STATI GENERALI DEL GENERE: ALESSANDRO VIETTI E IL GENERE DI SCHROEDINGER

Sono anni che su questo blog provo a riflettere di quanto poco senso abbia la definizione netta di genere, e di quanto fra gli atteggiamenti spesso ostili di mainstream e genere “esplicito” possa esistere una terza via. Ecco, l’intervento di Alessandro Vietti agli Stati Generali del Genere è esemplare da questo punto di vista. Tutto vostro.

 

 

LA FANTASCIENZA DI OGGI E DI DOMANI

Vorrei cominciare questo mio intervento partendo da un aneddoto.

Genova. Mercoledì 26 ottobre 2016. Siamo nella Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale, uno degli spazi istituzionali più belli e prestigiosi della città. Trecento posti a sedere riempiti in un soffio e c’è chi è costretto a rimanere in piedi. Ovviamente ci sono anch’io. Quando mai mi ricapiterà di vedere Don DeLillo nella mia città? È una tappa del suo tour europeo di presentazione di Zero K e si percepiscono nell’aria quelle vibrazioni tipiche dell’evento eccezionale.

Poi DeLillo arriva e si sistema al centro. Insieme con lui ci sono l’interprete e il moderatore, lo scrittore Francesco Pacifico.

 

Credo abbiate sentito tutti parlare di Zero K, dunque sapete che il titolo si riferisce allo zero termico assoluto, ovvero ai -273 °C, e che la storia ruota intorno all’idea della criogenesi, ovvero della tecnica di ibernazione dei corpi in attesa, diciamo così, di tempi migliori. Va detto che, pur essendoci già chi ha speso (e spende) un bel po’ di quattrini per farsi ibernare, l’idea dell’ibernazione è sempre stata un tipico territorio della fantascienza, anche perché non mi risulta che qualcuno sia mai stato scongelato con successo. Pacifico naturalmente lo sa bene, e difatti, a un certo punto, la sua domanda al buon DeLillo scaturisce quasi spontanea, per certi aspetti ovvia, perfino ingenua se volete. Non ricordo le parole esatte di Pacifico, ma ricordo che suonò più o meno così.

“Quindi Zero K è un romanzo di fantascienza?”

DeLillo lo guarda e risponde: “No.”

Ricordo bene che DeLillo quella sera era già stato piuttosto lapidario nelle risposte, non so se si trattasse di una condizione temporanea o per timidezza, o per una sua effettiva attitudine a lasciare per lo più alla parola scritta il compito di parlare per lui, quindi quella è stata solo una delle tante risposte un po’ tranchant, ma a quel punto io non sono riuscito a evitare di sentire dentro quel monosillabo, non solo una semplice negazione, ma anche una certa vibrazione d’offesa per l’accostamento del suo lavoro alla parola che inizia con la S (science-fiction in inglese). E mi è rimasta l’impressione che anche Pacifico abbia avuto quella sensazione, perché si era affrettato a cambiare discorso. Ovviamente non è detto che sia così. Nessuno sa davvero che cosa frullava per la testa a DeLillo in quel momento, ma in fondo non è così importante il perché l’ha fatto, ma solo che l’abbia fatto.

Ora, lo sapete anche voi, DeLillo non è l’unico a essersi smarcato dalla fantascienza pur avendone scritto. In tempi recenti lo ha fatto per esempio anche Ian McEwan all’uscita di Macchine come me e in tempi meno recenti Kurt Vonnegut aveva preso malissimo il suo essere stato incasellato nel genere. Ma non tutti la pensavano e la pensano così.

Nella nota iniziale al suo romanzo Shikasta, uscito nel 1978, e che a lei piaceva inserire nel genere “space fiction”, Doris Lessing, premio Nobel per la Letteratura nel 2007, scriveva:

 

Mentre tenevo una conferenza negli Stati Uniti, la professoressa che presiedeva i lavori, la cui unica colpa consisteva nel fatto che forse si era nutrita troppo a lungo delle giaculatorie dell’accademia, mi interruppe esclamando: «Se lei fosse una mia studentessa, non la passerebbe liscia!» Stavo affermando che il romanzo dello spazio, assieme alla fantascienza, costituisce il ramo più originale della letteratura contemporanea: è ingegnoso e ricco di invenzioni; ha reso più vivace ogni forma di scrittura; gli accademici e i sapientoni che si occupano di letteratura sono assai da biasimare per la loro condiscendenza o ignoranza – ma, naturalmente, questa è la loro natura, da loro non ci si può aspettare nient’altro. Questo punto di vista mostra i segni di ciò che è diventato un luogo comune. Penso davvero che sia molto sbagliato l’atteggiamento di chi pone su uno scaffale un romanzo ‘serio’ e su un altro Infinito (Last and First Men) di Olaf Stapledon.” E più avanti Lessing aggiunge: “Sono stati loro, gli scrittori dei romanzi dello spazio e della fantascienza, ad aver ricoperto il ruolo indispensabile e (almeno all’inizio) ingrato di un figlio illegittimo, disprezzato, il quale può permettersi di dire quelle verità che i rampolli rispettabili non osano pronunciare, o – è ancora più probabile – di cui non si accorgono, proprio a causa della loro rispettabilità. Sono stati sempre loro a esplorare le letterature sacre del mondo con la stessa audacia con cui portano le possibilità della scienza e della società alle loro logiche conclusioni, in modo che noi possiamo esaminarle. Che debito immenso abbiamo tutti noi nei loro confronti!

 

Dico tutto questo per sottolineare che, a dispetto delle annose recriminazioni che si sentono spesso sollevare in Italia, specialmente dagli autori, di come sarebbe mal considerata la fantascienza nel nostro Paese, in realtà la fantascienza è sempre stata mal considerata anche altrove, persino nei suoi ambienti tradizionalmente d’elezione come quelli anglofoni, perché ovunque la fantascienza è un genere di nicchia e cambia solo la proporzione rispetto alla stanza in cui si trova. In Italia è la rientranza di uno sgabuzzino delle scope, nel mercato di lingua inglese è la grande nicchia dentro un salone triplo con vista sull’oceano. Dunque per questo una delle domande che ricorrono a tale riguardo in Italia come un mantra ossessivo è: come possiamo cercare di uscire dalla nicchia (o ingrandirla)? Ebbene, io credo che la domanda sia sbagliata.

Del resto, come DeLillo, ci sono molti grandi autori moderni o contemporanei che si sono cimentati e si cimentano all’interno della fantascienza e hanno dimostrato che è possibile farlo, ma sempre senza dirlo. Sono quei libri che in Italia escono per editori generalisti sui quali la parola fantascienza non compare. Gli esempi sono moltissimi. Il complotto contro l’America di Roth è una tipica ucronia; La strada di McCarthy è un post-apocalittico; Non lasciarmi di Ishiguro è una storia di clonazione umana; Sotto la pelle di Faber parla di un’invasione aliena; Macchine come me di McEwan è un’altra ucronia, ma stavolta sulla tecnologia dei robot; Il cerchio di Eggers è un romanzo cyber alla Black Mirror; Mare della Tranquillità di Emily St. John Mandel è una storia sui viaggi nel tempo; giusto per citarne alcuni, senza scomodare i vari Pynchon, Lethem, Chabon, come pure Orwell e Huxley. Per restare in Italia, non possiamo dimenticare Le cosmicomiche, Il grande ritratto, Lo smeraldo, Cancroregina, Belmoro, i romanzi di Morselli o i racconti di Primo Levi.

 

Ovviamente di titoli di questo genere ce ne sono a decine, come avete visto non solo dentro la contemporaneità. E tutti quei titoli stanno lì a testimoniare che da molto tempo esiste una fantascienza differente, un genere letterario che pur nuotando nella piscina del genere, è come se indossasse un costume diverso. Più legittimo? Più autorevole? Più letterario? Più colto? Più impegnato? Forse un misto di tutte queste cose. Ma qualsiasi cosa sia non viene chiamato fantascienza. Anzi, forse il paradigma più importante è che proprio nemmeno si tratta di fantascienza, o perlomeno da moltissimi non è percepita come tale. Eppure lo è.

Siamo quindi forse di fronte a opere di una specie di “genere di Schroedinger”, che quindi sono sia fantascienza sia mainstream, almeno fintanto che qualcuno non si mettere a leggerle, e cadono da una parte o dall’altra a seconda dell’osservatore/lettore?

Chi conosce un po’ di storia della fantascienza sa che le cose non sono sempre state così, e che spesso, come nei casi che ho citato prima, è sempre stato merito del prestigio e del credito letterario dei singoli autori, riuscire a far apprezzare opere fondamentalmente fantascientifiche all’interno del contenitore generalista, ovvero anche dal lettore generalista. C’è chi ci è riuscito fin dal principio, un esempio relativamente recente è quello del grande Valerio Evangelisti, forse il primo esempio in Italia di chi, provenendo dal genere, si è imposto all’attenzione di tutti, e chi invece magari è riuscito a sfondare la barriera dopo anni di permanenza nella trincea della nicchia, mi viene in mente ad esempio Philip K. Dick.

Però l’impressione mia è che negli ultimi anni le cose stiano mutando e che questo fenomeno stia diventando sempre più diffuso, accentuato e, soprattutto, (ed questa è la grande novità rispetto al passato) smarcato dall’autorevolezza o dalla popolarità pregressa degli autori. Stiamo infatti assistendo sempre più all’esistenza di due tipi di fantascienza, quella – lasciatemi passare il termine – “esplicita”, cioè che si autodefinisce tale e resta appannaggio degli editori o delle collane specializzate, e quella invece “implicita”, che è fantascienza eccome, ma non si dice, né si scrive, e sempre più spesso trova posto anche nelle collane di editori generalisti. E hanno tutta l’aria di essere due facce di una stessa medaglia che non possono essere osservate contemporaneamente.

E se molti di quelli che stanno nella parte di campo della fantascienza “esplicita” reagiscono spesso un po’ piccati, perché pensano che siano solo la negazione dell’etichetta e l’ostentazione del marchio generalista a garantire l’uscita dalla nicchia e dunque una platea di lettori molto più ampia, le cose non stanno così. Le differenze tra le due facce del genere ci sono, e probabilmente molti di voi già hanno idea di quali siano o possano essere. Dunque non è questa la sede per analizzarle.

Ma è evidente che questo fenomeno sta accelerando e si sta diffondendo, perché la scienza e la tecnologia, catalizzatrici del genere nel loro rapporto con la società, a loro volta stanno accelerando e si stanno diffondendo, permeando sempre di più una realtà che, almeno da trent’anni a questa parte, è sempre più fantascientifica. Prima c’è stato Internet che di fatto ha ucciso definitivamente il cyberpunk, oggi abbiamo le Intelligenze Artificiali che sono già in mezzo a noi. E se invece vogliamo scrivere di un fenomeno come l’antropocene e il cambiamento climatico, ovvero qualcosa che interessa il nostro futuro da qui a cinquanta o sessant’anni, è evidente che dobbiamo affidarci alla narrativa del futuro.

 

E qui, attenzione, parliamo della realtà, parliamo di temi dai quali la narrativa di oggi non può prescindere se vuole essere realistica, se vuole affrontare le contraddizioni, i drammi, le difficoltà, le sfide globali e umane dell’oggi e del domani.

 

Così, sono certo che vedremo sempre più fantascienza dentro la narrativa generalista. Forse i distributori o i librai vorranno trovare una nuova etichetta per identificare il ripiano dello scaffale, visto che – almeno mi auguro – non potrà essere distopia. E in effetti una c’è già ed è speculative fiction. Ma forse semplicemente una delle facce della fantascienza conquisterà (o colonizzerà) il mainstream, o almeno una parte di esso, e non ci sarà bisogno di inventare alcunché, ma lasciare che l’espressività, la sensibilità, la creatività, l’immaginazione degli autori, ma anche il mercato (perché ci piaccia o no anche quello c’è e conta), facciano il loro corso senza opporsi a quella che credo sia un’evoluzione naturale già in atto, evitando dunque inutili battaglie di retroguardia tipo “fantascienza o morte”, che in fin dei conti tradiscono la natura progressista e il mandato immaginativo di quel modo di fare letteratura che a noi piace comunque chiamare “fantascienza” al di là delle etichette sugli scaffali, di quello che c’è scritto, o non c’è scritto, sui risvolti di copertina, e di quale faccia della moneta fantascientifica si decida di esplorare, una faccia che gli autori sono e saranno chiamati sempre più a scegliere con consapevolezza.

 

Perché chi conosce questo genere e ha seguito con attenzione il suo sviluppo in Italia almeno in questi ultimi dieci anni, sa che mai come oggi è vivo e consente possibilità che erano precluse fino pochi anni fa ed è ancora in costante ascesa. Come diceva Doris Lessing, mai come questa epoca complessa ha bisogno dei suoi strumenti e della sua ricchezza per essere descritta e analizzata. Mai come questi tempi difficili hanno bisogno di una narrativa ambiziosa, coraggiosa, sperimentale e ricca, ricca di immaginazione. C’è un genere che può fare tutto questo e io credo che lo farà sempre di più. Usiamolo.

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