RIDERE NEI MONDI ALTRI

A settembre dello scorso anno, ho portato al Festival “Il senso del ridicolo” qualche appunto sull’umorismo nella letteratura fantastica. Dal momento che oggi, a Fahrenheit, per Ad Alta Voce inizia la lettura di “Guida galattica per gli autostoppisti” di Douglas Adams, vi ripropongo parte delle mie noterelle.
Qualunque sia la considerazione che abbiamo del fantastico, e dunque sia che lo riteniamo trascurabile in quanto romanzo (e come sapete il romanzo è dichiarato morto a ogni equinozio d’autunno e di primavera), sia che lo riteniamo trascurabile in quanto romanzo non realista, sia che lo leggiamo senza curarci molto delle considerazioni precedenti, siamo abituati a considerare il fantastico come serio. Serissimo. Anche quando il nostro immaginario va oltre quello stilema ormai incancrenito (un elfo un nano e un orco si incontrarono in una taverna e decisero di andare a combattere l’oscuro signore), siamo abituati ad associare al fantasy, alla fantascienza, all’horror, al gotico e alla magia un contegno epico che non consente il sorriso.
Non è vero, non del tutto.
Se dico letteratura fantastica voi pensate a Tolkien, e fate bene. Ora, se pensate a Tolkien, è facile che pensiate ad austeri guerrieri elfici e feroci nani dotati di ascia, e naturalmente a orchi crudeli e nazgul in volo su orribili cavalcature che seminano terrore e soprattutto al famigerato oscuro signore di Mordor, Sauron, che con l’unico occhio tutto sorveglia. E’ vero, c’è tutto questo. Ma c’è anche qualcosa d’altro.
Nell’immaginario di Tolkien si ride. Capita che a ridere siano addirittura i Valar, le divinità superiori di Arda, l’universo dove Tolkien muove i suoi eroi. Per esempio uno dei Valar si chiama Tulkas, detto anche Astaldo il Valoroso, il più grande per forza e gesta di valore, amante della guerra, grande antagonista di Melkor, il Valar malvagio, colui che ha Sauron come servitore. Tulkas ama combattere, e ride quando sta per farlo. Si legge nel Silmarillion:
«Ma, nel pieno della guerra, uno spirito di grande forza e di grande ardimento accorse in aiuto dei Valar, avendo udito, nel cielo lontano, che nel Piccolo Regno era in corso una battaglia; e Arda si colmò del suono della sua risata. Giunse così Tulkas il Forte la cui collera si abbatté come un vento impetuoso, disperdendo nubi e tenebre di fronte a sé.»
Insomma, Tulkas sconfiggeva i più tremendi fra i nemici ridendo. Scrive Tolkien che Melkor trema al suono di quella risata.
Potreste ribattere che quella risata non è umoristica. E’ una risata di sfida, non di allegria e tanto meno di comicità. Non avreste torto.
Ma Tulkas non è il solo a ridere nel mondo di Tolkien. I veri eroi del Signore degli anelli, gli Hobbit, ridono spesso. E riescono a far ridere gli altri. Guerrieri, Elfi, stregoni. L’eroismo degli Hobbit, i mezziuomini amanti del cibo, dell’erba pipa e a volte delle avventure, è fatto di umorismo. Come ha scritto Wu ming 4, la loro arma è
“ il senso dell’umorismo, del comico, che gli hobbit dimostrano di avere anche nelle situazioni più difficili, e che è un ottimo antidoto contro l’orgoglio.
Trovando il lato comico anche nelle situazioni peggiori, gli hobbit ribadiscono continuamente i propri limiti, il proprio essere fuori ruolo. Soltanto scommettendo su questo paradosso possono riuscire a condurre l’impresa. E’ chiaro che l’istintiva autoironia non impedisce loro di accettare il sacrificio per il bene collettivo: pur non essendo ascetici guerrieri, ma amanti dei piaceri quotidiani e delle gioie terrene, gli Hobbit non sono cinici né egoisti. La loro risata divertita non è il ghigno sprezzante del guerriero che si lancia verso la morte, né il sorriso sardonico di chi contempla la propria e altrui sorte con distacco, ma un omaggio alla vita, in grado di risuonare scandalosamente perfino nelle desolazione di Mordor.”
E il loro riso è contagioso. In questo passo siamo nella parte finale del Signore degli anelli: Frodo e Sam sono nelle terre di Mordor, esausti per il peso dell’anello e per quella che si prospetta una missione suicida, da cui non torneranno. Eppure, in una pausa della loro marcia, trovano il tempo di sedersi e parlare di un’altra delle cose amate dagli hobbit: le storie. E discutono proprio di vero e di falso.
“Così, disse Frodo, accade per ogni storia vera. Prendine una qualsiasi fra quelle che ami. Tu potresti sapere o indovinare di che genere di storia si tratta, se finisce bene o male, ma la gente che la vive non lo sa, e tu non vuoi che lo sappia».
«No, signore, proprio come dite voi. Pensandoci bene, apparteniamo anche noi alla medesima storia, che continua attraverso i secoli! Non hanno dunque una fine i grandi racconti?».
«No, non terminano mai i racconti», disse Frodo. «Sono i personaggi che vengono e se ne vanno, quando è terminata la loro parte. La nostra finirà più tardi… o fra breve».
«Allora potremo prenderci un po’ di riposo», disse Sam. Rise sarcasticamente. «Ed intendo dire proprio e soltanto riposo, signor Frodo. Intendo dire dormire, e svegliarsi pronti a un bel lavoro mattutino in giardino. Temo che sia tutto ciò che desidero per il momento. I grandi programmi importanti non mi si confanno. Eppure mi domando se un giorno ci metteranno nelle favole e nelle canzoni. La storia la stiamo vivendo, beninteso, ma chissà se ne faranno un racconto da narrare accanto al camino, o da leggere per anni e anni in un grosso libro dai caratteri rossi e neri. E la gente dirà: “Parlateci di Frodo e dell’Anello!”. E poi dirà: “Sì, è una delle storie preferite. Frodo era molto coraggioso, nevvero papà?”. “Sì ragazzo mio, il più famoso degli Hobbit, ed è dir molto”». «E’ dir di gran lunga troppo», ribatté Frodo ridendo, un riso lungo e limpido, sgorgato dal cuore. Da quando Sauron aveva invaso la Terra di Mezzo quei luoghi non sentivano un suono così puro. A Sam parve improvvisamente che tutte le pietre fossero in ascolto e le imponenti rocce chine su di loro”.
Ma gli hobbit sono creature uniche, fra gli eroi dei mondi fantastici. Eppure qualcosa della loro presenza influenzerà quello che verrà dopo. La letteratura fantastica ha avuto due grandi scrittori umoristici, almeno due.. Il primo è Sir Terence David John Pratchett, meglio conosciuto come Terry Pratchett. Pratchett, quello del Mondo Disco, una saga in trentanove romanzi che ha venduto 65 milioni di copie, ma questo non conta. Come molti scrittori, fece diversi lavori. Nel 1980 Pratchett era addetto stampa per la Central Electricity Generating Board, la società di stato britannica per la produzione di energia elettrica, per una zona che comprendeva quattro centrali nucleari. In seguito dichiarerà che aveva dimostrato un «impeccabile tempismo» nell’aver cambiato carriera così presto dopo l’Incidente di Three Mile Island e disse che avrebbe «scritto un libro sulla sua esperienze, se avesse pensato che qualcuno avrebbe potuto credergli.»
Com’era l’universo di Pratchett? Improbabile. Perché maneggiava gli elementi della grande epica rendendoli ridicoli. Prendi la filosofia che è alla base delle grandi saghe, prendi le antiche domande sul senso dell’universo e della vita, e ridici su. Così fece Pratchett, così fece soprattutto Douglas Adams. Che nel 1979 inizia il suo capolavoro, Guida galattica per gli autostoppisti. Che comincia così:
«Lontano, nei dimenticati spazi non segnati nelle carte geografiche dell’estremo limite della Spirale Ovest della Galassia, c’è un piccolo e insignificante sole giallo. A orbitare intorno a esso, alla distanza di centoquarantanove milioni di chilometri, c’è un piccolo, trascurabilissimo pianeta azzurro-verde, le cui forme di vita, discendenti dalle scimmie, sono così incredibilmente primitive che credono ancora che gli orologi da polso digitali siano un’ottima invenzione»
Qual è la storia? C’è un uomo che si chiama Arthur Dent e scopre che alcune ruspe gialle (che ha appena notato nel suo giardino) stanno per demolirgli la casa in cui abita per fare spazio a una nuova superstrada. Dopo poche ore gli abitanti della Terra scopriranno che il loro pianeta sta per avere lo stesso destino, a causa di una flotta di astronavi, del vogon Jeltz dell’Ente Galattico Viabilità Iperspazio, che appaiono improvvisamente nel cielo. Arthur viene salvato da un suo vecchio amico, Ford Prefect, un alieno, che lo trascina con sé, chiedendo un passaggio ad una delle astronavi demolitrici.
Arthur scoprirà così un universo sconosciuto, nel senso letterale del termine, in cui la sua unica bussola sarà la Guida Galattica per gli Autostoppisti. Un libro in forma di un piccolo computer (una sorta di eReader a comando vocale ante litteram), un best seller universale (Terra esclusa), che si vende benissimo per due ragioni:
1. costa poco,
2. reca stampate, a grandi lettere amichevoli sulla copertina, le parole “DON’T PANIC” (“NIENTE PANICO”).
Le avventure che accompagneranno Arthur nella galassia sono infinite. Quella più interessante è quella che gli accade sul pianeta Magrathea, dove incontrano il progettista che ha costruito la Terra e i clienti che gliela avevano commissionata, cioè i due (apparentemente) topi che stanno ancora cercando la domanda della “risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto”.
SPOILER
La risposta data dal supercomputer Pensiero profondo è…Quarantadue.
Non ha senso? Invece sì. Quando, dieci anni dopo la pubblicazione della Guida, nel 1993, Douglas Adams diede la sua versione per il famigerato quarantadue, disse:
“La risposta è molto semplice. Era uno scherzo. Doveva essere un numero, un normale, piccolo numero, e io scelsi quello. Rappresentazioni binarie, calcoli in base tredici, monaci tibetani sono solo una completa sciocchezza. Ero seduto alla scrivania, fissai il giardino e pensai “42 funzionerà”. Lo scrissi a macchina. Fine della storia”
Mica tanto. Quel numero, 42, vene utilizzato nella missione NASA/ESA/Roscosmos Expedition 42, quella cui prese parte Samantha Cristoforetti, che non a caso ha chiamato il suo blog Avamposto42. Non solo, Google e Siri rispondono 42 alla domanda sul senso della vita. E i lettori di Adams si illuminano quando qualcuno dice 42.
E’ un magnifico scherzo, ma anche qualcosa in più. Un falso collettivo che ci fa sorridere e si deve a un libro. E’ la verità? Forse. Del resto, la letteratura cerca di dire la verità e disperatamente fallisce ogni volta. Non è un motivo per non leggerla, perché voi volete essere ingannati. Non è un motivo per non scriverla, perché noi vogliamo ingannare, e disperatamente nell’inganno dire il vero. Non è questo il nostro compito, del resto?
Non è il compito di chi scrive portare il riso dove non dovrebbe esserci, e con quello infrangere ogni canone?

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