Va bene, partiamo dal secolo scorso, quando la citazione delle opere altrui aveva lo status di arte: a volte per convinzione intellettuale che le avanguardie non potessero più dire niente di nuovo, in altri casi perché riassemblare in forma diversa le creazioni di altri le restituiva a nuova vita. L’elenco sarebbe lungo, ma mi limito a ricordare che negli anni Ottanta e Novanta il linguaggio culturale si fondava sul “furto”. Furto visivo: i graffiti fiorivano su muri e negozi che appartenevano ad altri, trasformandoli in altro. Furto della musica: il rap italiano, la musica delle “posse”, era costruito su una base campionata, rubata, cioè, da produzioni altrui e rimontata in modo originale.
Nei romanzi, inoltre, si citava eccome. Un personaggio prendeva vita grazie alla musica che ascoltava, ai libri che leggeva e che, appunto, rievocava, o ai film di cui riportava un frammento di dialogo. Ovviamente, citando la fonte. A volte la citazione era nascosta, come in un invito al lettore a inoltrarsi nel labirinto. Lo fece Antonio Scurati, autocitandosi ne Il padre infedele e Il bambino che sognava la fine del mondo, ma anche Umberto Eco si è divertito molto nei suoi romanzi.
Era, appunto, una forma di connessione, secondo la quale i romanzi si ispiravano alla musica e viceversa: Jennifer Egan intitolò quello che da noi è stato tradotto come Il tempo è un bastardo, A visit from a Goon Squad, che è una canzone di Elvis Costello. Ma Vasco Rossi ha scritto Ti prendo e ti porto via ispirandosi, anche, al romanzo di Niccolò Ammaniti, e Almost Blue è un brano di Chet Baker e il titolo di un fortunatissimo romanzo di Carlo Lucarelli.
Ecco, non si può più fare.
Domenica mattina, a Intermittenze a Riva del Garda, proprio Carlo Lucarelli e io ne abbiamo parlato pubblicamente, auspicando che la discussione si ampli. Volete citare una strofa (una) di una canzone? Non potete, vi dirà l’ufficio diritti della casa editrice, oppure potete ma bisogna pagare cifre spropositate alle case discografiche ed è meglio evitare. Volete inserire una o due righe, ovviamente citando l’autore e il titolo e pure l’edizione, di un testo che per la storia è indispensabile (almeno secondo voi)? No. Bisogna chiedere i diritti, anche di quella riga, e dunque è meglio la parafrasi. E l’esergo? I miei amati esergo da cui tanto, a mio parere, si capisce del libro? Chiedere i diritti pure per quello. Oppure scegli un testo fuori diritti e lo ritraduci tu, se conosci la lingua.
Succede a Lucarelli, succede a me, succede a un numero enorme di scrittrici e scrittori che, prima, non si erano mai posti il problema, convinti com’erano, e sono, che lo scambio vicendevole giovasse a tutti, nel rispetto ovviamente della fonte, che deve essere citata sempre: non vi viene voglia di leggere quel determinato libro di cui si estrapola una frase, o di ascoltare quella canzone che per il personaggio è rivelatrice?
Pare che non conti.
Dunque, iniziamo a parlarne: non era così fino a non molto tempo fa, ora lo è sempre di più. E privati della possibilità di evocare musiche e poesie, gli autori e le autrici si ritroveranno, magari, davanti a uno specchio, citando solo frammenti della propria vita, per non sbagliare.
E’ un problema, eh.
È un importante problema. La letteratura a compartimenti stagni. Nulla entra e nulla esce. Che sia semplicemente uno specchio di un’umanità sempre più arrotolata su stessa e chiusa alla condivisione in un maldestro e illusorio tentativo di difesa dei propri interessi personali?