SOSTIENE FERRONI

Ogni promessa è debito: ecco il testo del’articolo di Giulio Ferroni apparso ieri sul Corriere della Sera:

Non è questione di sinistra o di destra: non è solo la cultura di sinistra a essere diventata troppo corriva verso la «monocultura del bestseller», non sono le scelte di questo o di quello (a destra come a sinistra), ma è tutto l’attuale orizzonte della comunicazione a cancellare ogni discrimine o gerarchia, a confondere ruoli e valori, ad annullare le distinzioni pur necessarie tra la cultura che conta davvero, che dice qualcosa di essenziale sul mondo (quella che in una lezione del 2 febbraio è stata appassionatamente difesa dal maestro Riccardo Muti), e le forme di intrattenimento più o meno abili, i prodotti ben confezionati e di grande circolazione. Comunque non c’è niente di male se certi disinvolti autori vedono lievitare i loro conti bancari, mentre i loro bestseller danno sostegno essenziale ai bilanci delle case editrici: perfettamente legittima è l’esistenza della letteratura «di genere», di quella che un tempo veniva chiamata «paraletteratura», e che oggi però non chiamerei «popolare», sia perché in fondo il «popolo» non esiste più, sia perché questi prodotti non si appoggiano su quella che un tempo era la morale «popolare», ma su modelli artificiali, su manipolazioni di schemi e simulacri ricavati dai media e non da concrete esperienze (non c’entra niente il nazionalpopolare di Gramsci evocato da Sanguineti).
Fino a poco tempo fa lo spazio di questi fenomeni veniva riconosciuto nei suoi giusti limiti, senza che si pretendesse di porli al centro della scena, senza che essi arrivassero a sottrarre spazio alla letteratura più sofferta e ambiziosa: e per questo era possibile che qualche autore «di genere» (come Greene, Chandler, Hammett, Simenon, ecc.) raggiungesse risultati di alta qualità e di grande forza letteraria. Oggi il dominio dei bestseller giunge ad annullare la presenza di una letteratura che miri più in alto, con gravi riflessi nella politica delle case editrici, che sembrano rinunciare a priori a promuovere opere di qualità (anche se va riconosciuta una certa attuale debolezza della letteratura che vuol essere «di ricerca»: quasi sempre essa resta marginale, asfittica, incapace di cercare l’essenziale).
Il compito di indicare le differenze, di educare il pubblico a percepirle, spetterebbe comunque alla critica e alla scuola: ma la prima ha rinunciato ai suoi compiti tradizionali, oscilla tra arzigogolati formalismi ed esteriori funzioni promozionali; la seconda è sempre più subalterna alle proposte del mercato e della pubblicità, con tanti bravi professori ben contenti di sostituire Dante e Leopardi con incontri con autori di bestseller (specie se noti per via televisiva).
La caduta delle gerarchie è del resto frutto dell’onda lunga delle neoavanguardie, che, nella loro negazione della tradizione hanno prima percorso la strada dell’oscurità e del rifiuto della comunicazione, e poi, dopo aver preteso di far piazza pulita di una letteratura rivolta a dire delle «cose», ad interrogare riconoscibili esperienze, sono passate sul versante opposto dell’esaltazione di forme artificiali, all’incanto della cultura di massa, all’epifania delle merci e del consumo: dall’opera aperta all’opera di plastica, dalla contestazione della comunicazione all’espansione pubblicitaria (tendenze che variamente si intrecciano in tutte le attuali derivazioni postavanguardistiche).
Qui si riconosce un profondo nichilismo, indifferente ad ogni memoria e ad ogni valore, immerso nel flusso di un presente cieco ed indeterminato: e molti sono gli intellettuali che sembrano compiacersene in una cupa brama di degradazione, quasi nella gioia di veder punita e depressa la cosiddetta cultura «alta», quella che richiede meditazione, lentezza, che
mette in questione certezze e posizioni assestate, senza mai lasciare tranquilli e soddisfatti.

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