RIFORMA DEL LAVORO: CI BASTA?

522959_3282002163839_1081124294_3094383_669713884_nE al capo V del disegno di legge di riforma del mercato del lavoro, sotto la voce “ulteriori disposizioni”, arrivano le voci rubricate come “donne”: dimissioni in bianco, figli, baby sitter. Troppo poco? Un primo segno? Ne l’uno né l’altro. Perché per capire quello che la riforma significa per le donne, conviene guardare al tutto , non solo al ripristino del contrasto alle dimissioni in bianco, al mini-mini congedo di tre giorni continuativi di paternità obbligatoria, e ai buoni per pagare le baby sitter invece di prendersi le aspettative facoltative per maternità.
Togliamo subito di mezzo il Moloch: l’articolo 18 e l’accordo finale che lo ha avuto ad oggetto. Non perché non conti: sotto la voce “economici” potevano passare anche i licenziamenti discriminatori. Adesso i pesi sono stati un po’ riequilibrati, si sono rafforzate le tutele in uscita, buttando la palla nel campo dei giudici. Ma tutto questo dibattito ha continuato a oscurare l’altra faccia della riforma, la questione dell’entrata al lavoro. Su questo ci vogliamo concentrare. Perché a noi interessano quelle che l’art. 18 non ce l’hanno e non lo avranno mai, le non-posto-fisso, senza tutele. Era per loro la riforma, no? Allora qualche numero, e i nostri 4  punti.
Uno. Non tutti i disoccupati sono uguali. Ci sono quelli che hanno appena perso un lavoro e quelli che invece cercano il primo lavoro, o escono da un periodo in cui (vuoi per scoraggiamento, vuoi per altri accidenti della vita, tra i quali – per dire – un figlio) non l’avevano e non l’hanno cercato. Tra i primi (disoccupati ex-lavoratori) i maschi sono la maggioranza: 56%. Nel secondo gruppo (nuovi entranti sul mercato del lavoro) primeggiano le donne: 63%. (dati Istat, riportati nell’articolo di redazione di inGenere.it “Lavoro, una riforma che guarda al passato”). Tutti gli ammortizzatori sociali oggi esistenti sono per il primo gruppo, gli ex. Motivo forte per sperare nella riforma. Che però non prevede niente per i nuovi entranti: hai un’indennità, di qualche tipo, in caso di disoccupazione, solo se hai perso un lavoro.
Due. Anche quelli che hanno perso un lavoro non sono tutti uguali. Ci sono i tempi indeterminati, quelli del posto fisso, poi i tempi determinati, posto a termine ma comunque da dipendente, e tutti gli altri, i precari (co-co-pro, partite Iva, prestatori occasionali, ecc). La riforma allarga le tutele solo ai dipendenti, rispetto a prima quel che cambia è che ci sono gli apprendisti e gli artisti. Per loro sarà l’Aspi. Mentre la mini-Aspi rafforza un po’ la vecchia “disoccupazione a requisiti ridotti”, ma ancora una volta riguarda solo quelli che escono da un lavoro dipendente (e hanno almeno 2 anni di contributi versati). Rimangono invece esclusi da qualunque tutela “tutti gli altri” e le donne – manco a dirlo – sono qui le più numerose. Una ricerca Isfol ha, infatti, calcolato che tra i lavoratori “non-standard” ci sono più donne che uomini. Se poi si va a guardare per fasce d’età troviamo che è sotto i 40 anni che c’è la maggiore disuguaglianza tra uomini e donne con un’alta concentrazione di precarie. Lo confermano anche i dati Inps sulla gestione separata. Discriminazione per fertilità? A questo proposito, nella riforma non c’è traccia dell’assegno di maternità universale, cavallo di tante battaglie (si veda la proposta elaborata dal gruppo Maternità e paternità).
Tre. Quel che c’è sono alcuni paletti e vincoli all’uso dei contratti precari. Che daranno più rogne amministrative e costeranno di più. I contributi per gli atipici infatti salgono, e parecchio: per i co-co-pro arriveranno al 28% l’anno prossimo e al 33% nel 2018. Se le imprese saranno costrette a pagare i contributi ai co-co-pro quasi quanto quelli dei dipendenti, alla fine potrebbero trovare conveniente assumerli, dice il governo. Ma il ragionamento cade se questi contributi, formalmente a carico dei datori di lavoro, alla fine saranno scaricati sui precari stessi, abbassando il loro compenso netto. Lo dicono i precari dell’associazione Tutelare i lavori, e lo ha scritto Tito Boeri: “in assenza di un salario minimo, nel caso di lavoratori a progetto e altri lavoratori parasubordinati, il maggiore carico contributivo potrà facilmente essere fatto pagare al dipendente sotto forma di salari più bassi. I lavoratori parasubordinati stanno già ricevendo lettere dai datori di lavoro in cui si annunciano riduzioni del loro compenso nel caso di riforme che aggravino i costi delle imprese”).  Morale: i precari avranno contributi più cari senza nessuna tutela in più.
Quattro. Eccoci alla voce “ulteriori”, zona donne. La legge contro le dimissioni in bianco, abolita dal governo Berlusconi nel 2008, prevedeva che le dimissioni volontarie potessero essere firmate solo su particolari moduli degli uffici del lavoro, numerati e datati: in questo modo si poteva evitare la pratica, appunto, della firma preventiva su fogli bianchi senza data. Procedura troppo complicata, secondo il governo, che ne ha predisposto un’altra (v. art. 55 del ddl): salutiamo la buona notizia, sperando di essere finalmente passate dal simbolo alla realtà. (Anche se qualcuno teme che alla fine i datori di lavoro colpevoli di aver fatto firmare le dimissioni in bianco possano cavarsela solo con una multa: ma su questo, sarà opportuno aspettare i dettagli tecnici del testo e analisi più approfondite). Mentre è di certo solo un simbolo l’art. 56, quello sui congedi obbligatori di paternità: 3 giorni in tutto, “anche continuativi”, di cui due “in sostituzione della madre”. Alcuni contratti di lavoro già prevedono congedi di paternità, ma sarebbe la prima volta che ne viene introdotto, per legge e in Italia, l’obbligo. E questo è un passo avanti. Ma così piccolo e così puramente simbolico da poter sembrare quasi un inciampo. Ovunque si discuta seriamente di congedi di paternità, si va ben oltre la soglia – abbastanza risibile – dei tre giorni (si veda il dossier). Forse consapevole del fatto che le misure proposte sono poca roba, il ministro Riccardi si appresta a rafforzare il pacchetto “congedi” nell’iter parlamentare, mettendoci dentro anche quelli per i nonni: perché allora non preparare in parlamento un assalto trasversale al congedo di paternità, portandolo da 3 a 15 giorni?
Insomma, il primo atto del governo Monti-Fornero ha aumentato l’età della pensione, nuove regole per tutti ma con effetti prevalenti sulle donne. Dal secondo atto – la grande riforma del mercato del lavoro – era lecito aspettarsi una fase due un po’ women friendly, dato che la titolare del lavoro ha anche le pari opportunità, dato che le analisi sull’aumento del Pil che può portare il lavoro femminile si sprecano, dato che il vecchio sistema degli ammortizzatori sociali era studiato sul maschio-adulto-e-garantito. E invece, di gender mainstreaming nella riforma non c’è traccia (si veda anche l’analisi di Snoq). Finisce che portiamo a casa solo un articoletto che, ben che vada, impedisce di buttarci fuori quando abbiamo la pancia. Ci basta?
contemporaneamente postato da
Giovanna Cosenza
Marina Terragni
Roberta Carlini
InGenere-Webmagazine
Manuela Mimosa Ravasio
Lorella Zanardo

8 pensieri su “RIFORMA DEL LAVORO: CI BASTA?

  1. Mah. Io al gender-slalom nel merdaio di queste riforme per vedere chi ci smena di più tra maschi e femmine ci credo poco assai.
    Il governo Monti ha mandanti precisi, e l’operazione di killeraggio dei diritti e della qualità della vita non ha certo come obiettivo primario la discriminazione di genere, ma la riduzione in schiavitù delle nazioni.
    Sarebbe molto meglio che chi ha voce in rete e fuori sottoscrivesse un impegno solenne a scaricare elettoralmente TUTTI quelli che sostengono questa banda di avvoltoi. Vedere il Tg3 occupato per venti minuti a fare la radiografia del Trota e di Rosy Mauro mentre Monti sostenuto dal PD sta macellando il paese mi fa venir voglio di recuperare l’archibugio del bisnonno. E non ci metterei confetti azzurri, nè rosa.

  2. domanda forse stupida e ingenua: dopo 15 anni dall’introduzione del lavoro precario con il pacchetto Treu che poi ha spianato la strada alla Legge Biagi, è assurdo pensare di abolirle queste leggi e di tenere in piedi solo l’apprendistato? Beh, tanto assurdo non sarà ora che ci penso, se nel 2006 Guglielmo Epifani proclamò solennemente che la legge Biagi andava non già riformata ma proprio cancellata (poi sappiamo come andò con quel protocollo di luglio 2007 in presenza del governo amico …)!

  3. Cristina Morini, La riforma del mercato del lavoro (sullo sfondo, The family e un poker di donne):
    «Che senso ha salvaguardare la madre lavoratrice nel periodo di gravidanza quando, contemporaneamente, nello stesso testo, non le si garantisce alcuna continuità di prestazione né di reddito? Che scopo ha obbligare un padre a tre giorni di aspettativa, se l’impresa non può parlare il linguaggio della vita ma pretende solo di catturarla, soprattutto vuole il tempo della vita, è avida del tempo della riproduzione? Dà l’impressione che questi ritocchi siano solo una sorta di premio di consolazione per garantire da un lato la continuità del processo di lavorizzazione delle donne, salvaguardando il loro ruolo destinale di madri. Con questa riforma l’apparato di cattura e di dominio dell’impresa, il suo potere unilaterale, si approfondiscono e si ampliano un po’ di più, grazie al ricatto (già ora esistente) del licenziamento individuale perenne. Sarà possibile, per le madri chiedere permessi e orari elastici, senza incorrere in liste di proscrizione? Nell’ideologia organizzata della crisi permanente, la quotidiana minaccia di veder cancellato il “posto” riproduce un dispositivo eccezionale che consente di ottenere una sempre più pesante forma di dipendenza e consenso (questo lo scopo principale dell’introduzione del licenziamento individuale)» […]: l’integrale qui.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Torna in alto