QUANDO SI SOFFRE PER IL SUCCESSO ALTRUI: UN ARTICOLO DI BENIAMINO PLACIDO

Ieri sera ho postato su Facebook la foto di un libro, “Cambiare l’acqua ai fiori”, di Valérie Perrin, best-seller incontrastato. L’ho fatto perché intervisterò l’autrice, non a Fahrenheit, poi vi dirò dove e come. Ma l’avrei letto comunque, perché ho sempre nutrito grande curiosità nei confronti dei libri molto venduti e molto amati, a meno che non si tratti di libri di youtubers o altro tipo di operazione, faccenda legittima che mi interessa meno. E’ stato interessante, e lo è ancora, leggere i commenti. A qualcuno è piaciuto, ad altri affatto, qualcun altro ne approfitta per pubblicizzare i libri della sua casa editrice (perché non parlate di me, invece di, vecchio sottotesto noiosissimo). La mia opinione, al momento, poco conta, anche perché sono a metà romanzo. Ma noto, con una punta di divertimento, che il pregiudizio nei confronti dei libri che vendono è sempre altissimo. Non me ne vorrete, allora, se posto qui un articolo di Beniamino Placido che risale al 18 maggio 1985. Anche allora si piangeva la fine del libro di qualità per colpa di un romanzo vendutissimo. Era “Il nome della rosa” di Umberto Eco. Buon week end.
Vorrei raccontare un aneddoto. L’aneddoto della “Venere svizzera”, che mi è tornato in mente di fronte ad un inciso di sei parole, contenuto nell’ articolo di Pietro Citati: “Bestseller: gli ultimi saranno i primi” (“Corriere della sera”, 13 maggio). Non riaprirò la questione generale – quali libri o libracci si vendono oggi, e perché – dal momento che su questa questione è già intervenuto Paolo Mauri (“Tutti venduti”, “la Repubblica”, 15 maggio).
Mi riferirò invece a sei parole soltanto del corsivo di Citati. Le seguenti: “assoluta assenza di ogni talento letterario”. E chi sarà mai questo scrittore che da centosettanta settimane figura nella classifica dei best-seller, malgrado – o forse proprio in virtù – della sua “assoluta assenza di ogni talento letterario”? Avete indovinato, si tratta di Umberto Eco.
Sono personalmente convinto, anche se non posso dimostrarlo, che se “Il nome della rosa” si fosse venduto in mille – o duemila, o tremila – copie, i critici italiani avrebbero detto che si trattava di un brillante ma sfortunato esempio di saggistica-narrativa: meritevole di ben altra fortuna. Ma “Il nome della rosa” si è venduto ahimè in milioni di copie. E quindi non c’ è dubbio. Deve trattarsi di un libro fortunato (troppo fortunato, accidenti!) ma mediocre. Scritto fuori dei canoni della composizione letteraria. Pietro Citati non è il solo a pensare che “Il nome della rosa” sia stato scritto – ripetiamolo ancora – “in assoluta assenza di ogni talento letterario”. E’ il solo o quasi a scriverlo con trascurata eleganza. Gli altri letterati nostrani lo confidano alla moglie, lo borbottano agli amici, lo scribacchiano come possono. E per spiegare questo successo internazionale tirano fuori tutte le “ragioni” del mondo.
Siamo dunque in presenza di una società letteraria che soffre. Che soffre per il successo di uno dei suoi membri. E ad una società che soffre una parola di conforto non la si può negare. Magari porgendola, come facevano i predicatori di una volta, nella forma dell’ aneddoto.
Ma intanto cerchiamo di capire che cosa si intende dire quando si dice – o si pensa o si scrive – che “Il nome della rosa” è stato scritto in absentia di ogni letterario talento. Per quel che ho capito io – ascoltando, discutendo, leggendo fra le righe – si intende dire che la scrittura di questo romanzo è povera, è piatta. Non è inventiva. E può anche essere vero. Però è anche vero che ci sono – ci sono sempre stati, e sempre ci saranno – romanzieri che lavorano sulla scrittura e romanzieri che lavorano sulle situazioni.
Facciamo un esempio: quello di H.G. Wells, il grande scrittore inglese di fantascienza. Apriamo uno dei suoi romanzi più meritatamente famosi: “L’ uomo invisibile”. Voto in scrittura: cinque meno meno. Ma quest’ uomo proprio non sa scrivere! E’ sciatto nell’aggettivazione, è monotono nella scelta dei termini, confonde addirittura “creditable” e “credible” (ciò che i critici inglesi non gli hanno ancora perdonato, a distanza di vent’anni). Ma proviamo a dare un voto adesso alla sua capacità di creare situazioni significative e interessanti. Gli dovremo dare dieci. Se basta. Perché oltre ad aver inventato la storia – avvincente – dell’ Uomo invisibile, Wells ha anche profetato – nel 1897 – che il prossimo secolo, cioè il nostro, sarebbe stato “un secolo di uomini invisibili, che spargeranno il terrore”. Chi cerca una definizione letteraria del terrorismo sempre e soltanto nei “Demoni” di Dostoevskij si dia pace. Una definizione del terrorismo novecentesco – nelle sue motivazioni profonde (mi rendo invisibile per essere potente), nelle sue manifestazioni esplosive – è qui, in questo libriccino popolare, scritto – direbbe Citati – in assoluta assenza di ogni talento letterario. Facciamo allora l’ ipotesi che il successo mondiale de “Il nome della rosa” sia dovuto al fatto che Eco ha saputo inventare delle situazioni significative, anche se le ha proposte in un linguaggio semplice.
Mi rendo conto a questo punto che la società letteraria sta ancora soffrendo. Anche per colpa mia. Non ho ancora raccontato il mio aneddoto. Eccolo. Nel 1954 la nostra Nazionale di calcio si recò in Svizzera per prender parte ai Campionati del mondo. Partì accompagnata da fervide speranze. Ma furono subito botte. E proprio ad opera della disprezzata Nazionale elvetica (che ci batté 2-1 a Losanna e poi di nuovo 4-1 a Basilea, il 23 giugno). I calciatori, i tecnici, i giornalisti italiani non sapevano darsi pace. Tirarono fuori tutte le scuse, tutte le spiegazioni, tutte le giustificazioni possibili. Finché non apparve sul “Mondo” di Pannunzio un articolo (a firma, mi pare, di Mino Guerrini: “La venere svizzera”) che passava scrupolosamente in rassegna tutti gli “alibi” della nazionale italiana. Fino a quello più ridicolo. Un giornalista sportivo aveva scritto che i nostri valorosi giocatori avevano perso perché profondamente turbati dalla quotidiana visione di una formosa fanciulla elvetica che prendeva il sole, in costume, nella piscina del loro albergo.
Commentava “Il Mondo” – un giornale che ha tanto contribuito alla nostra educazione sentimentale e culturale: tutte le scuse abbiamo cercato. Tutte. Nessuno ha pensato che forse abbiamo perso – e sonoramente – non perché le svizzere sono avvenenti ma perché gli svizzeri sono calcisticamente più forti. Forse anche qualche letterato italiano di oggi farebbe bene a sfogliare di tanto in tanto la collezione del “Mondo”, per imparare che quando gli altri vincono, quando scrivono un libro tradotto e letto in tutto il mondo ci possono essere tante ragioni, tutte ignobili. Ma può anche accadere semplicemente perché sono più bravi. Perchè sono – calcisticamente parlando – più forti.

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