QUELLA VECCHIA FACCENDA SUI RADICAL-CHIC

Vagamente turbata dall’articolo di un geopolitico che, commentando Brexit, ripropone il vieto stereotipo del giovinotto che studia perché è ricco versus l’operaio ignorante e disperato, ricevo su Facebook il commento di una poetessa che mi turba ancora di più. Hitler amava la cultura, dice la poetessa, e una persona non si giudica dalla cultura.
Accidenti, ma sicuro. Quello che mi preoccupa, però, è che giorno dopo giorno la cultura come – uso il vecchio termine – “ascensore sociale” è svilita, denigrata, spernacchiata al grido di “dalli ai radical chic”.
Facciamo una cosa, allora. Vi riposto qui parte di un vecchio e lungo e sempre importante post dei Wu Ming. Non è un invito a ragionarci sopra, per carità:  è, semmai, l’invito a essere prudenti con le parole: perché, come dicevano i saggi, non solo sono pietre, ma quando poi le pietre cominciano a piovere, schiacciano.
“Lasciamo perdere le origini del termine «radical-chic», inventato dallo scrittore conservatore Tom Wolfe per irridere gli artisti di sinistra – su tutti Leonard Bernstein – che raccoglievano fondi per le spese processuali delle Pantere Nere. Oggi «intellettuali radical-chic» è l’espressione stereotipata per dire che chiunque svolga un ragionamento complesso non fa parte del «Popolo», fa perdere tempo prezioso al «Popolo», annoia il «Popolo», perché il «Popolo» – per definizione – «non capisce le vostre seghe mentali!» Il sottotesto è che un intellettuale possa solo essere un benestante staccato dal mondo. Che figli di proletari abbiano sviluppato la passione per la cultura e lo spirito critico grazie agli sforzi delle loro famiglie e poi abbiano lavorato per pagarsi gli studi non è uno scenario contemplato, come non è contemplato che un intellettuale possa essere un precario. Questo dopo vent’anni di discorsi sul «cognitariato» fatti anche da pensatori di movimento che oggi votano Grillo. Discorsi che evidentemente hanno lasciato il tempo che avevano trovato, e sono stati messi in soffitta. Questi elementi di complessità non possono essere introdotti, perché incompatibili con la narrazione del Popolo «uno e indivisibile» che rappresenta in blocco la «società onesta» e si oppone ai «politici», alla «casta», ai «ladri» (che evidentemente non fanno parte del Popolo, chissà da dove sbucano!). Perché questa narrazione rimanga in piedi, ogni nemico dev’essere esterno all’immagine di popolo che il movimento diversivo propaganda. Ergo: niente contraddizioni di classe, niente interessi contrapposti, niente scontri dentro il Popolo. Ergo, chiunque esprima una critica minimamente articolata è un «intellettuale radical-chic».”

8 pensieri su “QUELLA VECCHIA FACCENDA SUI RADICAL-CHIC

  1. Credo ci sia un fatto che va preso in esame, Loredana. È vero, come dicono i Wu Ming, che va contemplato anche lo scenario di «figli di proletari [che hanno] sviluppato la passione per la cultura e lo spirito critico grazie agli sforzi delle loro famiglie e poi [hanno] lavorato per pagarsi gli studi». Io stesso sono figlio di contadini: piccoli, semplici coltivatori diretti, con a malapena la licenza elementare, che però con i loro sforzi (mio padre è stato anche minatore in Belgio, per dire) sono riusciti a permettere che mia sorella e io studiassimo, accedendo così a un rango di “colletti bianchi” (io non del tutto, vabbe’, perché in parte continuo a coltivare i campi, accanto all’attività di traduttore).
    E come me, per tanti altri figli di contadini e di operai e di piccoli artigiani e commercianti è stato così almeno per un periodo (gli anni sessanta-settanta-ottanta-novanta?).
    Questo scenario, però, temo che oggi come oggi non regga più tanto; quantomeno, va ridimensionato.
    Chi proviene da una famiglia proletaria o anche del basso ceto medio, per quanti sforzi faccia lui/lei e per quanti ne facciano i genitori, parte – molto più che in un passato recente – fortemente handicappato nel processo verso un’elevazione culturale: si è ridotto il denaro che potevi guadagnare lavorando sodo, facendo lavori anche massacranti ma che in termini di soldi suppergiù ripagavano i tuoi sforzi; di conseguenza, bisogna lavorare sempre più ore (sempre che se ne trovi di lavoro) per compensare il calo di entrate, ma anche per rimediare all’aumento dei costi per l’istruzione (che ci sono, non si può negare. Come non si può negare che, se un tempo già il diploma consentiva un buon passo avanti, oggi non sempre una laurea è garanzia di successo); di conseguenza, restano sempre meno ore libere da dedicare ai libri, per chi volesse pagarsi gli studi lavorando; di conseguenza, è molto più difficile farti oggi una cultura solida se non provieni da una famiglia con un reddito medio-alto e, soprattutto, già acculturata di suo, già addentro ai meccanismi relazionali che favoriscono l’accesso al mondo del lavoro come della stessa cultura.
    L’ascensore sociale, purtroppo, se non si è bloccato del tutto in questo momento non funziona più troppo bene.
    Consiglio di leggersi, per chi può, il saggio “Family” di Marilynne Robinson nella raccolta “The Death of Adam” del 1998 (nel tascabile Picador, alle pagine 87-107): anche se parla di Stati Uniti, centra bene il punto. Giusto un passo, secondo me eloquente:
    “One acquires a culture from within the culture — for all purposes, from the family. And acculturation takes time. I suggest that those groups who feel unvalued are the very groups who are most vulnerable to the effects of the cheapening of labor, least able to control the use of their time.”

  2. Poi, al di là dei radical-chic, ci sono gli ‘gnurant-chic, quelli che sanno tutto sull’argomento per aver letto i titoli dei giornali inglesi (magari senza aver fatto caso che certi titoli in Italia sono arrivati dopo il referendum, ma erano precedenti, e riportavano previsioni di voto attendibili tanto quanto i sondaggi generali). Ad es., che i poveri avrebbero votato Leave e i ricchi Remain. E invece no, c’è povero e povero – a meno di non considerare working class solo il proletario, o sotto proletario, white & british, omettendo i migranti di prima, seconda e terza geenrazione, e ovviamente gli sporchi scozzesi, che votano un partito laburista che però non si chiama Labour Party.
    Resta che se in alcuni quartieri dell’east London (Havering, Barking & Dagenham, Bexley: ma non Tower Hamlets, giusto per sottolineare un’altra generalizzazione), dove già da un anno il voto era passato dal Labour a Farage, ha vinto il Leave, nei peggio quartieri di Londra, quelli che le guide turistiche sconsigliano di visitare, quelli dove nel 2011 ci sono stati i riots, quelli dove vivono i migranti (sia afrocaraibici che turchi e magrebini), quelli della precarizzazione come condizione di vita senza uscita, il Remain ha vinto con percentuali notevoli: Haringey 75.59%, Hackney 78.5%, Brent 59.75%, Southwark 72.8%, Tower Hamlets 67.5%, Lambeth 78.6%.
    Ma i colti geopolitici ci vanno a Tottenham Hale, Finsbury Park, Harlesden, Elephant & Castle, Brixton? Probabilmente no, se devo giudicare da quel che scrivono manco sanno che esistono (al massimo ne hanno sentito parlare in qualche canzone). Ma, appunto, quelli sono negri, arabi o turchi, al limite chavs (=coatti): mica sono bianchi & inglesi, mica sono working class: vedi mai quant’è facile essere un razzista inconsapevole…

  3. Secondo me i radical chic e gli intellettuali non sono la stessa cosa, se non incidentalmente. I primi recitano la parte di coloro che vogliono salvare il mondo senza sporcarsi veramente le mani, limitandosi magari a pagare un paio di adozioni a debita distanza e alla partecipazione ad eventi piu` o meno mondani spesso con una qualche valenza culturale, basta che non siano in contrapposizione con gli orari della palestra, il massaggio shiatzu, la psicoterpia light d`ordinanza (che fa tanto reckless) o l`apericena a base di astice. Gli intellettuali invece cercano di vivere con la propria cultura cercando di non fare troppi compromessi, spesso spendendosi per una societa` meno feroce, e nel profondo della coscienza sperando di guadagnarsi un funerale molto partecipato. Questo a grandi linee. Ci torno

  4. @diamonds
    Yoda diceva: non c’è provare, c’è fare e non fare. Intellettuale è chi ha concetti, idee, interpretazioni, pensieri, ecc. da produrre e proporre, quale che sia il suo stile di vita, marca di abbigliamento, qualità e quantità del cibo che consuma. Chi non ne ha, non lo è, fine della storia. Acclarato questo, si passa alla fase 2, quella del giudizio da dare – compresa la questione del “che fare?” – su concetti, idee, interpretazioni, pensieri.

  5. Certo Girolamo, infatti nella sostanza ai radical chic per come li li ho descritti, basta stare nel giro delle circostanze. Non hanno niente da proporre se non qualche supercazzola(anche in guisa di installazione artistica). Poi e` chiaro invece che gli intellettuali possano avere una provenienza dalla high class, un presente da benestanti e dei vezzi da dandy. Ma di solito qieste sono cose che passano in secondo piano rispetto ai contenuti e alle visioni(sto provando a farmi strada in una giungla)

  6. P.s. la supercazzola, oltre che un termine inflazionato, e` pure un genere molto praticato per come la vedo io.Quello che sto dicendo forse e` proprio che i r.c. non riescono a sfornare niente altro che supercazzole o riproposizione quasi alla lettera di pensieri altrui

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