non era la strada giusta. se uno vuole pubblicare un disco, lo porta, che ne so, alla warner, alla emi direttamente? cerca di mandarlo al suo cantate preferito? nell’economia delle cose, questo non funziona. all’epoca scrissi a quelli che ritenevo i più importanti agenti letterari in italia. poche righe, chiedevo un parere, un consiglio. mi hanno risposto tutti. tranne uno, tutti alla fine volevano rappresentarmi. questo non è solo il mio caso. anche di altri ragazzi che conosco e che pubblicano regolarmente. a molti di noi è andata bene, è vero, ma parlandoci abbiamo capito una cosa: abbiamo scelto tra un po’ di stazioni, e abbiamo intuito qual era il treno giusto da prendere. avere molti proiettili e sparare a caso senza sapere dov’è il bersaglio non è molto funzionale. se impieghiamo tempo a capire dov’è, quel bersaglio, anche se abbiamo a disposizione pochi colpi abbiamo più possibilità di centrarlo. mi ero promesso, a vent’anni (prima di pubblicare ho ricevuto talmente tanti rifiuti e consigli a fare dell’altro che non fossi stato convinto che questa era la mia ragione di vita, ora davvero non pubblicherei e non starei qui a scrivere queste cose), che se ce l’avessi in qualche modo fatta avrei aiutato altri a farcela. adesso collaboro con l’agenzia letteraria che mi rappresenta e faccio questo: cerco di prendere autori nuovi, aiutarli in un editing per quanto mi è possibile, e passarli all’agente perché li aiuti a pubblicare. ci metto tanta passione e visto che sto anche dall’altra parte, ho grande rispetto per i libri su cui lavoro. pensiamoci. un agente che internalizza il lavoro di scouting e soprattutto di editing perché i grossi gruppi, con molte più risorse, non lo fanno più. punto tre. non sempre un editore ha interesse a farti vendere molto. te la raccontano diversamente, ma è così. se un editore vende l’80% di quello che ha stampato, è un successo. è più facile vendere l’80% di una bassa tiratura (4-5mila copie) che di una tiratura, mettiamo, di 15mila. se togliamo il titolo di punta del gruppo (nel caso di un esordiente la prima parte dell’anno, di quelli affermati da settembre in poi), le altre decine di titoli hanno tutti una bassa tiratura. se sbagliano un titolo, non è una grossa perdita. quindi molti titoli, costi ridottissimi, basse tirature. una carneficina programmata. sul titolo di punta invece si vede, come funziona. presunto successo del passaparola che inizia un giorno dopo la pubblicazione, vetrine comprate ovunque, passaggi televisivi, spinta agli agenti di vendita che spingono i librai a prenotarne molte copie, martellamento ai giornalisti perché ci scrivano sopra (conosco molti giornalisti, parecchi di loro infastiditi dagli uffici stampa, chissà perché). lo so bene, perché uno dei miei libri è stato una puntata dell’editore. non di tutto il gruppo, ma la cosa ha funzionato piuttosto bene. tutto qua, più o meno. prendili come pensieri sparsi, probabilmente non organici, e sicuramente non rappresentativi di tutto il mondo editoriale. spero di aver dato un contributo, da dentro. resto sempre convinto che in mezzo a quel buio e a quella sabbia che ci coprono gli occhi, qualche spiraglio di luce sia sempre a portata dei nostri del nostro vivere. per questo continuo a fare quello che faccio, a credere nei libri e nei tentativi di letteratura.

  2. una correzione. mi sono accorto di aver scritto che le mie vendite sono a quattro zeri. è stato un errore. vendo a cinque numeri, non a sei.

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