RACCONTARE LA BATTAGLIA

Ovvero, di come le parole possano diventare armi e lance, di come Borges scrisse una fanfiction, del significato della foresta, e molto altro: su Carmilla, la lecture di Wu Ming 4. (in fondo, il link al numero di Giap! sul decennale di Q, e molto altro)
Altre battaglie, altre storie, in Material Girls, il primo dei QuaderNI di Nazione Indiana.

99 pensieri su “RACCONTARE LA BATTAGLIA

  1. Iniziare studiare Borges, invece di farne ridicoli “omaggi spiazzanti” o di citarne battute pescate su Google. A me non interessa difendere le prese di posizioni politiche dell’argentino, m’interessa ristabilire un minimo di verità storica. Battute idiote ne ha dette a bizzeffe in vecchiaia, se serve posso anche suggerirvele. Nell’85 ne disse una sui “negri”, anche se Google non la riporta. Ma la sua personalità è molto più sfaccettata di come la presentate. Nel ’34 fu accusato da una rivista di essere “uno sporco ebreo”, cosa che fra l’altro non era, e lui scrisse che lo prendeva come un complimento. Si Schierò contro il nazismo e il fascismo quando in Argentina lo erano quasi tutti, e quando questo avrebbe significato essere dutramente penalizzati nel lavoro, perché fu destituito dal suo incarico e gli fu impedito di scrivere su alcuni giornali. Ma il punto non è questo. Borges fu un intellettuale contraddittorio, nessuno lo nega, con luci e ombre, ma la qualità e lo spessore della sua produzione letteraria ne fanno un capitolo della storia della letteratura del Novecento, così come per Cioran che aderì alla guardia di ferro e Céline che fu antisemita. Ragionare in termini di destra e sinistra in questi casi non significa nulla, a questo alludeva Brodskij dicendo che “l’estetica è la madre dell’etica”. Io trovo molto più “reazionari” i libri di Wu Ming che non quelli di Borges per le ragioni che ho suesposto, e riderendomi proprio alla qualità letteraria. Che poi siano sempre in prima fila nella difesa degli ultimi mi interessa relativamente. A uno scrittore bisogna rimproverare soprattutto di aver scritto un brutto libro, non di aver rilasciato dichiarazioni imbarazzanti. E per me una dichiarazione “imbarazzante” è quella di definire Borges “un fascistone”.

  2. @ Sergio
    comincio a pensare che tu sia un po’ duro di comprendonio (e questo perché mi rifiuto categoricamente di pensare che tu sia in malafede, pazzo, o altro). Nell’intervento che hai linkato qui sopra scrivi:
    “A Borges Wu Ming 4 in sostanza rimprovera una dichiarazione di stima verso Pinochet, quando dalle sue mani ricevette un premio letterario. E “rimprovera” è un verbo troppo soft, in realtà quello è un atto di condanna, ciò che giustifica il suo rifiuto verso questo scrittore e verso ciò che ha scritto.”
    Ma se la premessa del mio discorso era esattamente l’opposto! Quando ho detto (in quella famosa cena) e ho scritto (negli interventi di questa discussione) che la presa di posizione politica di Borges mi rendeva difficile apprezzarlo, aggiungevo che era un limite mio. Ti sembra una giustificazione? E non ho mai detto che non bisogna leggere Borges, mi stai attribuendo posizioni che non ho mai espresso. Ma ragiona: come avrei potuto dire una cosa del genere in ottobre, mentre io stesso stavo leggendo un suo testo, “991 A.D.”, e preparando la conferenza su Maldon, che ho tenuto poche settimane dopo a Milano? Ho detto un’altra cosa: ho detto che facevo fatica a leggerlo per una tara personale di cui mi rammaricavo.
    Il punto è proprio questo: io non giustifico affatto il mio gusto con motivazioni politiche, altrimenti non me ne dispiaccerei, non ammetterei, come ho ammesso dall’inizio di essere in contraddizione. Dopodiché la contraddizione di cui sopra non mi ha impedito né in passato né durante il mio studio sulla Battaglia di Maldon di confrontarmi con l’opera di Borges, tant’è che ci sono i testi e le conferenze pubbliche a dimostrarlo. Questo perché una cosa è un limite irrazionale, un’altra l’onestà intellettuale di uno che cerca di fare bene il proprio mestiere e quel limite ovviamente lo supera. Ci mancherebbe altro. Io non ho mai avuto intenzione di liquidare il Borges scrittore con motivazioni politiche e infatti non l’ho fatto. Ho comparato il suo spin off di Maldon con quello di Tolkien e ho trovato più interessante, più attuale, e più stimolante il secondo. Di questo però nessuno può farmene una colpa. Può confutare la mia lettura, proporne un’altra, se ne ha voglia, e sarebbe solo di stimolo alla discussione. Ma i processi alle intenzioni no, eccheccazzo, per di più distorcendo le cose…
    Comunque tranquillo, non dirò mai più che Borges era un “fascistone” (definizione da te introdotta in questa discussione, tra l’altro, e attribuitami sulla base di un tuo ricordo di una battuta detta a cena. Manco avessi bestemmiato la Madonna davanti al papa…).
    P.S. Il capitolo 5 di MIND INVADERS, il primo libro uscito a firma Luther Blissett nel lontano 1995, si intitolava “Rotta sul pianeta Tlon”. Ti dice niente? Di quel libro fui uno degli autori.

  3. A proposito, Sergio, ma il mio testo su Maldon in apice a questa discussione l’hai letto? Vedi un po’ come commento il brano di Borges e dimmi se ti sembra che io lo disprezzi come autore per motivi politici:
    “Il vecchio Aidan, come Tryggvason, sa che le parole, i racconti, servono a fare cose. Aidan-Borges sa che la narrazione è una prosecuzione della lotta con altri mezzi, e la letteratura un’arte marziale della massima importanza. La letteratura storica, di conseguenza, è un campo di battaglia, speculare alla piana dove si scontrano gli eserciti. In quest’ottica Maldon diventa quasi un luogo simbolico, un paradigma di come lo scontro sul campo si trasforma in scontro di narrazioni, di parole. Le parole diventano frecce, lance, scudi. E perfino leve, argani capaci di scardinare intere visioni del mondo, come vedremo.
    E’ di questo che dovrà tenere conto il giovane Werferth, mentre vede partire gli altri e si accinge a diventare l’autore del poema in questione. Un’immagine da western crepuscolare chiude il frammento di Borges, e già annuncia l’alba della poesia: “Werferth li vide perdersi nella penombra del giorno e del fogliame, ma le sue labbra stavano già modulando un verso.”

  4. “Secondo alcuni, i cronisti fecero un collage di frasi sue e di Ernesto Sabato, che era con lui. ”
    Scusate l’off topic, ma per evitare equivoci, ovviamente Ernesto Sabato è stato un oppositore della giunta militare argentina.

  5. @ Saint Just
    Gli scrittori che quel giorno andarono a pranzo con Videla furono: Ernesto Sabato, Jorge Luis Borges, Leonardo Castellani e Horacio Esteban Ratti, presidente della società degli scrittori (SADE).
    Ecco la foto: Borges, Sabato e Videla, sorridenti e rilassati:
    http://www.24demarzo.gov.ar/imagenes/19-05-76_i.jpg
    Subito dopo l’incontro, Sabato dichiarò:
    El general Videla me dio una excelente impresión. Se trata de un hombre culto, modesto e inteligente. Me impresiono la amplitud de criterio y la cultura del presidente.
    Più tardi, negli anni di Alfonsin, Sabato fu presidente della CONADEP, la commissione di inchiesta sui Desaparecidos. Io però parlavo del periodo 1976-80. All’inizio anche lui prese l’abbaglio, e che abbaglio! Nel 1978 scrisse su Geo, una rivista tedesca:
    Sin duda alguna, en los últimos meses, muchas cosas han mejorado en nuestro país: las bandas terroristas han sido puestas en gran parte bajo control.
    Il fatto che uno sia un Grande Scrittore non significa che non commetta sbagli, anche tragici, e non basta a emendare quegli sbagli. E’ questo che i Garufi, col loro assurdo culto dell’Autore, non capiranno mai. Sabato poi cambiò idea, e si impegnò in tutt’altro senso.
    .
    Dopodiché, per evitare figurazze basterebbe leggere i nostri testi per trovarci un confronto critico, non pregiudiziale e spesso fecondo con autori conservatori o di destra. Per dire, Garufi ha fatto fuoco e fiamme contro il memorandum sul NIE, che inizia e finisce con Eliot, un ultra-reazionario. Bah.

  6. @ Paolo S
    “nazista sui generis” forse non è filologicamente correttissimo, ma serve a dire che Junger nei confronti del nazismo rimase a lungo ambivalente. Ne fu un precursore teorico e pratico, contribuì a creare il frame concettuale in cui il nazismo potà crescere e affermarsi, descrisse gli ebrei come una minaccia per l’unità tedesca etc. Dopo il 1933 ebbe screzi col regime (che comunque lo corteggiò a lungo) e si fece molto i fatti suoi (più per questioni di stile che di vero dissenso, mi sa). Dalla fine degli anni Trenta nelle sue opere si possono trovare cri(p)tiche a Hitler, comunque partecipò alla guerra, prese parte all’invasione della Francia come ufficiale della Wehrmacht. Molto appropriata sua comparsata ne Le benevole di Littell. Poi, nel 1944, prese parte – con un ruolo defilato – al complotto Von Stauffemberg per uccidere Hitler, e il resto è storia del suo progressivo – benché lento – “sdoganamento”.
    Dopodiché, io ho letto quasi tutti i suoi libri, e alcune cose mi sono state molto utili.

  7. Sulla polemica Garufi-Wu Ming 4, due parole al volo su ciò che percepisco a distanza: mentre il discorso di WM4 mi pare sensato e intellettualmente onesto, Garufi ha tutta l’aria di arrampicarsi sugli specchi per aver modo di schiumare il suo livore e attorcigliare le sue budella contro il povero WM4, il quale invece – proprio come chi scrive – sembra imbarazzarsi al posto di Garufi medesimo per la debolezza, l’ingenuità e (lasciatemelo dire) l’ambiguità della sua polemica. Mah…

  8. Wu Ming, a fare il contropelo (che è un po’ quello che stiamo facendo tuti qui, ma con simpatia, spero) io direi che non è storicamente corretto definirle EJ un nazista, così come non è (a meno di non generalizzare il concetto di nazista) corretto considerare il nazismo l’esito unico del militarismo germanico (ne è stato il peggiore!).
    Per i nazisti Jünger era un mito ingombrante, niente tessera del partito, nessuna carica ufficiale per quanto ricordo — insomma un bel po’ “meno” nazista di Carl Schmitt. Antisemita, questo sì. Reazionario, pure. Ufficiale della Wehrmacht anche: compromesso con il regime di Hitler direi di no… magari per le ragioni sbagliate!
    Al di là di questo, non è il pedigree ideologico il punto, è l’inaggirabilità di questo scomodo personaggio “larger than life” in un discorso sull’eroismo. Sebbene non tutte le sue (18 mi pare) decorazioni ricevute nella Prima guerra mondiale derivino da azioni eroiche e seppure bisogna fare la tara al gran finale di Nelle tempeste d’acciaio, il ragazzo all’epoca vuole essere un eroe, e ci riesce. Non perché sia tedesco o nazionalista, ma perché in qualche misura è posseduto da un daimon eroico, che poi lo abbandonerà — per dirla con Hillman. La cosa era più comune di quanto si pensi, all’epoca, era nello Zeitgeist, disgraziatamente; non vi rimase troppo a lungo. La cosa singolare, con Jünger, è il demone letterario che eccita lo spirito eroico… anche qui, sono curioso di sapere cosa ne pensate, l’angolazione da cui vederlo per me è un po’ questa.

  9. Ok, mi pare accettabile. Antisemita, militarista, reazionario, ufficiale della Wehrmacht. Non nazista in senso stretto, non seguace hitleriano, non membro della NSDAP. Tuttavia, esponente tipico di quell’Ur-fascismo definito in modo brillante da Eco nel ’96:
    http://www.anpi.it/voghera/conoscere/eco.pdf
    “Nazista” lo intendevo in quel senso, un senso lato, ma hai fatto bene a precisare.
    .
    Ti dico come la vedo: ad un certo punto, la figura di riferimento di Jünger cambia, slitta dall’Eroe al Ribelle. Noi ai tempi di LB partimmo – e terminammo – con questo mitologema, quello del “Waldgang”, l’andata al bosco, il darsi alla macchia. Non che Jünger sia stato l’unico a parlarne, anzi, c’è una pletora di studi, ma lui lo ha fatto in modo cristallino, icastico, intrigante. Quel pamphlet ci colpì, perché era la voce di uno che in gioventù aveva rischiato la vita molte volte, offrendola a un apparato di stato. E in Der Arbeiter aveva precisato i contorni dell’apparato ideale a cui andava consegnata la vita del singolo. A un certo punto – dopo quel che era successo, la guerra etc. – non solo rifiuta quel destino, esortava a rifiutarlo, dà un’indicazione opposta, dall’apparato di stato passa alla macchina da guerra nomade, alla guerriglia (prima di tutto esistenziale, spirituale).
    Ecco un’istantanea di come il Luther Blissett Project citava Jünger nel 1995:
    http://www.lutherblissett.net/archive/215-09_it.html

  10. “Borges era un fascistone e questo – per un limite personale di cui mi dolgo – mi rende difficoltoso apprezzarlo fino in fondo” (WM4, 11/3 h18.13)
    “Comunque tranquillo, non dirò mai più che Borges era un “fascistone” (definizione da te introdotta in questa discussione, tra l’altro, e attribuitami sulla base di un tuo ricordo di una battuta detta a cena)”
    (WM4, 12/3 h16.40)
    Io te l’avrò attribuita ma tu l’hai prontamente confermata. Cmq chiudo qui, quello che volevo dire l’ho detto.

  11. Eh eh… ok, “urfascista” o “ideologo della rivoluzione restauratrice” mi sta bene, per definirlo. Per me non è una questione di lana caprina separare il “guerriero” dal “nazista”, soprattutto perché trovo delle “ragioni” o “giustificazioni” antropologiche nel primo che nego al secondo. E vi è una certa differenza tra il sovrapporre questi piani e il confonderli.
    C’è un bellissimo sogno nell’autobiografia di Carl Gustav Jung in cui lui uccide Sigfrido, che egli interpreta come la necessità di uccidere l’eroe [germanico] per proseguire oltre nella propria ricerca del sé: ecco, in quel passaggio si respira l’aria greve del tempo ed è con un atto estremo (e “vigliacco”, Jung non uccide Sigfrido in duello — un altro filo che attende di essere riannodato qui intorno) e irreparabile che si può riconquistare la libertà. Grazie per il confronto!

  12. @garufi
    “A uno scrittore bisogna rimproverare soprattutto di aver scritto un brutto libro, non di aver rilasciato dichiarazioni imbarazzanti”.
    No, no e no. Uno scrittore non gode di nessuna “immunità speciale”, né ha diritto al “politicamente corretto”: diamo cioè alle “dichiarazioni imbarazzanti” la qualifica che spetta loro, e diciamole pure vergognose. Il fatto che tu scriva libri non ti eleva al di sopra della responsabilità delle tue affermazioni in altri ambiti, anzi! Proprio in quanto intellettuale, ovvero in posizione tale da potere fare giungere la tua voce più lontano di un qualsiasi comune cittadino, il peso delle tue parole non è lieve. E proprio perché godi di una notorietà ben guadagnata con le tue belle opere letterarie, hai anche particolari e corrispettive responsabilità, perché appunto la tua voce ha maggiore risonanza, autorevolezza e possibilità di giungere a un pubblico vasto di persone.
    Lo scrittore ha precise responsabilità morali, e non c’è estetica che lo esenti da esse o lo giustifichi.
    Ovvio che le opere da lui scritte sono la prima cosa di cui occuparsi, ma nel momento in cui egli si mette a rilasciare dichiarazioni di stima verso un criminale o a dargli la sua benedizione, egli per primo mi autorizza a richiamarlo con forza alle sue responsabilità, quelle che ha proprio come intellettuale. E da cui nulla e nessuno lo esime.
    Detto ciò, rimarrà per me sempre molto arduo conciliare altezza di intelletto e bassezze del genere di cui sopra. Sarà un limite mio. In altri termini, per esempio, rimarrà per me sempre “un mistero” un Heidegger, quando dall’altra parte c’era un Brecht o un Thomas Mann.
    Diciamo che l’opera artistica rimane sì grande, se è tale, ma non possiede quel “valore aggiunto” che le deriverebbe dall’essere stata scritta da chi, oltre che nella pagina scritta, s’è dimostrato “un grande” anche nella vita.

  13. @ Ekerot
    io ti devo ancora una risposta, anche se ormai il tuo ultimo intervento è rimasto parecchio indietro. Proverò a rimediare fuori tempo massimo e per evitare a tutti lo sbattimento di risalire la catena di commenti e di scavalcare il grande sacco pieno di pive che Garufi ha dimenticato qui, ecco il virgolettato:
    “Sulla seconda parte del discorso ho invece alcune perplessità. Se non capisco male, la domanda è: perché non riappropriarsi della capacità del mito di essere sia collettivo sia – in qualche modo – pedagogico?
    Qui vedo il problema. Non che lo trovi un obiettivo errato.
    Ma il poeta della battaglia di Maldon – di fatto – ricopriva un ruolo ben preciso nella comunità. Veniva ascoltato proprio per questo. Era il cantastorie. E quando narrava, la comunità non solo ascoltava ma si riconosceva nella comunità della storia. Quel popolo, quei contadini, quei cavalieri, quel conte erano perfettamente riconoscibili.
    Oggi, mi chiedo, di fronte a quale collettività canta il narratore? E’ innegabile che esista questa collettività, ma ha subito tali stratificazioni che probabilmente – anzi direi quasi sicuramente – non si riconosce più come parte fondante di quel mito.
    Non è un caso che nel secolo addietro e nel nostro c’è stato tutto un fiorire di “loner”, di vecchi lupi solitari, in fuga (spesso verso la morte). Uno trai più begli esempi – a mio sentire – di eroe del ‘900 è Ethan Edwards, il “cercatore” di “Sentieri Selvaggi”. Lui è un personaggio in cui mi identifico, un eroe – senz’altro – eppure, come diceva John Ford, resta fuori dalla porta. Dalla famiglia che ha aiutato a costruire. Il punto è: io spettatore, al termine del film, dove sento di essere? In quella casa, o nella sconfinata Death Valley solo come un cane?”
    Ecco ti voglio rispondere con una citazione da un celebre libro, forse un po’ datato, ma sempre interessante:
    “Il problema odierno del genere umano è quindi precisamente l’opposto di quello degli uomini nei periodi relativamente stabili delle grandi mitologie coordinate che oggi sono considerate bugiarde. Allora ogni significato stava nel gruppo, nelle grandi forme anonime, e per nulla nell’individuo; oggi nel gruppo non v’è significato alcuno – nessun significato nel mondo: tutto è nell’individuo. […] L’impresa che l’eroe deve compiere oggi non è più quella del secolo di Galileo. Dove allora v’era tenebra, oggi vi è luce, dove era luce, oggi è tenebra. L’eroe moderno deve cercare di riportare alla luce l’Atlantide perduta dell’anima coordinata.
    Ovviamente quest’impresa non può essere compiuta voltandosi indietro o volgendo le spalle a ciò che è stato raggiunto dalla rivoluzione moderna; poiché il problema non è altro che quello di dare un significato spirituale al mondo intero – o meglio (enunciando in modo diverso lo stesso principio) quello di permettere agli uomini e alle donne di raggiungere la completa maturità umana attraverso le condizioni della vita moderna. In verità, tali condizioni sono le stesse che hanno reso inefficaci, ingannatrici ed anche dannose, le antiche formule. Oggi la comunità è il pianeta, non la nazione; perciò le formule di aggressione dislocata che un tempo servivano a coordinare il gruppo oggi possono soltanto dividerlo in frazioni. L’idea nazionale, con la bandiera come emblema, è oggi qualcosa che ingrandisce l’ego dell’infanzia, non l’annientatore di una situazione infantile. Le rituali parodie delle parate militari servono ai fini di Holdfast, il dragone tiranno, non a quelli del Dio nel quale si annulla ogni interesse per se stessi. Ed i numerosi santi di questo anticulto – cioè i patrioti le cui fotografie, incorniciate dalle bandiere, servono da icone ufficiali – sono precisamente i locali guardiani della soglia (il nostro demonio dai capelli viscosi), e superarli costituisce il primo problema dell’eroe.
    Le grandi religioni del mondo, come sono attualmente intese, non rispondono al bisogno. Esse infatti si sono associate alle cause delle fazioni, come strumenti di propaganda e di auto-compiacimento. […]”
    e ancora:
    “La discesa delle scienze occidentali dal cielo alla terra (dall’astronomia del XVII secolo alla biologia del XIX secolo) e la loro concentrazione odierna sull’uomo (l’antropologia e la psicologia del XX secolo), segnano il cammino di un prodogioso spostamento del punto focale della meraviglia umana. Non il mondo animale, né quello vegetale, e neppure il miracolo delle sfere, ma l’uomo stesso è ora il mistero cruciale. L’uomo è quella presenza estranea con la quale le forze dell’egoismo devono venire a patti, per mezzo della quale l’io deve essere crocifisso e resuscitato, e ad immagine della quale la società deve essere riformata. L’uomo, inteso tuttavia non come “Io”, ma come “Tu”: perché gli ideali e le istituzioni temporali di nessuna tribù, razza, continente, classe sociale, e secolo, possono costituire la misura di quella meravigliosa esistenza divina, inesauribile, che è la vita in tutti noi.
    L’eroe moderno, l’individuo moderno che osa obbedire al richiamo e cerca la dimora di quella presenza con la quale è nostro destino riconciliarci, non può, e invero non deve, aspettare che la sua comunità si liberi dall’orgoglio, dalla paura, dall’avarizia razionalizzata, e dall’incomprensione santificata. Dice Nietzsche: “Vivi, come se il giorno fosse giunto”. Non è la società che deve guidare e salvare l’eroe, ma precisamente il contrario. E così ognuno di noi partecipa alla prova suprema – porta la croce del redentore – non nei momenti gloriosi delle grandi vittorie della sua tribù, ma nei silenzi della sua disperazione.”
    Le citazioni sono tratte da Joseph Campbell,* L’Eroe dai Mille Volti*, 1949.
    A presto.

  14. Grazie! Mi è servita molto la spiegazione per Ekerot e quella sul lavoro filologico di Tolkien sulla parola ‘ofermod’: una teoria plausibile, motivata (e ormai accettata), che riesce a cambiare l’intera interpretazione del tema centrale di un poema, con un meccanismo semplicissimo e immediatamente comprensibile: modificando il significato di una sola parola. Eppure lo spostamento è notevole! Quando si prosegue un racconto possiamo scegliere di andare avanti in maniera lineare scegliendo un finale diverso ma pur sempre legato in qualche modo logicamente alla premessa, oppure dobbiamo capire dove porta ciò che ha fatto Tolkien, e pur ripetendo il modello eroico della sfida, del combattimento, possiamo cambiare il finale perchè si è evoluta la motivazione. Il compito pedagogico del mito è già inscritto in questa sua evoluzione. L’eroismo era (o è) un atto immediato, che non segue una logica comune, è l’energia del fulmine che si scarica e si esaurisce, non è una condizione perenne. Ma tutti gli elementi personali straordinari, ‘stamina’, che hanno nutrito l’eroismo rimangono, solo che obbediscono ad un’altra motivazione. Le conseguenze sono completamente diverse, cambiano le modalità, ma la sfida rimane. Se siamo in questa fase come gruppo umano, allora Tolkien l’aveva già capito. Così come Lawrence ha fatto più o meno l’unica cosa che poteva fare dopo il relativamente breve exploit della rivolta araba, creando pure, suo malgrado, un vuoto di significato che molti biografi hanno riempito diminuendo oppure esaltando il valore del suo periodo nella RAF. Anche nel suo personaggio forse c’è una ‘parola magica’, una chiave che cambia per noi il significato della sua vita. Lo cambia per poterlo riutilizzare, non lo annulla.

  15. @ Paola (pdg)
    “Anche nel suo personaggio forse c’è una ‘parola magica’, una chiave che cambia per noi il significato della sua vita. Lo cambia per poterlo riutilizzare, non lo annulla.”
    Questa intuizione me la tengo da parte, perché è davvero preziosa. Mi piacerebbe molto trovarla quella parola magica che trasforma Lawrence, la sua vita, in qualcosa di diverso, che segna il passaggio dal mito eroico a una versione post-eroica che si ridefinisce sotto una nuova luce. E’ precisamente quello di cui mi sto occupando. Devo leggere (e rileggere) ancora molto, però…

  16. Ecco, io sul periodo nella RAF di T.E.L. in pratica, a parte il cambio di nome, non so quasi nulla. Mi rendo conto di conoscere solo il Lawrence arabo.

  17. interessante l’articolo di WM4 e davvero molto bella questa discussione. Quello che compie Tolkien in questo caso è davvero uno spostamento del baricentro, del fulcro della storia.
    E il risvolto di questa discussione (ma penso che sia implicito) riguarda non solo la figura dell’eroe, ma la percezione che la comunità ha di lui. Stella del Mattino secondo me è anche una riflessione su come ci si può relazionare alla figura dell’eroe: c’è Graves, che la abbraccia fin quasi a perdercisi; Lewis, che tenta analiticamente di distruggerla; Tolkien (forse davvero la posizione più interessante) che si accosta al suo fianco- se capite cosa intendo.
    Mi sembra che la riappropriazione dell’eroe da parte della comunità sia l’elemento mancante per poter andare oltre Campbell, che ripropone una contrapposizione implicita eroe/società (“Non è la società che deve guidare e salvare l’eroe, ma precisamente il contrario”).
    Comunque gran bel lavoro. Complimenti.

  18. @ Paolo S
    Non tutti i guerrieri sono uguali, però. L’ideale di “guerriero” dell’urfascismo, ad esempio, è incompatibile con quello delle culture nativo-americane. C’è un modo di non sottrarsi alla guerra, di fare la guerra, senza feticizzarla. C’è, ad esempio, una guerra come quella di T.E. Lawrence, che sfrutta il vuoto anziché il tutto-pieno, e rifugge/aggira lo scontro anziché cercarlo. Il guerriero della “totale mobilmachung” auspicata da Jünger è lo stesso del futurismo che grida “la guerra è la sola igiene del mondo”, e diverrà la pietra angolare, la figura esemplare della propaganda nazifascista. E’ il tipo di guerriero il cui immaginario viene analizzato da Theweleit in “Fantasie virili”. Alfine, i prodotti umani massificati della “fabbrica di guerrieri” fascista si ritrovano a Stalingrado, e fortunatamente vengono spazzati via senza alcuna misericordia.

  19. @WM4: eh, eh :-))
    ho letto da qualche parte un riferimento al poema di Maldon in relazione all’episodio del ponte di Khazad-Dum nel libro di Tolkien La compagnia dell’anello, laddove lo scenario è simile (una striscia di terra che separa i due contendenti) ma l’azione eroica (di Gandalf) è rideclinata in maniera completamente diversa, per le motivazioni, per le conseguenze, per le responsabilità dell’eroe. A te dice qualcosa? Io di Tolkien so veramente poco e rischio di non avere discernimento.
    Per Anna Luisa: certo, le biografie di Lawrence in circolazione aiutano a capire come era cambiato dopo la rivolta araba e cosa altro ha fatto, ma forse può servire anche leggere l’altro suo libro ‘Lo stampo’ (The Mint), io ho letto quello pubblicato in italiano da Adelphi.
    Certo Lawrence è sempre lo stesso, con le stesse caratteristiche che hanno nutrito l’eroe guerriero e il post eroe, è intrigante trovare la chiave del cambiamento!
    Manca qualcosa ma sono di corsa!
    Ciao, Paola

  20. @Wu Ming 4:
    Innanzitutto volevo dirti che ho il tuo articolo con grande piacere, e che mi sembra che ci sia molta coerenza fra le conclusioni di questo e le riflessioni contenute in “Da Camelot a Damasco”.
    “In sostanza Tolkien suggerisce che l’anonimo poeta della Battaglia di Maldon abbia voluto stigmatizzare il gesto di Byrhtnoth, che è stato causa di rovina per tutti i suoi guerrieri e per il Paese”.
    L’idea di Tolkien è coerente con la teoria della dismisura (anglonormanno: desmesure > inglese: desmesure, che forse equivale letteralmente al sassone ofermode, visto che ofer > over e mode > mesure, letteralmente “sopra, aldilà del/la misura) che sottende alla vicenda della Chanson de Roland, in cui l’orgoglio (traduzione italiana letterale di desmesure) di Roland è la causa della disfatta della retroguardia carolingia.
    Memore della discussione in calce all’articolo da Camelot a Damasco, mi chiedevo se il discorso sull’intelligenza dell’eroe, che sa riparare nella foresta al momento adeguato (con tutto il bagaglio interpretativo che questo gesto implica, e che hai ben riassunto nel tuo articolo), non sia piuttosto un percorso a ritroso che in avanti rispetto ad un’idea medievale di eroe. Per esempio, nel testo epico primigenio Bhagadav Gita il senso profondamente etico della narrazione passa per l’operazione che compie Arjuna cioè il superamento della la paura tramite l’accettazione del suo dharma (vocazione, talento). Il recupero dell’etica tramite una narrazione di tipo epico è ciò a cui tendono i romanzi NIE, specie SDM. Mi chiedo quindi se quando dici che ti piacerebbe molto trovare la parola magica che trasforma Lawrence da mito eroico ad una versione post-eroica che si ridefinisce sotto una nuova luce, non sia la parola come operazione anamnestica di cui lo scopo è esattamente il recupero della vocazione primigenia. Probabilmente stravolgo il senso delle tue parole, ma mi sembrava che il senso della tua riflessione andasse in quella direzione.

  21. @Anna Luisa: ovviamente c’è un sacco di materiale, in inglese soprattutto, e un’altra fonte per capire da soli senza intermediari sono le lettere di TEL, parecchie raccolte in un volume pubblicato appunto in Inghilterra. nelle grandi città le librerie inglesi possono procurare qualcosa, ma serve per forza una conoscenza della lingua (o la voglia di conoscerla meglio!).

  22. “ma serve per forza una conoscenza della lingua o la voglia di conoscerla meglio!”
    La seconda che hai detto ;-))
    Un peccato per esempio, almeno per quello che so, che non ci sia una buona biografia in italiano.
    Mentre per ciò che riguarda le lettere so che di traduzioni ne esistono.
    Comunque, grazie!

  23. @Anna Luisa: guarda che con la seconda ottieni subito la prima! 🙂
    No, le sue lettere tradotte in italiano no. I libri di autori italiani vertono essenzialmente sul periodo arabo. E’ stata tradotta una biografia di T.Knightley e C.Simpson di parecchio tempo fa (Le vite segrete di Ld’A), cmq non c’è molto in giro.

  24. @ Blepiro
    Campbell dava per assodata la divisione eroe/società perché constatava la dissoluzione delle società organicistico-sacrali a favore di un modello scientifico-individualista, certo. La sua conclusione dunque era che si dovesse ripartire dal singolo, dall’essere umano, ma sempre come modello d’umanità, come uomo sociale (l’uomo inteso non come “Io”, ma come “Tu”). La sua conclusione è molto generale e filosofica. Probabilmente troppo. Tuttavia prendiamo in considerazone l’ipotesi di non approdare a una ridefinizione netta dell’eroe. Io sarei già contento di analizzare casi esemplari che possano suggerire alternative plausibili. In questo senso la mia riflessione su Lawrence necessita e merita una seconda analisi, perché penso che la sua vicenda sia ancora più ricca di spunti.
    .
    @ Claudia Boscolo
    Già sul blog di SDM avevi ricordato la “desmesure” e il ciclo carolingio e avevo trovato la cosa molto interessante. Nel percorso a ritroso io sono arrivato a Maldon, ma è chiaro che non è sufficiente. Rispetto però alla funzione di anamnesi della parola e alla funzione primigenia a cui fai riferimento avrei bisogno che tu approfondissi meglio quello che intendi (non necessariamente in queste sede), perché non mi è chiaro. Come del resto avrei bisogno di definire meglio la “direzione” in cui sto andando, perché non ho ancora le idee chiare su questo punto. Diciamo che ho un presentimento, sul quale però sto lavorando e non voglio ancora parlarne.
    .
    @ Paola (pdg)
    Non ho letto il pezzo che citi in cui si accostano Maldon e l’episodio del ponte nelle miniere di Moria (o Khazad-dûm, che dir si voglia). Però credo sia un collegamento plausibilissimo, tanto più che la lezione su Maldon è coeva alla stesura del Signore degli Anelli.
    Si tratta di uno degli episodi più noti del romanzo, nonché uno dei più complessi e stratificati. Lo stregone Gandalf affronta da solo il Balrog, piazzandosi in mezzo a un sottile ponte di roccia, sospeso sul vuoto. In questo caso l’eroe prende su di sé la responsabilità di allontanare i compagni che hanno già attraversato e rischia da solo la vita per impedire a un nemico superiore di passare: una scelta ben diversa da quella di Byrhtnoth. Gandalf, capo della Compagnia, mette avanti a tutto l’interesse del gruppo e il successo della missione collettiva.
    La cosa interessante è che anche qui abbiamo a che fare con uno scontro di parole. Non è un “litegian” perché il Balrog è un demone, schiavo dell’Ombra, che non parla, vuole soltanto distruggere. Tuttavia Gandalf si rivolge a lui con enunciati performativi. Enunciati in cui comunica al nemico che non ha alcuna possibilità di passare. Lo fa con una frase dal significato oscuro, o quanto meno ambivalente: “Io sono un servitore del Fuoco Segreto, e reggo la fiamma di Anor. Non puoi passare. A nulla ti servirà il fuoco oscuro, fiamma di Udûn. Torna nell’Ombra! Non puoi passare.”
    Ora, queste parole possono essere parafrasate in due modi:
    1) “Io sono una potenza angelica inviata dall’unico Ente supremo, e porto con me la sua Luce. Tu sei un servo di Sauron [il riferimento diretto è a Melkor, di cui Sauron è stato vassallo, ma si tratta di una sineddoche] e contro di me non hai speranze.”
    2) “Io sono il portatore dell’Anello di Fuoco [uno dei tre anelli coniati dagli elfi sui quali l’Unico Anello non ha potere] e la forza oscura che ti muove non può nulla contro di me.
    L’enunciato “Tu non puoi passare!” viene ripetuto ben quattro volte, come in una liturgia. Dopodiché il duello si limita a un solo colpo: le spade si incrociano e quella del Balrog va in frantumi. Quando il mostro cerca di avanzare per la seconda volta, Gandalf colpisce il ponte con il suo bastone (dove verosimilmente è celato l’Anello di Fuoco) e lo fa crollare sotto i piedi del Balrog. Tuttavia il demone, mentre cade, riesce a schioccare la frusta e ad arpionare la caviglia di Gandalf, trascinandolo giù con sé. Il loro duello continuerà altrove, negli abissi della terra e sulle montagne, celato alla vista del lettore.
    Quello di Gandalf è quindi il sacrificio del capo per salvare gli altri. Tuttavia non è un martirio cercato, poiché lo scontro non è senza speranza, ma al contrario è una vittoria preannunciata: le Tenebre non possono vincere contro la Luce. Quello che non possiamo sapere è a che prezzo avverrà tale vittoria. E qui c’è già tutta la filosofia sottesa al romanzo, che riunisce senso del Fato “classico” e Provvidenza “cristiana”. Infatti qualcosa va storto, il duello dovrà proseguire, per trasformarsi nella più importante e sconvolgente prova per Gandalf. Un rito di trapasso e rinascita che gli consentirà di tornare al fianco dei suoi compagni ancora più potente di prima.
    Tutto questo ha evidentemente a che fare con uno dei temi centrali del romanzo: il coraggio. E appunto anche con il tentativo tolkieniano di ridefinire l’eroismo, compiendo uno scarto rispetto alla teoria “nordica” (che pure è presente, ma non dominante, checché ne blaterino i fascisti vecchi e nuovi). Stop. L’ho fatta molto lunga, scusa, ma tu lo sai che è tutta colpa dell’Ashmolean Museum, vero? 😉
    @ Anna Luisa
    Il libro di Knightley e Simpson io ce l’ho. Diciamo che in italiano è forse la cosa più aggiornata che puoi trovare (è del 1970!!!), ma ha ancora dei passaggi alquanto romanzati. Infatti io me ne sono servito per Stella del Mattino.

  25. Son stato via il weekend ma vedo che la discussione è rimasta fervida e assolutamente stimolante!
    Leggo di Khazad-dûm, di Gandalf, di Lawrence e di Campbell, sounds great!
    – – –
    Nella citazione da “L’eroe dai mille volti” c’è un passaggio che trovo encomiabile. Quando parla del fatto che nel corso del secolo scorso (guardate che popò di omoteleuto) dagli astri – sostanzialmente – si è passati all’uomo.
    Ed ho avuto un corto circuito. Perché questa è la sinossi di un capolavoro straordinario: “2001: A Space Odissey”, dove l’eroe compie proprio questo viaggio mirabile e spettacolare dalla profondità dello spazio siderale sino all’interno della sua mente umana, rinascendo poi come vita intermedia tra le due.
    Forse l’accoppiata Kubrick-Clark è andata oltre lo stesso Campbell, in quanto il processo dell’eroe IO-TU torna poi all’IO. E più che sul piano sociale ci ritroviamo nel meta-fisico.
    Ma d’altronde credo proprio che questa sintesi finale sia necessaria. L’eroe non può non ritornare al suo essere protagonista.
    Io non sono molto ferrato sulla letteratura del ‘900 riguardo all’eroe. Però credo che il Cinema abbia dato molto a questo tema. Come se in 114 anni avesse riassunto tutta la storia dell’eroe, dell’anti-eroe, della decadenza dell’eroe, sino all’assenza dell’eroe. E non solo in via consequenziale, ma in una sorta di ripetizione ciclica.
    Ha oltretutto secondo me puntato i riflettori (non spesso, ma con una certa continuità) sul “ritorno” dell’eroe, al suo riambientarsi nella società, come a smaltire ed “insegnare” ciò che ha appreso dal viaggio.
    Spesso storie di reduci come “Il cacciatore”.
    Io penso che questo film potrebbe essere interessante nel dibattito, riferendomi sempre al discorso dell’eroe che si pone il problema di seguire strade alternative. Spero abbiate visto il film, sennò non leggete oltre!
    Il film si apre su un matrimonio di una comunità di immigrati sovietici in una paesino della Pennsylvania. E si conclude col funerale di uno di loro, mentre gli amici rimasti provano a confortarsi cantando “God bless America”.
    Il percorso dell’eroe-padre Robert De Niro è a mio avviso esemplare. Perché va in guerra, salva gli amici, torna a casa, e poi torna indietro, e stavolta fallisce nel suo tentativo, quindi ritorna a casa. Mettendo comunque a disposizione la sua “esperienza”, in un contesto completamente cambiato, in cui sembra però in grado di reinserirsi. Un percorso completamente diverso dal reduce – ad esempio – di “Taxi Driver”. E il tema del coraggio viene approfondito, mostrandone le velleità, quando questo resta collegato ad un “io” (Cristopher Walken alla roulette russa) senza più interessarsi del gruppo, degli amici, della donna amata che lo aspetta a casa.

  26. Grazie per la spiegazione WM4, lunga ma veramente chiara. Però voglio andare a riguardare meglio cosa mi aveva colpito in quel commento.
    L’Ashmolean?! A quell’epoca mi ero iscritta al gruppo studentesco dell’Oxford Archaelogical Society che faceva capo al museo così avevamo l’ingresso gratuito, praticamente stavo sempre lì, fino a fare la muffa. 🙂
    Grazie a tutti, questo scambio sta servendo molto.

  27. (WM 1 — nota a margine, che le nostre puntualizzazioni stanno bordeggiando l’OT: i regimi fascisti vogliono soldati, non guerrieri. Il guerriero-archetipo non è mai facilmente gestibile dalla macchina da guerra statale, e la sua idea di scontro ha ben poco a che fare con “la continuazione della politica con altri mezzi” teorizzata da von Clausewitz. Lo spirito marziale vuole duelli, ordalie, il sacrificio del capo per la sua gente, il sacrificio dei pari insieme al capo, sprezzo del pericolo, fede nell’invulnerabilità e cose del genere: tutti modelli archetipici che nella modernità sono pervertiti. Il sacificio del capo diventa di tipo lavorativo, la guerra di materiali minimizza l’importanza del gesto del singolo ecc ecc. A lato: le Waffen SS (il tentativo più organico e operativo di dare corpo questo “modello” nel corso del XX secolo) sono state spesso considerate inefficaci dall’esercito proprio perché insubordinate, allergiche alla strategia, inclini a correre rischi inutili e a subire troppe perdite.
    Il modello non funziona nella società moderna, eppure la propaganda fa leva esattamente sull’archetipo marziale, lo aggiorna imbastardendolo: il sacrificio del Führer per il suo popolo diventa il suo lavoro insonne e anfetaminico, le cartoline di propaganda di ogni paese ritraggono gesti eroici che rimandano a modelli classici improbabili o marginalissimi nelle battaglie moderne, la necessità di vivere un “fronte interno” anche per la popolazione civile e così via. Una parte della nostra psiche reagisce a quelle immagini, è l’eterna storia del giovane volontario che parte carico di speranze, che si infrangono nlle trincee, nelle colonie dimenticate dalla madrepatria, nella noia delle caserme ecc ecc.
    All’interno della guerra fra stati, è sempre e solo la volontà del singolo a trasformare il regolato lavoro del soldato nell’occasione di realizzare l’archetipo del guerriero: così balena a tratti l’avventura di Jünger nella Prima guerra mondiale. La mobilitazione totale è una intossicazione marziale, l’idea delirante che quella particolare immgine psichica possa dominare l’intera vita di un corpo sociale. Ma non è un caso che Jünger stesso, dopo averla proposta, si dissoci dalla forma che la “sua” mobilitazione totale prende una volta che i nazisti tentano di metterla in pratica. Aveva gli anticorpi. E sempre non a caso, successivamente, definirà in modo del tutto diverso la possibilità di accedere allo spirito guerriero che è in lui/noi: definendo il passaggio al bosco)

  28. Grazie a WM4 per la risposta. Della questione dell’anamnesi e della funzione primigenia della narrazione sto parlando qui e là in PolifoNIE, dove sei naturalmente più che atteso, visto che si parla anche di SDM. Fra qualche giorno posterò il mio intervento su epica e NIE per la conferenza di Londra.

  29. @ Paolo S.
    nella parte centrale del tuo commento vedo la silhoutte di George L. Mosse, e mi fa piacere.
    Sì, c’è discontinuità tra il guerriero di Jünger e il soldato concretamente costruito dai regimi fascisti. Il punto è che il guerriero di Jünger (e non solo suo) è una figura mitica, non reale, che nella società capitalistica moderna è del tutto impossibile, e che però viene usata dagli stregoni del consenso per costruire il guerriero-massa. Quest’ultimo non deve mai smettere di autopercepirsi come “guerriero”, in illusoria continuità con quella figura mitica, anche se il “sacrificio” è ormai massificato, nazionalizzato e burocratizzato etc. L’eroe non è più un singolo: l’eroe è il Volk tutto. Ciascuno è guerriero in quanto parte del Volk. C’è tutto un linguaggio, un ricorso a retoriche precise, per creare un simulacro di continuità tra il guerriero e il soldato. Nello shaker dell’ideologia, il cocktail fascista viene scosso di continuo, ed è innegabile che anche gli scrtti di Jünger (almeno fino a Der Arbeiter) siano dentro quello shaker.
    Onestamente, non so se gli “anticorpi” di Jünger stessero nella sua idea di guerriero o nel suo inveterato individualismo, che non contraddiceva l’intruppamento divenuto sistema (anche la nostra è una società di intruppamenti e individualismi che convivono senza problemi, anzi si esaltano a vicenda), ma gli ritagliava uno spazio d’eccezione: si intruppano gli altri, io no. Peccato che gli altri si stessero intruppando anche per colpa sua. I suoi erano anticorpi un po’ tardivi e anche reticenti su molti aspetti, ma è un dibattito ormai “classico”, forse è meglio non riprenderlo, perché lungo quelle linee le parti in commedia sono già tutte assegnate. 🙂

  30. Penso che possa servire alla discussione sull’eroe una frase proprio di
    Jünger, tratta da Al muro del tempo, Adelphi, 2000, pag.104:
    “Assolutamente incontestabile, tuttavia, è che nei nostri conflitti gli ideali di umanità abbiano avuto vita più lunga e abbiano condotto più lontano degli ideali eroici. Ciò non deriva da un loro essere più nuovi, più moderni, più progressivi, ma, al contrario, dal fatto che sono più antichi, si riconnettono a un sostrato più profondo. Esso costrituisce la sostanza del progresso, che in sé è puro movimento. L’umano prevale perché più dell’eroico è prossimo al nucleo della nostra specie. E’ più vicino all’età dell’oro. Qui s’incontrano, anche, progresso e spirito conservatore.”
    E’ una concatenazione di asserzioni contro-intuitive, è un passaggio spiazzante (come buona parte del libro da cui proviene, che consiglio vivamente) e tanto più spiazzante quanto più è aforistico, addirittura assiomatico. Per questo può essere interessante “dezipparlo”.
    .
    Già che ci sono, un giochino genealogico-divinatorio usando le pagine di questo stesso libro:
    a pag. 83 Jünger invita ad adottare “punti di vista eccentrici”. Poche righe sotto, dice: che volete che sia un ciclo di diecimila o ventimila anni?
    Quell’esortazione e quell’inciso sono parte di una riflessione che più tardi, al capitoletto n. 51, ha una torsione molto interessante e fondativa:
    “Noi… ci troviamo nel cuore notturno della storia; la mezzanotte è suonata e il nostro sguardo si spinge fin dentro un’oscurità nella quale si profilano le cose future. A esso si accompagnano paura e presentimenti cupi. E’ un’ora di morte, ma anche un’ora di nascita. Le cose che vediamo, o crediamo di vedere, mancano ancora di un nome, sono senza-nome” (corsivo mio).
    Siamo nell’epoca del wu ming taoista che è anche un’ora di nascita. E scusate se è poco… 🙂

  31. Non solo i regimi fascisti vogliono soldati anzichè guerrieri, dalla fine dell’800 è diventata una necessità di tutti gli eserciti come conseguenza del progresso tecnologico. Quando la battaglia si è trasformata da duello fra uomini in attività di tipo industriale, l’eroe o il militare professionista si sono trasformati in operai addetti alla conduzione delle macchine, mitragliatrici, carri o artiglieria che siano. Il passaggio è stato segnato dall’invenzione delle armi automatiche: laddove un battaglione di fanti o uno squadrone di cavalleria poteva decidere un combattimento di stile napoleonico grazie al valore dei singoli o allo spirito offensivo del gruppo, davanti a una semplice mitragliatrice servita da due “tecnici”, non c’era più eroismo che tenesse.
    Non avendo mai letto Junger non capisco bene come potesse trovare da esercitare l’eroismo in quella I guerra mondiale dove i massacri erano preordinati come in catena di montaggio (logoramento, rosicchiamento) e dove comunque l’atto di un singolo era del tutto irrilevante e si perdeva come una goccia in un diluvio.

  32. Pare che in prima linea fosse un assoluto incosciente e avesse un culo della madosca. Quattordici ferite, pluri-decorato. Sull’irrilevanza del tutto, per capirci su come la pensasse all’epoca, ecco un bell’estrattino da La battaglia come esperienza interiore (corsivi miei):
    “Forse ci stiamo sacrificando per qualcosa di non essenziale. Ma nessuno può sottrarci il merito. L’essenziale non è il fine per cui combattiamo, ma il modo in cui lo facciamo. La qualità della lotta, l’impegno della persona, sia pure per l’idea più insignificante, contano più delle lunghe meditazioni su ciò che è bene e ciò che è male.”
    Credo che, scandagliando la letteratura dell’ur-fascismo, si possano trovare centinaia di passi analoghi a questo.

  33. Nautilus hai perfettamente ragione.
    Difatti gli eroi-soldati della prima guerra mondiale, quelli a noi noti, sono stati gli aviatori che occupavano un’area poco affollata.
    Eppure eroi sono diventati Sordi e Gassman, proprio fuggendo da quella follia, mettendo in crisi il sistema.
    Da un punto di vista “artistico”, vera nemica degli eroi (nel senso classico che diamo a questa parola) è la pace, non certo la guerra.

  34. Nautilus, il confronto valore/tecnica è cosa antica (penso al vigliacco arco lungo inglese che stermina il fiore della cavalleria di Francia), e risponde, sempre prendendo Hillman come riferimento, alle 2 divinità della guerra Ares e Atena.
    A un’analisi razionale, la partizione si rivela illusoria e le due maniere di guerreggiare sono sempre intrecciate, ma il nostro inconscio vi attribuisce pesi diversi. È sempre “il nemico” a usare armi vigliacche, sono sempre “i nostri” a colmare il divario tecnico con una determinazione superiore o il favore di un dio o di un sistema di valori: queste retoriche funzionano anche se sono speciose (vedi i discorsi dei comandanti nel videogame Rome Total War) perché rispondono a un framing interiorizzato.
    Quanto agli eroi-soldati nella Prima guerra mondiale, certo, ci sono gli assi dell’aviazione, ma anche gli arditi (che non erano mica tutti proto o ur fascisti!) incarnano l’ideale eroico: rifiutano il modo di fare la guerra che viene imposto e decidono di scagliare il loro coraggio contro l’apparato tecnico della trincea “nemica”. Nota: a lungo guardati storto, gli arditi, da buona parte dei comandanti.
    Wu Ming 1, d’accordissimo come concludi su Jünger, ma per come la vedo io (ancora con Hillman) il guerriero è reale “come” immaginale: per quanto si possa decostruirlo a livello razionale, esiste da qualche parte, non solo come prodotto di una retorica o di una posizione di valori da parte della società. La decostruzione (e questa in particolare) è buona e giusta, ma è una pratica che non è capace di dissolvere fino in fondo l’immagine archetipa del guerriero e che quindi secondo me:
    a) non raggiunge chi non condivide le tue premesse storico-culturali
    b) non fa i conti fino in fondo con qualcosa che comunque si porta dentro anche chi condivide le tue premesse storico-culturali.
    Sottolineo: putroppo, perché lo “spirto guerrier” porta con sé la distruzione, e questo forse non l’ho evidenziato finora abbastanza. Non lo sto esaltando, vorrei isolarlo.
    Secondo purtroppo: sebbene reputo che l’analisi della società con ferri Hillmaniani sia più radicale, neppure essa mi fornisce una chiave per produrre gli anticorpi necessari a tenere a bada la “febbre di Marte”.
    E vaccianrsi “alla Jünger” non è certo la soluzione ideale…

  35. @ Paolo S
    è fortemente impreciso dire che le nostre sono “decostruzioni” e basta, visto che noi ci concentriamo principalmente sulla pars construens, e dove non si vede ci sforziamo di fare spazio perché possa esprimersi. Da anni, con le nostre narrazioni, cerchiamo e raccontiamo e ci auspichiamo modi di stare nella battaglia che non siano quelli discesi lungo il phylum guerresco/militarista patriarcale. Ai primordi della nostra attività, ci fu l’esempio – fondativo quant’altri mai – dell’EZLN, e di come ci abbia influenzati l’abbiamo raccontato di recente. C’è la critica all’impostazione più tradizionale, tramite la narrazione delle illusioni, delle sconfitte e dei vicoli ciechi (questo è fortemente presente in Q e Asce di guerra) e ci sono i percorsi alternativi, in parte inespressi o stroncati/rimossi. In Manituana c’è l’esplorazione di un essere guerrieri diverso da quello di cui abbiamo parlato negli ultimi commenti, modello che degenera anch’esso ma in un altro modo e comunque non chiudendo tutti gli spazi. C’è, fortissima in Stella del mattino, la ricerca di un superamento. C’è, in Guerra agli umani, il rifiuto della mentalità da assedio e la tensione verso un nuovo atto fondativo. E’ questa la nostra poetica.

  36. @WM1 infatti il mio commento voleva essere circoscritto alla «nostra» discussione qui, per quanto è ovvio che per te essa sia contigua alla poetica di Wu Ming. Non ho mai detto di non apprezzare le vostre pars costruens (alcune le ho apprezzate di più, altre meno), e non voglio/posso certo modificare i vostri modi di narrare, che trovo spesso stimolanti e ricchi di molte forze. Così come apprezzo il nostro confronto civile qui, e la gentilezza di Loredana che ci ospita.
    😉
    Ma insomma, la pensassi come tu/voi, non avrei quasi niente da dirti/vi!

  37. Caro Paolo, quel che dici è vero ma l’analogia che tento fra il soldato del XX secolo e l’operaio non specializzato della catena di montaggio mi pare comunque valida: l’arcere che usava l’arco lungo per quel che ne so era specializzatissimo, ci volevano anni di addestramento continuo per conseguire una buona efficienza sul campo, mentre per un fuciliere o un mitragliere bastano poche settimane.
    Il confronto di cui parli è vero che è sempre esistito ma solo con l’avvento, ripeto, delle armi a ripetizione (e lunga gittata) è diventato improponibile, da allora in poi il valore ha perso d’importanza per cedere definitivamente il passo alla tecnica.
    Verissimo anche quanto dici per gli arditi, ma si trattava pur sempre di reparti d’assalto validi per colpi di mano, non per vincere battaglie in campo aperto, la mitragliatrice è stata sconfitta dal carro armato, non da pochi coraggiosi.
    I commenti di WM1 ed Ekerot mi fanno venire in mente altre considerazioni: evidentemente vi sono diversi “eroismi”, quello ispirato dalla ricerca della “gloria” fine a se stessa di quel condottiero sassone e rimasto invariato fino alle guerre napoleoniche, quello alla Junger in cui l’eroismo è legato al “modo” in cui ci si comporta in battaglia e sui riflessi che questo ha sulla concezione di sè (sdegnoso quindi della gloria, che è sempre un riconoscimento che si pretende dagli altri) e infine il sacrificio oscuro di Sordi e Gassman in un episodio di fantasia che però rende bene l’idea di persone comuni che sono “costrette” loro malgrado a diventare eroi per non tradire i propri compagni.
    Anche Tobino nel “Deserto della Libia” parla di una guerra sbagliata, stracciona e mal condotta, di soldati senza bandiera, “Eppure” scrive “gli eroi ci furono, sconosciuti, morti invano, ma ci furono”

  38. Giacchè si stanno analizzando varie facce dell’eroismo in battaglia, in questi giorni mi è capitato in mano un libro che riporta gli articoli di un inviato imbarcato sulle navi della marina italiana nell’ultima guerra, stranamente senza nessun particolare cedimento alla retorica del tempo, pure se in chiave di esaltazione della tempra morale dei nostri marinai.
    C’è un episodio in cui il comandante d’un cacciatorpediniere affronta con la propria nave un nemico molto più forte, la nave viene affondata ma gli inglesi rendono gli onori militari e il comandante, salvatosi, viene decorato al valore.
    “Ma io” si tormentava in seguito col giornalista “ero responsabile delle vite di duecento uomini che si fidavano di me e li ho condotti a un macello inutile, potevo invertire la rotta, fuggire e sarebbero tutti vivi..”
    Il tormento non gli impedì in seguito, per essere ligio agli ordini, di condurre un altro caccia in una situazione disperata in cui stavolta perì non solo tutto l’equipaggio ma finalmente anche lui.
    Ah, questi eroi…

  39. Nautilus, giustissimo quanto dici sulla specializzazione degli arcieri e sul ruolo dagli arditi; nessuna tecnologia però cancella definitivamente dei modi di combattere, vi sono cosi e ricorsi storici dovuti a tecnologie e contromisure. Vorrei aggiungere qualche riflessione sulla velocità che cambia le regole (da Alessandro il macedone alla cavalieria dei Sarmati alla Blitzkrieg), ma sarebbe un azzardo.
    “Quegli” eroi. Certo, per noi è un eroe molto più positivo il sergente Rigoni Stern (il suo “capolavoro” dl periodo di guerra è tornare a casa senza perdere un uomo), ma riflettere sui folli casi e le morti insensate è altrettanto importante, per fasi ‘sti famosi anticorpi… Credo che il comandante, alla fine, abbia trovato “giusto” morire con i suoi marinai, almeno quanto era stato ingiusto sopravvivere la volta prima. Che tormento. Sogno il giorno in cui di sfornare tipi umani così non ci sarà più bisogno, e potremo sfogare il nostro spirto guerrier soltanto nei videogame…

  40. Non se WM4 sia ancora sintonizzato su questo topic – suppongo di no.
    Comunque a proposito di Cinema e di eroi che ritornano (come in “Stella del Mattino”), consiglio caldamente la visione di “Gran Torino”.
    Che non solo è l’ennesimo gran film di Clint Eastwood.
    E’ anche un’interessante riflessione sul “reduce”, come sempre in Eastwood mai retorica.
    A proposito di come un eroe possa debba e riesca a reintegrarsi nella società.
    Per godersi appieno questa riflessione bisogna avere davanti agli occhi “Per un pugno di dollari”.
    – – –
    In “Gran Torino” Clint Eastwood è un eroe di guerra. Un reduce della Corea, dove ha perso gli amici e anche la dignità. La medaglia al merito l’ha vinta sparando ad un coreano che si stava arrendendo.
    Il recupero nella comunità americana è stato tutt’altro che facile. Operaio alla Ford, vita di grande fatica, figli e famiglia. E questa macchina del 1972 che rappresenta un mausoleo alla vita che avrebbe potuto essere.
    Alla morte della moglie, Clint scopre di essere solo. E isolato, in un quartiere completamente invaso da extracomunitari, gialli, neri e ispanici.
    Clint odia questa gente. E’ un razzista della prima ora. Non li capisce, e soprattutto non capisce cosa ci facciano lì vicino casa sua, irrispettosi dell’american way of life.
    Caso vuole che Tao, un ragazzo di 16 anni, timido ed impacciato si sta apprestando a diventare un “goodfellow”. Ma ha la (s)fortuna di abitare nella casa affianco a quella di Clint.
    Clint trascorre le giornate a bere birra e a sputare tabacco (come il pistolero della trilogia del Dollaro). E a gareggiare contro la signora cinese in bestemmie.
    La sorella di Tao viene stuprata. Tao è deciso a vendicarsi. E nei film di Clint la violenza contro le donne è sempre una ragione sufficiente per una vendetta cieca e feroce.
    Ma qui qualcosa cambia. Clint decide di insegnare a Tao qualcosa di diverso dalla vendetta. Dal ricorso alla violenza. Gli racconta e gli fa vedere cosa vuol dire essere “eroe”.
    Una parola finta, una medaglia talmente immeritata da essere destinata alla cassa della cantina, che brucia sul petto.
    Nel finale del film di Leone, Clint usciva allo scoperto di fronte a Ramon e i suoi. Viene tempestato di colpi. Si rialza, e scopre una lamiera di ferro che lo ha protetto dalla morte. E fa una strage.
    Alla fine di “Gran Torino”, Clint arriva di fronte a tutta la baby gang cinese. Con la mano a mo’ di pistola mima il gesto di ucciderli tutti. Poi estrae un accendino. Ma chiaramente fa in modo di far capire che quell’accendino sia una pistola.
    Viene crivellato di colpi. Stramazza al suolo e stavolta è per non rialzarsi.
    Scopre la polizia – e questa notizia è quella che voleva venisse riferita a Tao – che Clint è andato all’appuntamento con la morte senza alcuna difesa. Era totalmente disarmato.
    Tao vince la “Gran Torino” e probabilmente non imboccherà la strada della malavita e della violenza.
    – – –
    Trovo che sia una possibile risposta alla domanda che ha imperversato in questa discussione: cosa fanno gli eroi nel day after?
    Una delle tante, ça va sans dire.

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