QUANDO DEL BUONO RECENSIVA IT

Estate. Tempo di riletture. Il 3 dicembre 1987 Oreste Del Buono recensisce It di Stephen King.
L’ ultimo Stephen King arrivato in Italia s’ intitola concisamente It, ma consta di 1238 pagine fittissime (Sperling & Kupfer, lire 27.000). Il bestsellerista dell’ horror dichiara di averlo cominciato a scrivere a Bangor nel Maine il 9 settembre 1981, e di averlo finito di scrivere, sempre a Bangor nel Maine, il 28 dicembre 1985. Un impegno simile può significare solo due cose: o gli editori, incapaci di fronteggiare la super-produzione di King, sono riusciti attraverso il suo agente a convincere il narratore con il computer a incanalare la sua straordinaria fecondità in una sola opera, sia pur ponderosa, invece che disperderla in due o tre opere diverse all’ anno; o il maestro degli incubi, degli incantesimi, delle catastrofi ha deciso lui stesso di rinunciare a qualsiasi dispersione per creare il suo più ambizioso romanzo: per superarsi, insomma. Confesso umilmente di tenere da tifoso per la seconda ipotesi. Anche la prima, però, è bella. Con gli anticipi che è in diritto di chiedere, in milioni e milioni di dollari, Stephen King è in grado di far paura anche a chi straguadagna sulla sua pelle. La prima ipotesi, comunque, la prediligo perché mi conferma nell’ idea che da tempo mi son fatto di Stephen King. E’ l’ autore più ambizioso che ci sia in giro. La sua ambizione è addirittura di tipo eroico. Non si sa se i suoi mezzi riusciranno a reggere al crescere del peso della sua ambizione; ma le intenzioni sono in regola. E ci sono anche la tenacia, l’ applicazione, la fede addirittura nella narrazione. Qualcuno più ostentatamente colto di lui potrà desiderare di ricostruire un veliero o Franz Kafka in bottiglia; Stephen King ragiona sempre in grande, progetta di scrivere qualcosa che rassomigli alla Divina Commedia o al Paradiso Perduto o roba del genere. Solo il suo computer conosce fino a che punto si spinge la sua megalomania. Forse ne è al corrente anche il computer di Peter Straub, altro scrittore del genere sottogenere per l’ esattezza dell’ orrore. Stephen King e Peter Straub, infatti, hanno scritto insieme un romanzo di notevole mole, Il Talismano. Insieme per modo di dire, dato che durante la composizione stavano in due diverse località: non si incontravano e non si vedevano. Il contatto era mantenuto quasi esclusivamente dai loro due computer che spesso erano in conferenza, mettendo a confronto i dati più sconcertanti sui due titolari. Stephen King, d’ altra parte, passa la maggior parte della sua vita con il computer. Ha una moglie, Tabitha, che scrive anche lei storie dell’ orrore, e tre figli, Naomi Rachel, Joseph Hillstrom e Owen Philip: una compagnia sufficiente per chi ama la vita casalinga, e detesta viaggiare soprattuto in aeroplano, di cui King ha una paura terribile. Si diverte unicamente a inventare storie.
It è la saga di una Cosa Malvagia che s’ è annidata da tempo immemorabile nel sottosuolo di Derry, una cittadina del Maine che dovrebbe essere un posto come tanti altri della provincia americana, ma non lo è assolutamente. A intervalli di un quarto di secolo vi si verificano, infatti, esplosioni incomprensibili di ferocia più o meno collettiva. Improvvisamente come è esplosa, tuttavia, l’ ondata di violenza si spegne. E i cittadini di Derry sono subito portati a dimenticare, ma dimenticare sul serio: dimenticare tutto, i propri atti, i propri pensieri, i propri sentimenti, i propri rancori, per riprendere la vita sonnacchiosa e irresponsabile di chi imprudentemente si crede a posto con la coscienza. E intanto la Cosa Malvagia continua a tramare, insospettata e indisturbata, sino alla prossima esplosione selvaggia, al prossimo trionfo dell’ odio, alla prossima strage ineluttabile. Quando nel 1985 il bibliotecario negro di Derry, Michael Hanlon, chiama al telefono, nelle varie località degli Stati Uniti dove sono stati portati dal lavoro e dai relativi successi, alcuni amici di giochi d’ infanzia (il commercialista Stanley Uris, affermatosi come infallibile consigliere di ricchi; il disc-jockey Richard Tozier, che irradia irresistibilmente le sue mille voci; l’ architetto Ben Hanscon, celebre al punto di essere di casa in tutto il mondo; il figlio di mamma Eddie Kaspbrak, reverentemente sposato a una donna grassa come la genitrice; la bella Beverly, nata Marsh ma sposata con un terribile Tom Rogan più manesco con lei dello stesso suo padre; il romanziere Bill Denbrough, celebre narratore di incubi all’ ingrosso e al dettaglio). Nessuno degli interpellati ricorda esattamente il proprio passato a Derry. Ma tutti, meno uno, ubbidiscono all’ invito di Michael Hanlon a tornare. L’ uno che manca è Stan Uris, forse quello che ricorda più degli altri cosa sia accaduto, e proprio per questo non se la sente di tornare a Derry. La moglie lo trova immerso, privo di vita, nella vasca da bagno. L’ acqua ha un colore rosa acceso. Sul bordo della vasca c’ è un pacchetto di lamette Gillette Platinum Plus. Stanley ha intinto l’ indice della mano destra nel proprio sangue e ha scritto un’ unica parola di due lettere sulle mattonelle azzurre al di sopra della vasca, due enormi lettere incerte, dalla seconda delle quali serpeggia una traccia di sangue: It. Perché Michael Hanlon ha chiamato a raccolta i sei compagni di giochi a Derry, ricordando loro il patto sottoscritto a suo tempo? E’ possibile che i sette, ridotti ormai a sei dopo la defezione di Stan Uris, abbiano tanti anni prima (nel 1958), combattuto e sconfitto almeno parzialmente It a Derry? E, se e quando ricorderanno come ci riuscirono, saranno in grado di ripetersi, di far lo stesso di allora, anzi meglio, perché bisogna pur togliere di mezzo una volta per tutte It e liberare Derry da un futuro troppo scontato? Agli americani, decisamente, piacciono i libri grandi, tanto per cominciare, per numero di pagine; se poi verrà il resto, meglio. Ma c’ è una bella differenza tra, ad esempio, un romanzo piccolo o grande di James Clavell (Shogun) o di James Albert Michener (Sayonara) e un romanzo di Stephen King (L’ ombra dello scorpione)… In Clavell o in Michener l’ inclinazione per l’ esotico può portare a concepire gli stessi Stati Uniti al passato, al presente, al futuro, come una terra pittoresca di cui descrivere anche le curiosità. Nei loro libri l’ azione è infarcita di zeppe, insomma di brani d’ erudizione e d’ informazione che rallentano la narrazione vera e propria per dar fiato all’ autore, prima ancora che al lettore, e aiutarlo a conservar le forze per i fuochi d’ artificio del finale. In Stephen King, non ci sono zeppe di alcun tipo. Nessuna delle 1238 pagine di It è saltabile. Tutto è solo narrazione; l’ autore cerca di andare più a fondo possibile nell’ interpretazione del paese che gli è stato assegnato in sorte, rendendoci con indiscrezione le paure dei suoi conterranei, a lui simili e da lui dissimili. Così dei suoi argonauti che tornano a Derry per disputare l’ ultima, spaventosa partita con il Male che è It, la Cosa Malvagia, Stephen King ricostruisce maniacalmente ogni pregresso intimo oltre che sociale; e allo stesso modo si comporta con i loro nemici, i sicari e gli invasati da It, e anche con i personaggi secondari chiamati a interpretare qualche straccio di ruolo di contorno. Insomma, aspira a farci conoscere Derry sulle sue molte ombre come nelle sue rare luci. Non dati esterni, ma introspezioni, smascheramenti, rivelazioni. La tradizionale piccola città americana messa a soqquadro, tutte le tombe riaperte, le salme riesumate per un’ autopsia generale; e investigate non solo le salme, sviscerate anche le aure private e le suggestioni indotte dai media. La Cosa Malvagia comunica con le sue presunte vittime come con i suoi presunti complici a colpi di retorica: la retorica della narrazione neogotica, quella che si occupa dei misteri della vita dopo che il cinema ha insegnato a vedere, oltre che a sentire, l’ orrore e mentre la televisione sta cambiando sempre più implacabilmente i nostri rapporti con la fantasia e con la realtà, con i viventi e con i fantasmi, con la morte e con la sopravvivenza. La lettura che Stephen King fa di Mary Shelley e del suo Frankenstein nella meditazione Racconti del Tarocco, è rivelatrice, e parte proprio dalla constatazione che per lo più si ignora che a chiamarsi Frankenstein è il creatore del mostro, non il mostro stesso. Il romanzo di Mary Shelley ha come sottotitolo Il moderno Prometeo, e il Prometeo in questione è Victor Frankenstein, scrive King. Possiamo leggere anche in italiano questa meditazione nella parziale traduzione delle Edizioni Theoria della raccolta di saggi Danse Macabre (164 pagine contro le oltre 400 dell’ originale): Victor abbandona casa e patria per andare a studiare all’ Università di Ingolstadt (ed ecco che già si può sentire il ronzio della mola dell’ autrice mentre si appresta ad affilare una delle asce più famose del genere dell’ orrore: Ci Sono Cose Che Al Genere Umano Non E’ Stato Dato Conoscere)…. In realtà, più che con Mary Shelley, Stephen King si identifica con Victor Frankenstein e lo cita quasi come ispiratore del suo modo di far romanzo. Chi mai potrà immaginare gli orrori del mio lavoro segreto, allorché sprofondavo nell’ umidità sacrilega di una tomba o torturavo gli animali vivi per animare la creta inerte? Al ricordo, le mie membra sono scosse da un tremito e tutto mi vacilla davanti agli occhi… Raccolsi ossa da cripte e profanai con le mie mani i terribili segreti del corpo umano… Attrezzai il mio laboratorio per l’ oscena creazione; gli occhi mi schizzavano dalle orbite mentre ero intento ai particolari del mio lavoro…. Stephen King è un Victor Frankenstein che non ha avuto bisogno, per trovare la sua strada, di abbandonare casa e patria. E non ha neppure bisogno di andare in giro a dissodar cimiteri, gli basta qualche visita in cineteca o l’ acquisto di qualche videocassetta. La Cosa Malvagia, per toccare di più amici e nemici, si trasforma secondo gli schemi e gli stereotipi della loro immaginazione di seconda mano: si finge Licantropo o Clown, Lebbroso o Ragno; rispetta insomma le preferenze di chi si spaventa. E, accettando in tal modo i confini della limitatezza umana, diventa più vulnerabile.

2 pensieri su “QUANDO DEL BUONO RECENSIVA IT

  1. E che dire del patto fatto tra i ragazzi? Quella situazione è di una potenza suggestiva formidabile, peccato che il cinema si sia rivelato puritano in questo senso. Poi c’è il viaggio all’interno di It, verso la Tartaruga, oltre i millenni… King, per me, è It. 🙂 O Bill.
    Ecco, ci è mancata un’Intervista Impossibile: Oreste Del Buono intervista It, sarebbe stata interessante. Con Bene a incarnare It, naturalmente.
    Grazie di tutto Oreste, per Gide e per Flaubert, per Wilde e per Gogol’, per gli altri, i moltissimi altri che ci hai mostrato.

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