Primo articolo del 2024. È uscito qualche mese fa su Linus e pone qualche problema dei soliti. Buon anno
E’ una strana società, la nostra: immemore ma ossessionata dalla cattura del ricordo. Una società che filma la nascita del figlio, il viaggio, gli episodi piccoli e grandi senza davvero viverli, sognando, un giorno, di rivedere la propria vita in poltrona. Una società che ambisce a trasformare il presente in passato. “E’ sempre stato così”, ha detto tempo fa il filosofo Maurizio Ferraris. “Solo che oggi abbiamo protesi tecniche raffinate che rendono possibile fermare l’attimo anche a costo di non viverlo. Conserviamo a futura memoria: e lo scopo inconscio è intimamente funerario: lasciare traccia di noi dopo la morte”.
Icona: un racconto di Borges, Funes el memorioso. Un uomo con una memoria prodigiosa, costretto a ricordare ogni singolo istante della sua vita. Non solo il bicchiere sul tavolo, ma tutti gli acini dei grappoli d’uva che formano la pergola sopra il tavolo. Non potendo dimenticare nulla, finisce col non avere ricordi.
Mi chiedo, allora, come si fa a trasformare la memoria in qualcosa di vivo. Perché esiste una contraddizione tremenda fra la ragazzina che svolge religiosamente il tema in classe sulla Shoah e, una volta a Birkenau, sorride allo schermo del cellulare. Ma non è, credo, colpa sua. E’ un ripensamento generale della memoria e del come la trasmettiamo, quello che andrebbe fatto.
C’è un secondo punto. I tempi in cui viviamo ci portano a considerarci duraturi. Ovviamente, direte che da quando l’umanità ha memoria di se stessa l’immortalità è un tema centrale, e che ci si è interrogati da sempre sulla nostra finitezza, e contemporaneamente scrittori, poeti, visionari hanno immaginato che quella finitezza potesse essere sconfitta. Il problema è che oggi ci si sta provando davvero. Come detto altre volte, un giornalista irlandese, Mark O’Connell, ha raccontato in “Essere una macchina” le vie del transumanesimo: farsi congelare, ipotizzare il download del nostro cervello, ibridarsi con le macchine sono strade che vengono realmente perseguite.
Allora, viene da porsi qualche domanda: cosa succed quando immaginario e scienza si intrecciano? Quando i transumanisti che sperimentano la possibilità di “salvare i dati” della nostra mente vengono anticipati in San Junipero di Blackmirror? E che fine fa quella hybris che impediva di varcare i confini, in Goethe come nel manga Death note? E cosa sarà degli immortali che abbiamo letto o ammirato, o compianto, in libri, fumetti e film, e naturalmente in Tolkien, che su morte e immortalità ha fondato il Signore degli anelli? E saremo infine noi stessi a diventare così simili ai replicanti di Blade runner, che erano collocati, guarda caso, proprio nel 2019 che è già alle nostre spalle?
Rifletto su tutto questo dopo aver rivisto la nuova stagione di Black Mirror. E’ un’ottima stagione, a mio parere, perché si permette molte libertà. Non solo rappresentare il presente avanzato, come nella prima puntata, Joan è terribile, dove Netflix fa il verso a se stessa immaginando un triplo livello di realtà che cannibalizza le vite di persone qualsiasi, continuamente esposte alla visione e al giudizio altrui. Era già successo in diversi episodi, da 15 milioni di celebrità a Caduta libera, perché la commistione fra rappresentazione e realtà è sempre stata cara all’ideatore Charlie Brooker, ma qui diviene ancora più evidente. In verità, è una stagione che si appropria anche di molta parte dell’immaginario, dal thriller all’horror alla fantascienza fino alla distopia.
So che le opinioni sono divise in proposito, ma la strada scelta, più letteraria del solito, mi ha convinta, perché indaga molto sulle relazioni fra i personaggi, si tratti di donne in carriera prese di mira dall’affermarsi ineluttabile della coincidenza fra persona e rappresentazione pubblica della medesima, o di timide commesse che provano a salvare il mondo, o di astronauti che scivolano nell’orrore, o di attrici che commettono un grave (molto grave) errore. Ed è proprio perché spazia fra i tempi, e scivola dal 1979 alla fine degli anni Novanta (fino a epoche indefinite) che risulta ancora più convincente pur nello straniamento: come può essere finito il mondo con lo scoccare del decennio dei Settanta se siamo ancora qui? Non ci eravamo disabituati alle videocassette? Non somiglia, l’astronave dei due sventurati viaggiatori nello spazio, a quella concepita da Stanley Kubrick in 2001? Non ci riporta a Dracula l’atmosfera in cui si trova catapultata una sventurata attricetta? E così via.
Però, quel che è interessante è che la serie continua a porci la stessa domanda: chi siamo davvero? Non è tanto la questione del discostarsi o avvicinarsi tra identità reale e identità virtuale, e di chiederci quanto la seconda coincida del tutto con la prima. Non c’è una risposta netta, evidentemente: Black mirror racconta quel che siamo già, con appena un avanzamento nel possibile. Veniamo bannati e non possiamo comunicare con gli altri, cerchiamo di crescere in popolarità con cortesia o ammirazione manifesta spesso ipocrite, auguriamo la morte sui social in nome del nostro diritto di parola e via così. E allora?
E allora uscire dai social, faccenda di cui si discute parecchio negli ultimi tempi, serve pochissimo. Qualche anno fa Fabio Chiusi scrisse per Valigia Blu un articolo, di cui vale la pena citare un passo:
“…il monito di Malka Older, studiosa e scrittrice di sci-fi a sfondo politico che, citando Yuval Noah Harari, riporta: “per cambiare un ordine immaginario esistente, dobbiamo prima credere in un ordine immaginario alternativo”. A dire: dovremmo usare di più l’immaginazione, specie fantapolitica e fantascientifica, se vogliamo provare a realizzare un mondo, e un’ideologia, in cui i monopolisti dei dati non sono immutabili, irregolabili, inamovibili. Older la chiama “resistenza speculativa”: “Abbiamo bisogno di futuri speculativi”, dice, “ci ricordano che il mondo in cui viviamo non è inevitabile”. Se l’ideologia dominante è tale proprio in quanto capace di rendersi invisibile, di entrare tra le norme e i comportamenti quotidiani come il respiro nel torace, il grido immaginativo della scrittrice è la forma più pura, e forse più forte, di critica ideologica a Silicon Valley”.
Come detto e ripetuto negli ultimi anni, occorre agire su questo territorio, invece di stringersi nel proprio. E la questione si ripropone proprio in tempi in cui la letteratura, almeno in Italia, sembra fare esattamente questo: stringersi nel proprio. Basta dare uno sguardo alle cinquine finaliste di Strega e Campiello (un solo romanzo nei due casi, molti memoir, molte biografie) per capire che ci stiamo invece ancorando a un principio assoluto di realismo che rischia, per paradosso, di distaccarci completamente dalla realtà. Continuare a insistere sulla dicotomia fra razionale e irrazionale, o a scrivere, come ancora avviene, articoli risentiti contro l’astrologia, contribuisce a farcene allontanare ancora. Laddove le storie (tutte, scritte o filmate) hanno sempre raccontato quella realtà fingendo di raccontarci altro.