STATI GENERALI DEL GENERE: MASSIMO CARLOTTO, IL POPOLARE, IL ROMANCE

Questo è l’ultimo intervento, almeno per ora, dagli Stati Generali del Genere. E’ di Massimo Carlotto e pone non poche questioni. Specie alla vigilia di una primavera dove sono annunciati molti romanzi che si presumono di qualità alta, e molti di quei romanzi, specie di scrittrici che per ora non nomino, si intrecciano strettamente con il genere, anche se non in modo dichiarato (per fortuna).
Per questo comprendo ma non concordo del tutto su quanto scrive Massimo Carlotto sul rosa: il rosa piace perché è analgesico. E’ vero, ma forse dobbiamo intenderci su cosa sia oggi il romance. Perché certo, ci sono i romance supervenduti che scivolano quasi sempre in una strada terribilmente consolatoria e purtroppo scontata, e per quello vendono. Ma forse all’interno di quello che definiamo romance si muove altro: e magari non riusciamo a vederlo, perché non lo leggiamo.
Su tutto il resto, condivido Carlotto parola per parola.

INTERVENTO DI MASSIMO CARLOTTO

Nel mondo si vende un romanzo rosa ogni due secondi, in Italia il settore rappresenta il quinto del fatturato in libreria, poi c’è l’edicola dove sbaraglia ogni classifica. Il rosa piace perché è analgesico: rassicura, semplifica la realtà, fa sognare e sperare che i problemi alla fine si aggiusteranno. Il romanzo rosa in realtà è espressione di una visione maschile della realtà. Difatti, può essere interpretato come la naturale evoluzione della favola di Cenerentola, ossia di una rappresentazione prettamente patriarcale della donna. Noi non lo leggiamo perché è dedicato a un pubblico di massa con un livello culturale mediamente basso che non conosciamo e non siamo in grado di comprendere appieno. Il genere rosa è profondamente ideologico, come lo è diventato, per altri versi e con altri fini (e con le dovute eccezioni), il romanzo poliziesco odierno.

E non è un caso. Nell’industria culturale, la letteratura di genere riveste un ruolo importante dal punto di vista produttivo e di mercato. Industria che ha due esigenze, la stabilità economica – e quindi prodotti verificati e sicuri  –  e  la certezza che i prodotti contribuiscano alla costruzione del consenso richiesti da questo modello di democrazia.

La necessità di non rischiare dal punto di vista economico obbliga le case editrici a contendersi quei pochi autori di successo (oltre le 50.000 copie) che assorbono investimenti importanti che depauperano i budget, e a introdurre in catalogo esordienti (in linea con gli autori di punta), perché sono alla ricerca perenne di successi, di autori che facciano il botto. Questo capita quando il mercato si regge sulla classifica e sui best seller. Di conseguenza la selezione dei romanzi di autori che hanno già pubblicato, soprattutto nella grande e media editoria, non si basa più sulla qualità ma sul venduto.

Se è basso, l’autore è fuori e può cercare di riciclarsi al massimo in circuiti meno blasonati. Altri più fortunati continuano a pubblicare facendo i conti con scarsi investimenti pubblicitari, di ufficio stampa e di presenza in libreria. Cioè come si dice in gergo: fanno catalogo. E nella realtà arrancano, l’autopromozione diventa una professione.

Di fatto il genere in Italia viene costantemente impoverito della necessaria pluralità di voci. Della diversità di punti di vista.

Ma è importante capire, per immaginare finalmente delle soluzioni, che questa dinamica è tipica di questo modello di industria culturale. A scrivere canzoni sono sempre gli stessi (guardate chi firma a Sanremo!), a scrivere sceneggiature per il cinema e per la televisione sono sempre quelli, del teatro non ne parliamo, e in editoria la musica non cambia. L’industria non rischia mai.

Ritornando al genere, il risultato è una narrazione omogenea, spesso di ottima fattura, che però tradisce identità e ruolo della letteratura. Una narrazione attenta alla tenuta di trama e magari alla perfezione del meccanismo, ma priva della necessaria capacità di raccontare il reale e cioè la relazione tra crimine e società che viene rappresentata in modo distorto.

Non a caso il genere nel suo complesso viene sempre più influenzato dal passato recente con una produzione esagerata di podcast, libri, autofiction, non fiction su vecchi casi di cronaca nera. Una bolla narrativa che depotenzia il genere, lo rende banalmente consolatorio e tendenzialmente noioso. I lettori sono pazienti ma non fessi, dopo un po’ si stancano e giustamente leggono altro.

I numeri sono così spietati che nelle case editrici, quando si pianificano le uscite si cerca di scoprire cosa farà la concorrenza perché i lettori bisogna contenderseli.

È evidente che il romanzo di genere ha subito mutazioni profonde. Un tempo si diceva che il genere in Italia fosse un enorme pentolone al cui interno sobbollivano idee, intelligenze, fermenti, sensibilità. Non è più così, il fuoco si è spento, la zuppa creativa si è raffreddata, gli autori hanno scelto perlopiù percorsi individuali. Eppure si continua a scrivere. Più di prima. E intorno alla scrittura si è sviluppato un mondo di figure pronte a correre in soccorso degli esordienti. Non so se avete notato che su Instagram esiste una vera e propria rete di proposte, più o meno miracolose, per scrivere romanzi di successo. Da un lato comprendo la necessità di inventarsi soluzioni economiche in un settore che offre sempre meno garanzie sulla possibilità di ricavare reddito, ma dall’altro non posso non cogliere la pericolosità di questa sorta di infezione che diffonde solo illusione e crea equivoci. E vittime.

Però anche questo è funzionale all’industria culturale perché crea un’offerta permanente che permette di scegliere l’esordiente su cui scommettere tra mille. Noi possiamo continuare a ripeterci che in realtà la letteratura per crescere avrebbe un disperato bisogno di approfondimento teorico, di dibattito, di buone scuole, di una relazione continua con la ricerca universitaria a livello europeo e gli autori di percorsi improntati al rigore, ma riguarda solo noi, appunto, quella minoranza decisa a tutelare un patrimonio, un’esperienza, l’idea preziosa dell’evoluzione, della sperimentazione.

La verità è che questo tipo di dinamiche non sono più correggibili. Modificabili. Inutile perdere tempo a tentare di cambiare le cose, ormai è tardi e lo dimostra il fatto che oggi non siano presenti in questa sala molti autori ed editori. Non sono interessati perché perfettamente in linea con le logiche dell’industria culturale, onestamente convinti che i la nostra sia una battaglia di retroguardia. Una scelta ben precisa che ovviamente rispetto, ma che non condivido.

E non la condivido al punto che oggi affermo la necessità di distinguere i percorsi.

Mi spiego meglio: l’editoria come articolazione dell’industria culturale coltiva obiettivi, ambizioni, adotta metodi e strategie ma al contempo vive tutta una serie di contraddizioni. Il percorso non è mai lineare e spazi reali dove sviluppare idee e progetti “altri” esistono.

È possibile praticare una controtendenza narrativa, o meglio irrobustirla perché ci sono autori, come quelli presenti oggi che la praticano da sempre. La letteratura crime deve recuperare il senso del reale, smettendo di fingere che il mondo non sia cambiato e introducendo nuovi argomenti. Il lavoro, l’ambiente, il patriarcato, il razzismo, la qualità della vita della gente (cosa mangia, dove abita, interrogarsi sui bisogni) e ancora il disagio umano, psichico che questa società produce. Mi soffermo ancora sul genere rosa. Ammetto che non lo conoscevo, ma incuriosito dalla scoperta che la madre della presidente del consiglio ne abbia scritto più di cento sotto pseudonimo, ho deciso di approfondire. Lo spessore ideologico e persuasivo dell’inganno che pregna la narrazione è impressionante, e obbliga a una maggiore consapevolezza sull’importanza del messaggio e a un’urgente riflessione sul significato di “popolare”.

In questo senso il crime dovrebbe tornare a esserlo nel senso più nobile del termine. Diventare di uso comune perché strumento necessario a comprendere il mondo, perché questo è il compito della letteratura che non deve consolare ma perturbare, seminare inquietudini, suscitare riflessioni, svegliare le persone con un sussulto, non addormentarle.

Se è troppo tardi per cambiare le logiche dell’industria culturale è anche vero  che autori e lettori che si riconoscono in questa analisi, possono decidere di confrontarsi in modo organico, elaborando teoria, proponendo una narrazione altra.

Dobbiamo dare corpo a questa tendenza, renderla riconoscibile. In modo che sia evidente la separazione di intenti narrativi da quella consolatoria, analgesica.

E ancora una volta è importante sottolineare che non si tratta solo di un ambito squisitamente letterario ma riguarda la libertà e la democrazia. Oggi più che mai, quando diritti, libertà individuali e collettive sono in discussione se non in pericolo, abbiamo bisogno di creare spazi di cultura e arte liberi e visionari in grado di intaccare l’idea dominante che la realtà non può subire cambiamenti.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Torna in alto