QUARTO INTERLUDIO: IL CAMMINO DI ADRIANO SOFRI, LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LIDIA MENAPACE

Avete letto le cronache giornalistiche sulla manifestazione di sabato. Ora leggete una testimonianza (di Adriano Sofri, dalla sua pagina Facebook) e stralci da un invito (pregresso, del maggio 2017) di Lidia Menapace. Poi ci pensate su.
Le mura di Macerata di Adriano Sofri
Se sapeste con che bella stanchezza si torna da una manifestazione a Macerata. Abbiamo camminato, a lunghe soste e piccoli passi per non urtarsi in una fiumana che non aveva cordoni e scorreva alla rinfusa. L’Italia si divide in città di pietra e marmo e città di mattoni – e città in cui mattoni e marmo si sfidano dirimpetto, come a Siena. Quelle di mattoni si dividono fra il rosso e il chiaro: Macerata è di mattone chiaro. Abbiamo fatto il giro intero delle mura, non tre volte come nell’Iliade, solo una. Così lenta da diventare una specie di visita a mura, torrioni e porte, che hanno conservato molto della loro struttura, fra ’300 e ’500, costruita “a scarpa”, cioè inclinate dal basso verso l’alto per rendere più ardua la scalata agli invasori. Veniva da studiarle con occhio di invasore le mura e le porte, presidiate da ranghi di polizia e carabinieri: come si fa a conquistare il cuore di una città? Bisogna prima di tutto contare su qualche cittadino traditore o transfuga, che rinneghi le difese intestine: i locali pubblici chiusi per ordinanza dalle 13, niente trasporti urbani, qualche negozio con porte e vetrine protette da tavole inchiodate, e perfino le chiese, chiuse per disposizione vescovile, “compresi il catechismo e le messe vespertine”. Le scuole erano state chiuse per il giorno intero, “ed è la ragione per cui sono qua – mi dice una insegnante delle superiori – benché avessi anch’io un po’ di paura. Noi accompagnamo i ragazzi al nuovo museo dell’emigrazione, qui a Recanati. 700 mila marchigiani che se ne andarono fra ‘800 e ‘900, migranti economici li chiameremmo oggi: e poi chiudiamo le scuole perché c’è un pomeriggio in cui si manifesta contro una caccia all’uomo nero”. Nel corteo una giovane maestra di Treia, comune vicino di 10 mila abitanti, mi ha detto che nella sua scuola d’infanzia i figli di immigrati, operai maghrebini quasi tutti, sono il 35 per cento. Insomma, le quinte colonne maceratesi sono più numerose di quanto facessero ritenere le cronache. Per esempio i membri del Gus, il Gruppo nonviolento di umana solidarietà che avevo incontrato tanto tempo fa in Bosnia e ritrovato in Kurdistan: partecipano proficuamente dei loro progetti il ghanese Wilson e il nigeriano Festus, due delle persone che sono state colpite dalla sparatoria di Traini. Il Gus ha un motto tolto alle ultime parole di Alexander Langer: “Continuiamo in ciò che è giusto”. Maceratese è il centro Sisma, fondato nel 1997 dopo il terremoto, promotore decisivo della manifestazione, con gli altri centri marchigiani. E ci sono le persone singole, come me, cane vecchio e sciolto col privilegio di andarmene su e giù lungo tutto il corteo e fare una scorpacciata di facce fogge e colori. E bandiere: tante e per lo più sconosciute a me. Mi accorgo di una proliferazione che ha trasferito sulle bandiere la voga delle scritte e delle sigle sulle magliette o sui tatuaggi: non mi importa niente di bandiere e sigle, sono altrettanti colori, sventolano, per fortuna non piove, va tutto bene. Anche degli slogan mi importa poco: non è stagione creativa, quanto a slogan, direi. Non vengono nemmeno scanditi tanto. Il principale, “Siamo tutti antifascisti”: l’ho detto, non granché. C’è un sentimento comune, almeno per un giorno, che non si coagula ancora, e forse non lo farà. Non è un caso che i fotografi si siano concentrati sul giovanotto che ha scritto sul suo cartello: Volemose bene.
Poi Macerata è anche “Città di Maria”, perché la Madonna vi apparve, a una donna albanese, per giunta. Dunque studio le mura scarpate e i bastioni e mi chiedo che cosa significhi questo nostro involontario carosello storico, richiamato dal pietoso orribile destino di una ragazza più straniera degli stranieri e dall’impresa di un frastornato forse curabile del suo fascismo e leghismo e razzismo e sessismo, se l’accoglienza offerta all’impresa non l’avesse gonfiato dell’orgoglio dei terroristi. Pensate alle circostanze di questo tempo elettorale: il candidato leghista per la Lombardia (nessun paragone, sia chiaro) si lascia sfuggire un “razza bianca”, poi lo avvertono che l’ha fatta grossa e chiede scusa, è un lapsus (il lapsus sta alle parole come il raptus ai fatti), poi qualcuno dei suoi scopre che nella Costituzione si nomina la razza, sia pure per sancire che non debba mai essere evocata per discriminare, e lui si galvanizza e proclama di non aver mai toccato un tal record di popolarità come grazie alla “razza bianca”. Anche l’energumeno piscofisico fascista di Macerata non avrebbe mai sperato un successo simile, e nemmeno il suo avvocato. Nessun paragone, dico sul serio, se non per il contesto: dire razza bianca è molto brutto e sparare sui neri è ributtante, ma il contesto, quello che i media corrono a misurare – siete favorevoli, contrari o non so – è quello che conta. Il contesto è il fascismo. Dunque torno sui miei passi attorno alle mura, sto domandandomi che cosa pensano quelli di dentro. Girare in migliaia attorno alle mura vuol dire due cose: o cingere d’assedio la città asserragliata o farle attorno un girotondo di corteggiamento. Gli slogan, la musica, i canti servono solo a capire questo. Ora, prima che siate stufi di leggermi, dirò che ho sentito di una canzoncina che augurava le foibe solo al ritorno da Macerata. Eppure, l’ho detto, sono andato su e giù per il corteo e già prima, per ore, mentre si preparava. Ho fatto un buon tratto anche in mezzo al gruppo che le cronache indicano come quello della canzoncina, e finché ero là non ho sentito niente che la evocasse e se l’avessi sentita avrei reagito senza esitazione perché so bene, fin da bambino, che cosa sono le foibe. Quando scrivo, domenica – ho dormito perché si torna con una bella stanchezza da Macerata e perché ho guardato Sanremo e sono stato premiato dal monologo di Favino che sembrava un’appendice della manifestazione – ho interpellato altri che erano là e non ne ho trovato uno che avesse sentito gli slogan sulle foibe. Lo scrivo non perché dubiti che siano stati detti e cantati, dal momento che persone (provvisoriamente, spero) o ignoranti o stupide non mancano, ma perché la loro incidenza sulla manifestazione è stata irrisoria mentre nelle cronache è soverchiante. Qualcun altro ha anche voluto denunciare il disinteresse dei manifestanti verso lo scempio della giovane Pamela: al contrario, nella manifestazione la rivendicazione della libertà delle donne e del corpo delle donne ha avuto una parte cruciale. Dunque, stavamo assediando o corteggiando la città? Un ragazzo ha gridato nel microfono, e non era un appunto preparato, dev’essergli venuto dal cuore: “Aprite le finestre, sentite che aria pulita”. Finestre aperte ce n’erano, sull’altro lato, e del resto dalle mura non ci si affaccia, ma dove si poteva, dai parapetti, c’era tanta gente, e anche una mimosa e una forsythia fiorite. Anche un carabiniere non di quelli in assetto speciale, uno di mezza età, un carabiniere di famiglia, aveva posato il cappello sul parapetto e guardava la gente sfilare con una certa simpatia professionale, mi è parso. Ma la risposta risolutiva alla domanda l’ho trovata, mi illudo, a metà corteo, guardando in su dove il muro si interrompeva e continuava con una rete di fil di ferro a cingere un giardino – ostello Ricci, si chiama – e dietro un prete guardava in giù con un’aria attenta e bruscamente si è tirato indietro ed è scomparso. “Il vescovo”, ha detto una delle signore di Macerata con cui in quel tratto mi ero mescolato. “Si nasconde”. Be’, non voglio abusare dei luoghi comuni ma mi era sembrato che l’uomo nero col collettino bianco guardasse al corteo come certi bambini di buona e rigida famiglia guardano ai loro coetanei che giocano per strada. Oppure, magari perché la rete metallica ricordava una grata, come certe suore di clausura possono guardare le ragazze del coro: un vescovo di clausura. Nazzareno Marconi, di un’infornata 2014 di papa Francesco che ha promosso preti bravissimi compreso qualcuno di mia amicizia carceraria: magari anche questo è bravo. Ha deciso di chiudere le chiese: come gli è venuto in mente? Le chiese, anche per chi non è cristiano, o non lo è più, sono un luogo consacrato al rifugio, e poi quelle storiche hanno almeno due entrate e soprattutto due uscite: in Polonia tanto tempo fa mi veniva dietro la polizia comunista e grazie alla buona dimestichezza infantile entravo nelle chiese e sgattaiolavo fuori dall’altra uscita e li seminavo, anche perché erano comunisti ma grassi e lenti e soprattutto polacchi, dunque perdevano tempo a inginocchiarsi davanti alla Madonna e segnarsi (ero lì per il vescovo Wojtyla, a proposito). Il vescovo Marconi ha detto al suo gregge di chiudersi in casa, pregare perché si sconfigga il flagello, che tale è, della droga, ed esporre un lume acceso sui davanzali. Ho letto il suo commento all’indomani della manifestazione, non si poteva pretendere che abiurasse, ha menato un po’ il can per l’aia, il vangelo insegna a prendersela col peccato e non col peccatore eccetera, ma ha concluso con una frase che merita di essere citata perché è, deliberato o no, un riconoscimento sulla manifestazione: “Perché se a tutti, vescovo compreso, qualche volta saltano i nervi, abbiano almeno diritto alle attenuanti generiche”. Così sia. Qualcosa del genere vorrei poter dire del sindaco di Macerata che deve aver oscillato anche lui fra la tentazione di chiudere tutto – cui ha ceduto – e quella di entrare nel corteo, come il ragazzino che vede i coetanei giocare e lui no: “Col cuore ci sarò”, era arrivato a dire alla vigilia, a un passo dal traguardo. C’erano le sue vicesindache, compagne di Pd. Vorrei dire al sindaco due parole fraterne su un dettaglio trascurato dai manuali di storia. Quando si chiude tutto per paura o per ostilità a un grande raduno bisogna, visto che si amministrano corpi – le anime sono del vescovo e dei lumini – occorre figurarsi l’eventualità che lungo tante ore e in un giorno freddo gli esseri umani (c’erano anche parecchi cani, ma per loro è più facile) dispongano di un gabinetto. Tutti, anche i carabinieri e i poliziotti speciali. All’arrivo a Macerata sono entrato in un ristorante giapponese appena fuori mura e lì coi miei compagni, Sergio Staino e Antonella Bundu, sono stato a riscaldarmi e mangiare e aspettare l’ora. Ho chiesto ai gestori se avrebbero tenuto aperto e loro, con l’aria di giustificarsi, hanno spiegato: “Avevamo già le prenotazioni, dobbiamo rispettarle”. Benedetti: nel tempo in cui eravamo lì parecchie forze dell’ordine, nel loro ingombrante assetto, sono venute a chiedere gentilmente di usare il gabinetto, con la nostra piena solidarietà. In un giorno antirazzista, quando si dice che, Dio o madre natura, siamo tutti uguali, bisognerebbe tenerne conto. Caro sindaco, durante la manifestazione è successo che delle signore siano ricorse ai cespugli di passaggio, discretamente protette. Volevo dirglielo, tanto più per una manifestazione alla fine autorizzata, e anche al ministro Minniti. Al quale però vorrò riservare considerazioni apposite in una prossima circostanza.
Faceva freddo, abbastanza. Una donna giovane ballava tutto il tempo, le ho chiesto: “Balli perché hai freddo?” “Ballo perché sono felice di essere qui”, ha risposto subito, ballando. Bisogna dire anche questo, di una manifestazione che segue una doppia tragedia umana e civile, che era seria, drammatica e insieme fiduciosa e allegra. Era stata seminata paura a piene mani. Nel corteo non c’è stato un momento di tensione. Io, cane già non sciolto e ora spelacchiato, pensavo a che cosa avrebbe significato una provocazione per un tragitto così stretto e senza vie d’uscita e inerme e, tranne un po’ in testa, deliberatamente sparpagliato. Mi sono abituato a luoghi in cui si viene frugati da capo a piedi e il fantasma dell’attentatore suicida incombe: qui è arrivato chiunque, alla rinfusa. C’erano ragazze e ragazzi, soprattutto. Ma anche vecchi, come me che ho fatto tanti incontri grati e scambiato ricordi, ma brevemente, una frase al massimo. Come con Marco Revelli, perché in un giorno e un posto così viene da ricordare Nuto e da immaginarne i pensieri. C’erano tanti dell’Arci, della Cgil, della Fiom e dei Cobas, di Libera, dell’Anpi, di Emergency, dei partiti in lizza – Liberi e uguali, Potere al popolo, i verdi di Insieme, Magi e Più Europa, gente del Pd. Senza i centri sociali la manifestazione non si sarebbe fatta. C’era Lidia Menapace, e mi dispiace di non averla salutata perché ha 93 anni ed è brava da tanto tempo e anche lei mi ricorda Alexander Langer. C’erano uomini giovani africani, venuti da lontano o usciti da giorni di incubo nella città. Liberati. In libertà provvisoria?
Cercare la maglia rotta nella rete, di Lidia Menapace
Buonasera a tutte e a tutti,
sempre tutte e tutti, cioè sempre il linguaggio inclusivo.
E sempre prima tutte e poi tutti, non solo per cortesia che quando c’è si ringrazia e quando non c’è non si può protestare, ma per diritto, perciò si può protestare: perché noi donne siamo di più.
Quindi: contano i numeri, contano i voti. Non so se sapete di quanto siamo di più. All’ultimo censimento, quello del 2011, le donne risultarono essere due milioni e trecentomila circa più degli uomini. Quando lo dico, c’è sempre qualche patriarca gentile che mi dice: adesso vedrai che ci mettiamo subito in riga. Guardate che ci fu un milione di voti di donne più che di uomini al referendum “Monarchia-Repubblica”; quindi non metteteci sempre così tanto tempo insomma… cercate di sveltirvi un po’… perché altrimenti nel 3003 siamo ancora qui che contiamo quanti dovremmo essere.
(…)
Nel C.L.N. si discuteva acerbamente, furiosamente, di continuo, un po’ anche perché dopo venti anni di fascismo – specialmente i giovani (anch’io sono stata giovane un po’ dopo le guerre puniche) – avevamo una gran voglia di discutere; perché prima era vietato, quindi c’era anche questo gusto della discussione che in qualche modo diventava anche aspra. E poi però vi si metteva fine votando tutti e tutte, compreso i monarchici; tutte, compresa Gisella Floreanini Della Porta che fu ministra della Repubblica dell’Ossola, prima che le donne avessero il diritto di voto; a tal punto la Resistenza anticipò cose che poi furono conquistate con le lotte.
Quindi discutevamo moltissimo, poi votavamo, poi facevamo; ma ciò che era rimasto in minoranza non è che per questo venisse messo nel dimenticatoio dello storico o tanto meno nei rifiuti; se capitava l’occasione lo si riprendeva. Quindi era un modo di discutere che non buttava via niente sostanzialmente. Metteva come un po’ in ordine l’esecuzione delle decisioni.
Questa maniera di procedere, a me sembra singolarmente adatta al presente, mentre tutte le forme che sinora abbiamo sperimentato di democrazia nella prima fase della nostra storia repubblicana, non hanno questa caratteristica.
(…)
Come discutiamo tra di noi?
A me piacerebbe molto che mettessimo in mezzo l’idea che facciamo dei patti tra di noi; discutiamo in modo pattizio. Cioè ci mettiamo d’accordo su alcune cose che ci piacciono e decidiamo di farle. Che cosa ha di interessante infatti la parola pattizio? Che non è concorrenziale; vuol dire che ciò di cui ci occupiamo non sono merci. La Costituzione non è una merce, la politica non è una merce. E quindi è bene che venga agìta non mettendo in mezzo la concorrenza, che è una cosa tipica del mercato e riguarda per l’appunto le merci, ma mettendo in mezzo un altro modo di comportamento che è quello di fare dei patti e poi di eseguirli; vedere se si possono eseguire o si correggono. Questo è il secondo aspetto che vorrei ricordare.
E io sono convinta nonostante tutto quello che si dice di male del tempo in cui viviamo – anch’io non mi sottraggo a questo – di vedere che ci sono stati dei rischi terribili che fino ad ora sono stati evitati, ed è possibile perciò avere qualche speranza.
Ma anche in Austria non ha vinto proprio il peggio; e nemmeno in Olanda. E Trump, che è il peggio forse che si possa immaginare, non è che ha tanto la via facile insomma. Ha forti opposizioni e resistenze dentro il suo paese. E io sono dell’opinione che sarebbe bene che le raccogliessimo tutte queste, non per dire: è fatta; non è vero che non c’è più niente da fare. Non è mai vero che non c’è più niente da fare: qualcosa da fare c’è sempre se si è un po’ in coscienza vincolati a cercare di farlo; mettendo anche insieme, cercando di connettere, di collegare. Qui ciascuno adopera il pezzo di cultura che gli appartiene.
Io ho fatto studi storico-letterari, quindi se penso che cos’è il limite mi viene in mente “L’infinito” di Leopardi, naturalmente; che però è un limite romanticamente tenue perché è una siepe di là da quella di interminati spazi…
Ma un poeta italiano più recente invece che dice che il limite è una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia; così dice Montale della vita. E allora cosa faccio? Cerco la maglia rotta nella rete. Perché un disegno così irrazionale come quello del capitalismo in cui viviamo non può non avere maglie rotte. Perché altrimenti non sarebbe più vero niente di quello che appartiene all’essere umano, alla sua ragione, etc.
(…)
Visto che, da tutto quello che ho detto si dovrebbe dedurre, si può dedurre, che io sono dell’opinione che siamo in una fase pre-rivoluzionaria e ne sono convinta di questo. Sarebbe già la seconda volta in meno di un secolo che lasciamo perdere… abbiamo già perso il ’68; ci siamo lasciati portar via il ’68 di cui hanno ancora paura, ma tuttavia l’hanno sconfitto. Non si può lasciar perdere nel corso di una sola vita due occasioni rivoluzionarie; è impossibile.
Se siamo in un momento pre-rivoluzionario è importantissimo che ci domandiamo che tipo di rivoluzione si può immaginare oggi. Certamente non una rivoluzione strutturale come primo passo: se assalti le fabbriche vieni represso con il consenso delle masse, giustamente. Quindi devi fare una rivoluzione culturale non nel senso cinese del termine, ma qualche cosa di simile. Devi incominciare a cambiare la tua testa, il tuo modo di comportarti: il livello della tua coscienza. E questo si può fare.
Per esempio si può incominciare a dire: l’ospitalità è una grande virtù sociale e le forme politiche devono avere anche un aspetto sociale e un linguaggio non accademico, non ex-catedra, perché altrimenti il modello di regnante che viene più apprezzato è papa Francesco. Papa Francesco – averne sicuramente di papi così – ma è molto pericoloso; non solo perché è gesuita (poi lì si va in altre questioni) ma perché, essendo un sovrano assoluto, lui non ha neanche bisogno di voti di fiducia. Veicola l’idea che un uomo solo al comando è il meglio che c’è.
E ricordate che, se a me si dice “un uomo solo al comando”, io invento subito qualche barzelletta o qualche sberleffo anche per papa Francesco… E infatti penso che una delle prime azioni a cui dovremmo pensare, sarebbe quella di far diventare – davvero e finalmente – la Repubblica italiana uno stato laico, abrogando l’articolo 7.
(…)
Vi invito anche ad un tantino di simpatia per un po’ di carnevale; non facciamo sempre e solo cose doverose, cupe; perché se dobbiamo dire “seguiteci che vi conduciamo alla rivoluzione”, sarà anche meglio che non siamo tanto musoni.

2 pensieri su “QUARTO INTERLUDIO: IL CAMMINO DI ADRIANO SOFRI, LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LIDIA MENAPACE

  1. Grazie a Loredana Lipperini per la pubblicazione. Restiamo uniti, restiamo antifascisti anche quando a dividerci sono solo le distanze geografiche.

  2. “Perché se a tutti, vescovo compreso, qualche volta saltano i nervi, abbiano almeno diritto alle attenuanti generiche”. non capisco come mai Sofri non capisce (o non lo vuole sottolineare) che questa frase è stata detta per “scusare” il “peccato” di tentato omicidio di otto persone innocenti… una frase che avrebbe avuto bisogno di una fortissima critica e che invece viene mitigata dal Sofri…

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