Come imparare a discutere, volume cinquantesimo.
Il blog che state leggendo è nato quasi vent’anni fa. Era il novembre 2004, si respirava l’euforia da blog (io, anzi, sono arrivata con almeno due anni di ritardo rispetto ai pionieri), e il fatto che si potessero trovare tante idee esposte quotidianamente, e quotidianamente commentate, sembrava segnare l’inizio di un grande cambiamento. Per non poco tempo, le discussioni letterarie si erano davvero spostate in rete, ed erano le pagine culturali dei quotidiani a seguirle e riprenderle.
Non che tutto questo sia scomparso, intendiamoci, e non ho nessuna intenzione di spargere lacrime sul tempo che fugge. Semplicemente, i social network hanno, da una parte, allargato la possibilità di partecipare alla discussione e, dall’altra, hanno compresso tempi e spazi. La comunicazione – ma questa è un’ovvietà – è divenuta più rapida e sintetica, e difficilmente si indulge al dibattito nei commenti sotto un post: più veloce, e visibile, il tweet, o lo status su Facebook. Detto questo, i blog non hanno certo esaurito la propria funzione, e i social possono essere molto utili per rilanciare il contenuto di un lungo post.
Detto anche questo, è pur vero che i social spingono per propria natura a un raggiungimento di visibilità maggiore, alla battutina fulminante, al flame arguto.
Questo, almeno, fino a quattro anni fa.
Dopo la pandemia le cose sono cambiate parecchio. Ancora scontiamo, senza averne davvero parlato, la spaccatura in due fronti opposti che ha avuto effetti sanguinosi su tutte e tutti noi. Oggi i flame non sono arguti e sono, quasi sempre, shitstorm, o pubblica gogna.
Già, ma tu non sei aperta al dialogo, dirà qualcuno. Tu banni.
Sì, certo. Perché ormai non si va a cercare il dialogo, si cerca ostinatamente la persona con cui non si concorda per tormentarla, per chiederle sempre le stesse cose, per punzecchiare e suscitarne l’esasperazione. E’ meglio risparmiarsi il processo in tempi rapidi.
Chiariamo: è fondamentale dialogare e litigare con qualcuno con cui non si è d’accordo: ma questo è diverso dall’andare a provocare l’altro o l’altra. Faccio un esempio: non sono quasi mai d’accordo, letterariamente parlando, con Gilda Policastro, perché veniamo da mondi diversi e vediamo la letteratura in modo quasi opposto. Ma ho un’enorme stima nei suoi confronti, penso che sia una delle critiche letterarie più brave che abbiamo a disposizione e che meriterebbe molto di più di quanto ha.
Ma se io andassi tutti i giorni sulla sua bacheca a parlare di Stephen King o di Margaret Atwood non farei altro che darle inutilmente il tormento. Se verrà il giorno, ne discuteremo, anche in modo acceso, dal vivo. E poi andremo a berci un bicchiere insieme, perché così dovrebbe avvenire.
Dunque non bisogna usare i social? Certo che sì. Ma in questa fase non siamo molto capaci di farlo, non per questioni importanti almeno, o, come si suol dire, divisive. Forse torneremo a esserlo, quando riusciremo ad analizzare per bene quello che ci è successo dal gennaio 2020 a oggi.
Perché sono una possibilità meravigliosa: e ci permettono di danzare insieme.
«Dance, dance, otherwise we are lost», come diceva Pina Bausch.
Balla, balla, altrimenti siamo perduti.
Io temo che i social siano ormai irrimediabilmente enshittificati, per dirla con Cory Doctorow: non tanto e non solo a causa del trauma pandemico, quanto per una scelta deliberata dei gestori delle piattaforme, finalizzata a spostare il valore generato (inizialmente a vantaggio dell’utenza) agli azionisti delle piattaforme medesime. Questa riallocazione è guidata dagli algoritmi, che ormai veicolano prioritariamente post divisivi sulle bacheche di chiunque, per generare flame e shitstorm che sono il traffico necessario per massimizzare il profitto per gli shareholder. Temo ormai non sia più sufficiente bannare o non nutrire i troll, perché i bias di conferma che ci portiamo tutti dentro sono sollecitati in maniera soverchiante: per un troll che banno, ne arrivano altri dieci – per un contatto che si mantiene rispettoso, altri dieci sbroccano – e alla fine sbrocca chiunque. Si potrebbe addirittura teorizzare che la trollificazione degli utenti sia l’epifenomeno della enshittification – e il modo che hanno gli algoritmi per generare plusvalore per chi lo estrae dalle piattaforme. Abbandonare i social come Jaron Lanier raccomanda da anni (ben prima della pandemia)? Sarà una fuga nei boschi? Io ci penso sempre di più (non a caso sto rispondendo sul blog e non su X).
Da un po’ di anni esiste un termine che, secondo me, rappresenta bene la modalità emotiva con cui troppe persone interagiscono sui social network. Questo termine è “asfaltare” ossia avere rapidamente la meglio sull’interlocutore in un modo così definitivo da lasciarlo in un silenzio umiliante e annichilente. Nel suo neologismo inglese – “blastare” – l’immagine è ancora più diretta: far saltare in aria, distruggere.
Questo approccio non cerca il dialogo, ma l’annientamento dell’altra parte: vuole solo lasciarla stordita a terra, esposta allo sberleffo di chi assiste all’”asfaltamento”, mettendo like e condividendo.
È un “Vae victis” digitale, un accanimento crudele di fronte a una persona che si vuole sconfitta e umiliata e che molte volte può contare su migliaia o milioni di account sempre meno responsabili e consci del mezzo che stanno usando – credo che molte persone neanche si accorgano di star partecipando a una shitstorm.
L’enshittification dei social di Doctorow – citata da Faramir nel commento precedente – sembra essersi acuita grazie ai due anni di pandemia: le sue crudeli, a volte stolide, polarizzazioni hanno spinto decisamente in questa direzione.
Nonostante tutto ciò, si può e si deve continuare a spingere nella direzione inversa. Fuori o dentro ai social. Nei blog, nei podcast o nelle livestream di YouTube e Twitch. Tenendo bene in mente che “se non posso ballare, questa non è la mia rivoluzione”.
Mi sembra centrato il commento Faramir che indica gli algoritmi gli come concausa principale della presunta degenerazione social. ma il pezzo della Lipperini mi fa venire una vecchia canzone di Max gazzè, che a un certo punto dice:
“ ..il pretesto
per approfondire
un piccolo problema
personale di filosofia
su come trarre giovamento
dal non piacere agli altri
come in fondo ci si aspetta che sia”
Perché forse il problema dei social non è tanto l’odio, o perlomeno non soltanto l’dio o le sheetstorm, ma anche i complimenti sorrisi e cuoricini, che quotidianamente invadono le bacheche e che, a ben vedere, hanno molte afferenze con i tanto temuti commenti d’odio”. In entrambi i casi il movente puo essere quello di sentirsi parte di un gruppo, di ottenere visibilità, per noia, e comunque entrambi non costano niente,, iene leoni o gattini, bastano due colpetti sulla tastiera e ci sente già qualcuno . e mi chiedo se questi cuoricini sparsi con tanta generosità ( e superficialità) non siano pericolosi e dannosi quanto critiche e pollici versi, perché appunto rinsaldano la falsa percezione di cui parla Gazzè, quella per cui ogni nostra espressione debba ottenere sempre e comunque applausi e complimenti a sfacelo. e allora basta una volta trovare 4 reazioni negative su 10, per esasperare parlare di odio e tragica persecuzione, insomma troppi complimenti possono consolidare la melassa delle nostre insicurezze, mentre un idea forte giusta non dovrebbe aver niente da temere..
(olè!)
ciao,k.
Proprio di recente, mentre parlavo – in un corso di formazione – dell’utilizzo delle piattaforme, mi è sfuggito il famigerato, thatcheriano, ‘non c’è alternativa’ a proposito della presenza sui social di un’impresa, un’iniziativa, un progetto. Non c’è alternativa, perché è da lì che ‘passa tutto’, e guai a usare un linguaggio diverso da quelli _social_mente accettati (che sia tranchant blastatore, che sia il melenso cuoricinabile), pena l’invisibilità e l’oblio (al vae victis aggiungerei la damnatio memoriae come fenomeno social significativo). Ora, il TINA (there is no alternative) è la summa e la sintesi del realismo capitalista, di cui ci parla Mark Fisher. Se cediamo su questo punto, non possiamo lamentarci di nulla, perché vuol dire che abbiamo accettato come ineluttabili i meccanismi di lavoro-produzione-consumo del capitalismo compiuto. Non possiamo illuderci di ‘cambiare il sistema dall’interno’: gli algoritmi saranno sempre più forti, fintanto che li nutriamo, e ci trasformeremo in troll prima di accorgercene. L’algoritmo è il meta-troll che dobbiamo smettere di nutrire, e questo lo si può fare solo andandocene. La pandemia, in questo senso, ha esasperato la deriva di cui parla l’articolo che stiamo commentando, proprio grazie al fatto che i social sono stati l’unico posto dove interagire quando non ci pareva ci fosse un altrove dove andarcene (in realtà c’era, sebbene online e non offline).