SILENZI

Nella trasmissione di venerdì scorso dove si è discusso della sentenza della Cassazione c’era un’altra ospite, Iaia Caputo, autrice di un saggio che sarà in libreria domani per Feltrinelli. Si chiama “Il silenzio degli uomini” ed è un libro importante, che si interroga su quanto si diceva nei post di questi giorni. Sulla parola mancata (non sempre, non da parte di tutti). Sul ritrarsi. Sulla scarsa voglia di mettere in gioco le parti più profonde di se stessi: non sempre, ripeto, non da parte di tutti. Ma non è consolante leggere un po’ ovunque commenti che minimizzano sulla gravità dello stupro (“in fondo si rimane in vita”, sosteneva un utente sul blog di Giovanna Cosenza ne Il Fatto quotidiano) e rimandano “ad altro”.
Ecco, Iaia Caputo riporta in primo piano una buona parte di questo Altro.  Per esempio, quella che chiama “la medeizzazione del disagio maschile”. Vi propongo un intervento (dal profilo Facebook del libro) che commenta un episodio accaduto in questi giorni con alcuni passi del saggio.

È successo sabato scorso a Roma. Un giovane uomo, dopo l’ennesimo litigio con la compagna che probabilmente voleva lasciarlo, ha preso il suo bambino di sedici mesi, lo ha avvolto in una coperta, e lo ha gettato nel Tevere gridando: «Io sono Dio». Non è un caso isolato. Di questi orrori ne accadono ormai decine ogni anno. Qualunque sia la causa che ne offusca la mente, portandoli a immaginare scenari catastrofici per la propria famiglia e per sé, o a progettare e a mettere in atto delitti atroci, questi uomini uccidono perché percepiscono come capovolto l’ordine precedente delle proprie esistenze, incomprensibile quello attuale, fino a sovvertire un compito che coincide con un istinto comune alla specie animale: quello della protezione della discendenza.
Le loro vittime sono sempre bambini, spesso molto piccoli e dunque del tutto inermi. Ma anche se in più di un caso la strage ha coinvolto altri familiari, o è culminata con il suicidio dell’omicida, quasi mai viene uccisa la madre dei figli, la moglie o la compagna che li ha lasciati. Perché?
Le donne sembrano essere le destinatarie della vendetta, dunque, condannate a vivere. Devono espiare la colpa dell’abbandono, l’affronto della rottura. E qui siamo già di fronte a un profondo cambiamento: fino agli anni Sessanta erano infatti all’ordine del giorno, per le stesse ragioni, quelli che si definivano delitti passionali. Come reazione alla fine di un rapporto, nessun uomo avrebbe mai toccato i figli per ritorsione. Si uccideva la moglie, nella certezza che il soggetto della «colpa» fosse anche l’oggetto della vendetta.
Perché allora questa torsione? Perché la mano dell’assassino si sposta dalla donna, «colpevole» dell’abbandono, agli incolpevoli nati di donna?
Una volta, l’esercizio del potere maschile combaciava perfettamente con il diritto a esercitarlo. E la coincidenza tra poteri e diritti degli uomini non solo era condivisa dalla morale dell’epoca, ma stava a fondamento dell’organizzazione familiare e sociale.
Quale immagine evoca l’uomo che oggi stermina i suoi figli, che soffoca la discendenza, che spara alla testa di un neonato o al cuore di una bambina rannicchiata sul sedile di una macchina?
Quella di un folle disperato, di un mostro che esercita, è vero, il più spropositato dei poteri, quello di vita e di morte, ma è un potere che svuota di ogni potere residuo chi lo esercita, è il potere autodistruttivo dell’impotenza. È il potere di chi, vistosi sottratto ogni potere, dà fine al presente e al futuro. L’omicida in questo caso non è più il portatore di un diritto, semmai, nella sua percezione, è la vittima di un diritto esercitato da altri (come quello di una moglie che chiede e ottiene un divorzio), che lui non riconosce e dal quale sente di non essere riconosciuto.
Questi uomini uccidono come nel mito uccise una donna temibile e temuta, divenuta poi straniera in una terra ostile, moglie ripudiata, regina senza trono né regno. Questi uomini uccidono come un tempo si dice abbia ucciso una madre potente assistendo impietrita alla spoliazione di ogni potere residuo, e sul bordo di quel precipizio senza fine scelse di spingere i suoi figli.
Perché Medea? E cosa ci racconta ancora dopo venticinque secoli la tragedia di Euripide? Forse narra ancora quale grumo incandescente di odio e di amore, di disperazione e di rabbia, di passione e annientamento possa celarsi nei rapporti tra donne e uomini, a quali tragiche conseguenze possa condurre un conflitto tra la ragione e la forza.
La regina della Colchide, nipote di Circe e del dio Elio, innamorata di Giasone che è nella sua terra per rubare il Vello d’Oro, e con il quale fugge, tradendo la sua stessa famiglia, in una delle più recenti riletture del mito, quella di Christa Wolf, quando infine giunge a Corinto è una straniera, una barbara, profuga in una città che non capisce negli usi, nei costumi, nella lingua, e che a sua volta non la comprende.
È stata una regina temuta e potente, Medea, ora è un’extracomunitaria, priva di diritti, una donna che sta per diventare una paria, abbandonata dal suo uomo che, per ambizione al trono, ha deciso di sposare Creusa, la figlia del re Creonte.
È in questo contesto di espropriazione, di umiliazione, di un ordine di affetti e di rapporti traumaticamente capovolto e infranto, che nasce in Medea l’idea della vendetta: uccidere la sua discendenza, la carne della sua carne, e poi la rivale e il compagno di un tempo. Compie il più micidiale, definitivo, mostruoso gesto di potenza, coltivandolo in una condizione di assoluta impotenza: non ha più niente la regina della Colchide, né famiglia, né patria, né dignità di donna, neppure un luogo sulla terra dove stare. Il mondo è un nemico, quanto e più di Giasone, a cui non può affidare la progenie: né l’uno né l’altro proteggeranno i suoi figli.
Ecco che sperimenta una crudele e disperata impossibilità alle relazioni. Ecco che tutto ciò che Medea vive – abbandono, sovvertimento dell’ordine precedente dell’esistenza, perdita dell’antico potere e dei più elementari diritti – diventa la metafora più calzante dell’allucinata visione della realtà degli uomini che uccidono i propri figli. Una richiesta di separazione, arrivata magari dopo anni di litigi, incomprensioni, se non di violenza, viene percepita come manifestazione dell’altrui arbitrio. Meno che mai si trasforma in un’interrogazione sui propri limiti o sui propri possibili errori, ma è invece vissuta come un’abiura, come una vera e propria destituzione, come il disconoscimento del posto che ritenevano fosse il loro, non discutibile, all’interno della famiglia, della coppia e infine della società.
Una donna che li lascia è dal loro punto di vista una donna che li abbandona e che li caccia; un giudice che accoglie la richiesta di separazione o divorzio, un tribunale che la ratifica, magari affidando i figli alla madre, opera un abuso, una spoliazione, fino a comporre l’immagine di un mondo ostile, di un inferno nel quale i propri figli non devono e non possono vivere. E i figli, questi bambini inermi, senza diritti e senza colpe, che per una malata idea di possesso sono tutto ciò che possiedono, vengono trasformati in bombe incendiarie con le quali faranno bruciare il mondo, condannando alla dannazione chi resta e sopravvive.
Da “La medeizzazione del disagio maschile”. Ne “Il silenzio degli uomini”. (Feltrinelli). Dall’8 febbraio in libreria.

20 pensieri su “SILENZI

  1. Trovo molto vere queste parole, e sono grato di averle lette.
    Mi fanno capire di più e meglio varie cose su cui rimuginavo da tempo.
    Conosco davvero tanti uomini che, lasciati dalla compagna, vivono, anche per decenni, la parte della vittima di un’atroce ingiustizia, senza mai spostarsi di un millimetro, senza mai provare ad allargare lo sguardo, fissi su quell’unico punto, non dovevi lasciarmi, non ne avevi il diritto, e con ciò sentendosi in credito per sempre, e con ciò giustificando magari non la violenza, ma l’abbandono dei figli, o (non so cosa sia peggio) un perenne, sistematico rancore velenoso, versato goccia a goccia sui figli, che devono soffrire non perché colpevoli di qualcosa, ma perché ciò faccia a sua volta soffrire la madre.
    Non ho mai incontrato una donna che si comportasse così, solo uomini.

  2. La medeizzazione è una formula efficace, che rende bene l’idea del temuto ribaltamento di ruoli, e permette di continuare ad attingere al mito come ad un “archetipo”, e uso questo concetto impropriamente, ma per capirci. La lettura che ne dà Christa Wolf è molto suggestiva ed adatta ad esprimere l'”archetipo”, ma vorrei precisare che non è proprio la lettura di Euripide. Ovvero: come sappiamo, il mito ha molti strati che corrispondono in parte agli usi che in successione ne sono stati fatti, a partire dall’antichità: al livello cronologico di Euripide, dobbiamo considerare il contesto storico contemporaneo della città di Atene, in un momento in cui una legge aveva deciso che la cittadinanza ateniese spettava soltanto ai figli di genitori entrambi ateniesi, mentre in precedenza poteva essere cittadino ateniese anche chi era figlio di un ateniese e di una donna straniera: è questa condizione che viene rispecchiata nei figli di Medea, che a Corinto sarebbero sempre stati figli di una straniera, e quindi stranieri essi stessi. E del resto, è Medea stessa che afferma che se se non li uccidesse lei stessa i suoi figli qualcun altro lo farebbe, dopo che ha ricevuto la notizia che il suo strategemma per provocare la morte della promessa sposa di Giasone è riuscito. In questo senso, è perfetto il parallelo con la mente di chi compone “l’immagine di un mondo ostile, di un inferno nel quale i propri figli non devono e non possono vivere”.

  3. “questi uomini uccidono perché percepiscono come capovolto l’ordine precedente delle proprie esistenze, incomprensibile quello attuale, fino a sovvertire un compito che coincide con un istinto comune alla specie animale: quello della protezione della discendenza.”
    A parte il fatto che l´uccisione dei figli rappresenta solo il 20% degli omicidi in famiglia mentre il 62% sono le compagne ad essere uccise (fonte Ministero delgi Interni) , vediamo questo “appello alla biologia” come spiegazione dell´infanticidio dei padri.
    In Natura (non credo che la Natura possa fondare un etica ma visto che la si invoca la si dovrebbe conoscere) non esiste nessun istinto assoluto alla difesa della discenza. L´abbandono o l´uccusione della progenia e´diffusissima in moltissime specie animali. I nostro cugini primati (lo fanno le femmine non i maschi….pero’ ovviamente non ci si appella alla natura per spiegare l´infanticidio delle donne) abbandono abitualmente i piccoli.

  4. Mi riaggancio all’intervento di paola m per ricordare che la figura di Medea assassina dei propri figli è creazione euripidea e che nella tradizione precedente non esiste cenno dell’infanticidio a opera della madre (ed è alla tradizione pre-euripidea che si rifà Christa Wolf). Un commentatore antico alla tragedia ci informa che in realtà furono i corinzi a uccidere i bambini, che la madre aveva tentato di proteggere rifugiandosi preso un tempio (non mi ricordo quale). I corinzi dunque, profanarono l’inviolabità sacra del tempio e per questo, nel mondo antico, avevano meritato fama di empietà, che danneggiava non poco i commerci di una città sorta su un istmo, che di commercio viveva. Per questo, pagarano Euripide perchè scrivesse una tragedia che trasferisse sulla madre l’infamia. Tutto questo per dire che la figura di Medea è tutt’al più esemplificativa di una costante delle società misogine, cioè addossare sulla donna tutte le colpe, facendone il capro espiatorio, anche attraverso mistificazioni della realtà.

  5. Ho avuto un po’ di difficoltà ad occuparmi di violenza. Era (ed è) un tema che associo a dolore. Quando ho iniziato a leggerne pensavo alla violenza maschile, ma considerando che non tutti gli uomini sono violenti, e che esistono anche donne violente, non sapevo (e non so) fino a che punto sia corretta una lettura di genere. Mi spiego con un esempio. Nel testo citato da Loredana si fa riferimento al padre che ha ucciso il figlio, ma molti infanticidi sono commessi anche da donne (si veda ad esempio: http://violenza-donne.blogspot.com/2006/12/infanticidi.html).
    Allora se ho sia uomini che donne che commettono infanticidi (o commettono altri tipi di violenza) forse voler guardare la cosa in termini di genere può essere fuorviante. Se entrambi li commettono perché dovrei concentrarmi solo quelli maschili?
    Non è una provocazione, è che non so rispondermi.

  6. ma infatti, Simona, non ci stiamo concentrando, mi sembra invece che la tesi del libro sia che l’infanticidio, fenomeno che, come atto passionale, diciamo così, viene tradizionalmente ascritto alle donne, o meglio alle madri, ora sembra diventare anche un’atto compito dai padri. E ripeto, come atto dimostrativo-risolutivo-passionale, non stiamo parlando dell’infanticidio “economico”.

  7. Io sospetto che tutte le madri che uccidono i figli lo fanno per colpire il marito.
    Ma siamo sicuri che siano aumentati gli omicidi ai neonati e alle donne?
    Io non vorrei essere stata una donna senza nobiltà nell’ ‘800. La virilità se non è contenuta è sempre feroce.

  8. Sì, Valter: il problema non è la virilità, è la sua costruzione sociale, è il non capire che in quanto tale la possiamo e dobbiamo cambiare. Naturalizzarla non serve a nulla, se non a peggiorare le cose.

  9. Il problema posto è più simbolico che specificamente patologico.
    Questo accostamento alla figura di Medea, sembra nascondere qualcosa, se è vero che uno dei “segni dei tempi” è il rovesciamento dei ruoli, quindi anche tra maschio e femmina, allora alla medeizzazione del maschio corrisponderebbe una giasonizzazione della femmina, che non è per nulla lusinghiero, infatti si contrappongono un potere costituito su un’energia e un fondamento ancestrali e un potere istituzionale che sacrifica affetti e parola per la ragion di stato, un po’ come succede nella tragedia di Antigone.
    Una delle caratteristiche della mitologia greca antica è che gli si può far dire quasi tutto, l’ambiguità naturale di tutte le espressioni simboliche si presta a interpretazioni assolutamente differenti fra di loro, per cui da Edipo alla snaturata Medea, sono stati utilizzati i miti per colorire di atavicità patologie aberranti, che hanno a che fare con i miti soltanto in quanto ne riflettono al livello più drammatico certi aspetti.
    Niente di male a trasformare un capolavoro dell’antichità in un complesso, in fondo si somigliano in qualcosa, ma nel caso dei fatti citati, e dell’imterpretazione che se ne dà, mi sembra che si voglia dare a questo fenomeno, (ma quanti sono alla fine i padri che hanno ucciso i figli, perchè il fenomeno diventi statisticamente significativo), una portata epocale, come un prossimo vermiglio tramonto del maschio, che tra non molto salirà sul carro celeste e si leverà di torno, indietro nella sua Colchide arcaica e barbara, se non preferirà la sorte di Antigone.

  10. Mi ricollego a quanto dice il commento precedente per sottolineare, filologicamente, un paio di cose importanti, anche se del tutto laterali nel discorso che stiamo facendo: 1) “Una delle caratteristiche della mitologia greca antica è che gli si può far dire quasi tutto”: certo, lo si può fare se si prende un mito, o meglio una delle sue versioni, e lo si utilizza all’interno di un altro sistema di pensiero, come ha fatto spesso la psicoanalisi nel XX secolo, per esempio, in modo tipico, per trarne degli “archetipi”. Non dico che questo uso sia inammissibile, dico che bisogna tenere conto che esso non ha a che fare con la comprensione storica del mito, cioè delle sue origini, del suo sviluppo, dei suoi vari usi ed adattamenti, nel corso del tempo, e del tempo antico in particolare, che lo rendevano funzionale alle varie circostanze in cui vi è ricorsi.
    2) Un esempio è appunto, il mito di Medea: quello che intendevo dire nel commento, è che Euripide non era tanto interessato a colpevolizzare la madre archetipica che ammazza i figli per fare dispetto al marito che l’abbandona, ma, tenendo presente la situazione politica contingente : 1- a ricordare ai suoi concittadini l’ingiustizia della nuova legislazione che limitava la cittadinanza a coloro che avessero entrambi i genitori ateniesi: Medea ucciderebbe i figli perché, essendo figli di una madre straniera, sarebbero stranieri essi stessi, mentre prima di allora, almeno ad Atene, sarebbero stati cittadini. Anche il commentatore antico che accusa i Corinzi dell’omicidio dobbiamo interpretarlo tenendo presente il suo contesto polemico, cioè quale sia l’obiettivo della sua critica, e non prendendolo come una fonte valida e obiettiva su una versione del mito precedente a quella euripidea. 2- il senso contemporaneo (contemporaneo a sé stesso) della tragedia di Euripide, ovviamente, non si limita a quanto detto sopra, e in quello che essa dice ai suoi contemporanei ci può entrare benissimo qualcosa che parla anche a noi: l’uso dei figli come arma per colpire chi ci tradisce, la certezza di avere potere di vita o di morte sui figli (che nell’antichità era in parte un fatto istituzionale), la certezza di poter decidere quale sia il loro bene, etc. etc.

  11. Grazie Paola, Così è molto ben delineato e si capisce che l’uso del mito è servito a sostenere una linea di pensiero.
    Neanche io so se è o non è ammissibile farlo, ma temo che da un lato finisca per fissare un preconcetto sul mito e dall’altro attribuisca a dei fatti di patologia grave un’aura simbolica di cui non hanno bisogno, anche perchè suggeriscono un valore ad un omicidio, anche se solo simbolico.
    D’altronde l’uomo moderno sembra così assetato di tragico, almeno quanto lo teme.

  12. in verità trasferire il dramma di Medea, che è l’essenza del femminile (non della donna) in ogni sua fonte, versione, interpretazione, sul maschile significherebbe determinare l’assunzione della componente femminile nell’uomo; ossia dare luogo al processo di unione degli opposti, leggi evoluzione interiore. A questo punto nessun essere vivente evoluto psicologicamente commetterebbe mai un delitto, men che meno di quel genere. La lettura della moderna psicoanalisi è molto più efficace. La Miller ad esempio spiega chiaramente che in quel bimbo lanciato nel fiume c’è il bimbo rimosso che è stato il padre ora diventato assassino.

  13. Io nemmeno parlerei di Mito per la Medea di Euripide, che si carica di una drammaticità più psicologica, da moglie tradita.
    In origine forse la Medea mitica è una delle signore della terra profanata con l’inganno, come probabilmente l’Arianna cretese abbandonata da Teseo dopo avergli svelato il segreto del labirinto, rappresenta la vendetta della physis su un nomos patriarcale e stupratore, ma soprattutto invasore, conquistatore dall’esterno. Una vendetta, letteralmente “sacrosanta” nel senso del sacro terribile, di una civiltà arcaica.
    Che sia un uomo o una donna non importa molto, se l’atto è l’uccisione dei figli in odio al coniuge. Quel che riemerge è il drago dei primordi, il figlio per un attimo smette di esistere come entità, diventa solo il pegno d’amore schiacciato sotto i piedi in dispregio del traditore.
    E’ l’obnubilamento (termine antiquato ma efficace), l’invasamento o l’inflazione dell’archetipo come avrebbe detto Jung, la stessa che a un certo punto porta il despota a voler perire su un unico rogo insieme al suo popolo, una soggettività dai confini talmente fragili da essere divelta dal diluvio. Abbiamo parlato molto di educazione sessuale ma qui direi che la cosa si colloca a un piano pre-genitale, di pulsione unitaria, indifferenziata, ai tempi della costruzione basale di un Io.

  14. Medea è la Natura. In alcuna maniera nel mito si ravvisa una “vendetta” sui figli (in nessuna delle possibili versioni); è piuttosto un “sacrificio” (si veda il film di Lars von Trier da Dreyer che rende splendidamente la tragedia di Euripide). In altre parole la storia di Medea ci porta completamente fuori strada se il tema è il femminicidio e la violenza maschile in genere.

  15. Scusate, ma il mio intervento si poneva su un piano completamente diverso: il mito di Medea è un mito, non un Mito. E come tale ha un’origine, che difficilmente potremmo ricostruire nei suoi elementi iniziali, ma gli studiosi di storia delle religioni ci provano, come per tanti altri, ed ha una storia, che ha aggiunto pezzi, che lo ha sviluppato, che lo ha modificato, a seconda delle esigenze di chi quel racconto(= mito) ha utilizzato. Da buon ultimo il teatro di Euripide, seguito poi da tante altre elaborazioni letterarie, antiche. Tutte le nostre riflessioni non storiche, ma filosofiche, psicoanalitiche, etc. etc., si collocano su questa linea: adattare un racconto alle nostre esigenze interpretative ed espressive. Se volete agire su questo piano, fatelo, ma dovete esserne consapevoli: state usando un racconto che è nato e si è articolato nel tempo per altri usi.

  16. Non distinguerei tra mito e Mito, ma tra mitopoiesi ed elaborazione artistica, che è urbanizzazione e addomesticamento della prima.
    Gli “usi” culturali consapevoli (giustificativi, retorici ecc) del mito esistono eccome, ma forse hanno meno importanza rispetto alla trasformazione che ne attua lo stesso processo mitopoietico. Bisogna prendere sul serio l’idea di Heine, che spesso gli dei di un’epoca diventano i demoni dell’epoca seguente, cosa che lui vedeva nel sacro pagano demonizzato dal cristianesimo, ma di cui i greci stessi erano consapevoli, quando riconoscevano nei Titani gli dei di un tempo, sconfitti dagli Olimpici.
    In questo senso mitologia e psicologia possono integrarsi, riconoscendo nella potenza devastante di certi archetipi la seduzione pericolosa di pulsioni irrisolte a livello di comunicazione interpersonale che si costellano secondo soluzioni più primitive. Che il matriarcato abbia preceduto il patriarcato storico è stato sostenuto da antropologi come Bachofen, Morgan o Maria Gimbutas. Se anche fosse vero, non è detto che quel passato fosse idilliaco.

  17. Resta il fatto che Medea aveva tutte le ragioni per essere incazzata, e che Giasone si è comportato da stronzo.
    Il problema dell’uso moderno dei miti, secondo me resta un problema, la volontà interpretativa che a tutti i costi deve sovrapporre al mito una spiegazione è un’altra piaga ancora.
    Medea la conosciamo attraverso un racconto che ha la forma e la sostanza della tragedia, (che alla fine significa canto), io credo che non ci sia altro modo che mettersi di fronte al testo e esaminarsi, (Chi ne ha la possibilità, al testo nella sua lingua originale, ma per carità senza quella pronuncia astrusa e incantabile degli accademici europei), vedere se questo produce in noi qualcosa e poi leccarsi le ferite, e così fare anche per le edizioni successive, fino a interiorizzare un significato che è inesprimibile in altro modo.
    Per questo esiste il teatro, perchè gli uomini possano fare esperienza del terribile senza finire in tribunale, condividere il sangue versato in un’identificazione con l’orrore meditandone la somiglianza con la propria anima.
    I miti, come le scritture sacre, non sono stati scritti da psicanalisti che dovevano intortare il lettore vendendogli degli archetipi differiti, le scritture antiche e le rappresentazioni sono il modo naturale di esprimere le cose.
    Dove queste cose si sono espresse con più forza oggi parliamo di arte, ma nell’antico anche riempire un vaso era arte e la vita intera conosceva l’arte appropriata per ogni cosa.
    Tra una guerra e un’invasione.

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