STATI GENERALI DEL GENERE: SARA VALLEFUOCO, IL ROMANZO STORICO, LA COMUNITA’.

Ancora dagli Stati Generali del Genere di Bologna. Parliamo di romanzo storico. Ne parla, anzi, Sara Vallefuoco, scrittrice (Neroinchiostro, ambientato nel 1899) e insegnante: che nel suo intervento fa una riflessione interessante sulla comunità.

IL ROMANZO STORICO

Sara Vallefuoco

Fin dal suo annuncio ho interpretato la giornata di oggi come la possibilità preziosa di uno scambio ragionato di passioni, e gli interventi ascoltati finora mi hanno confermato questa idea.

Perciò, con gratitudine verso chi ha accettato la mia proposta, sono qui per scambiare con voi, spero ragionevolmente e ragionatamente, la mia passione per il romanzo storico.

In questi ultimi giorni ho a lungo cercato un’immagine da regalarvi che potesse racchiudere il senso che ha per me il romanzo storico. Ne ho trovata una in movimento, parte di un’esperienza scolastica che ho condiviso qualche mese fa con i miei alunni di terza media.

Tutte le settimane trascorro con loro l’ottava ora del lunedì, dalle 15.45 alle 16.30, affrontando temi di storia del Novecento. Orario non facile, ma che proprio per la sua collocazione ci regala un margine di libertà che abbiamo imparato a tenerci caro. In un pomeriggio di tardo autunno, con i vetri già scuri per il tramonto imminente, siamo andati alla ricerca di fonti visive che potessero raccontarci la seconda rivoluzione industriale, e ovviamente innescare un dibattito che ci tenesse svegli. Ci è sembrato irrinunciabile uno spezzone di ‘Tempi moderni’ con Charlie Chaplin, per ragionare sulla vita in fabbrica e sulla catena di montaggio. ‘L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat’ dei fratelli Lumiere, è diventato un tormentone, 55 secondi in loop, non riuscivamo più a smettere, fin dal primo vagito tutta la potenza del cinema. Da ultimo, un filmato d’epoca a testimonianza della nascita dell’industria automobilistica: non ci si crederebbe, ma la storia dell’auto è un tema più apprezzato di altri alle quattro di pomeriggio. Questo filmato ve lo racconto, perché mi ha dato da pensare.

L’automobile in questione era uno dei primi modelli Benz, ‘Victoria’, in sostanza una carrozza con quattro grandi ruote da bicicletta, un rudimentale sistema di sterzo e una tendina graziosa come tetto. Percorreva una strada fuori città, con a bordo due uomini davanti e due donne dietro, vestiti a festa e molto sorridenti, nonostante i terribili scossoni che subivano. Sospensioni e strade asfaltate ancora di là da venire. Alla prima curva è stato evidente che tenere la direzione fosse la vera impresa da compiere. Dopo qualche metro l’auto ha cominciato a sbandare vistosamente nei pressi di una fattoria, è uscita di strada, ha alzato un polverone incredibile e ha centrato in pieno un recinto di cavalli. Lo steccato è venuto giù come un domino, i cavalli si sono imbizzarriti, il conducente con un’abile mossa di controsterzo ha ripreso il controllo ed è fuggito come un fulmine fuori dallo schermo. Fine del filmato. Be’, ci siamo divertiti.

Ci siamo messi nei panni del conducente: auto nuova, costata un occhio della testa, un amico danaroso e due signore con cui fare bella figura, e la gita finisce così, tutti più ammaccati di prima. Minimo, il fidanzamento con la ragazza sul sedile posteriore sarà saltato. E il suo amico? Sarà sceso con l’idea di un’invenzione infernale, o un di un futuro in cui ci sarebbe stato da divertirsi? Qualcuno ha osato la prospettiva dei cavalli imbizzarriti, trovatisi improvvisamente liberi. Saranno scappati?

Nessuno, ho considerato in un secondo momento, nessuno di noi si è chiesto chi avesse filmato la scena. Difficile pensare che l’autore se ne stesse andando in giro con una macchina da presa più grande di lui imbattendosi per caso in una situazione degna di nota. Non era proprio come tirare fuori lo smartphone e girare un video della prima cosa che ci attira. E allora? Perché si trovava lì? Era amico del conducente deciso a immortalare la sua prima prodezza sull’auto nuova? Oppure era amico di chi quell’auto gliel’aveva venduta, pronto a ricavarne pubblicità? Oppure non c’entrava niente né con il guidatore né con Benz, ed era lì per girare un filmato sulla vita nella fattoria, o sui cavalli, e all’improvviso l’arrivo dell’auto aveva fatto irrompere il progresso nelle sue intenzioni. Di sicuro, l’autore del girato è l’unico testimone che potrebbe fruttare un risarcimento a beneficio del fattore per lo steccato distrutto. A proposito del fattore, che nel filmato non si vede, ma non può non esserci in quella storia là: un gran polverone, un trabiccolo con le ruote che scappa verso l’orizzonte, lo steccato distrutto, i cavalli spaventati, e magari pure scappati. Un tizio che filma tutto. Gli sarà preso un colpo. Cosa si saranno detti i due?

A partire dallo stesso filmato, da ciò che oggettivamente nella fonte tutti abbiamo visto, ogni variabile che non si vede ci racconta potenzialmente una storia diversa.

Ecco, per me la forza del romanzo storico è questa: il raccontare la Storia Non Raccontata. Quella che nelle fonti c’è ma non si vede.

A un giornalista che le chiedeva cosa volesse realmente raccontare scrivendo una trilogia su un personaggio storico abbondantemente noto come Thomas Cromwell, Hilary Mantel con mirabile sintesi ha risposto: The Untold Story. La Storia Non Raccontata. Quella che resta nelle pieghe della storiografia.

Il romanzo storico non ci fa solo conoscere la storia, ce la fa abitare. Abitare vuol dire entrare a farne parte, ricevendo in prestito gli occhi di chi realmente c’era, o avrebbe potuto esserci. Abitare non vuol dire solo partecipare degli eventi e condividere oggetti, paesaggi e minutaglie della vita quotidiana di un’epoca. In un romanzo, per sua natura, abitarne la storia vuol dire soprattutto partecipare delle relazioni che tra i vari personaggi si creano.

Le relazioni tra persone sono sempre condizionate dall’epoca e da un certo sistema di valori. Il romanzo storico, a differenza di quello contemporaneo, ha assoluta necessità di ricostruire con evidenza per il lettore il sistema di valori della società in cui si ambienta la storia. Come faremmo altrimenti a cogliere quali personaggi si muovono in relazioni convenzionali, e quali invece tramano per farle saltare, mossi da inquietudini, ingiustizie subite, passioni inaccettabili (che di sicuro diventeranno i nostri eroi e le nostre eroine)?

È perciò fondamentale che il romanzo storico racconti prima di tutto una comunità.

A questo proposito, dopo tanti anni di frequentazione del genere, credo di aver imparato una lezione importante.

Ogni comunità nasce e si sviluppa su un sistema di valori condiviso, che normalmente desidera mantenere il più a lungo possibile, per garantirsi la sopravvivenza. Per fare questo, sceglierà accuratamente cosa raccontare della propria storia, e soprattutto sceglierà ancor più accuratamente cosa non raccontare. Ogni narrazione divergente, che ci mostra i punti in cui la storia dominante è deragliata, ci rivela che il sistema di valori fondante da qualche parte si è incrinato. Si prende atto del cambiamento di un sistema di valori all’interno di una comunità quando quella stessa comunità comincia ad accogliere altre storie, molteplici, anche divergenti, e progressivamente ad arricchire le vicende che racconta del proprio passato.

Al concetto di comunità si può dare il raggio che si vuole. Prendiamo il raggio più piccolo, la famiglia. La storia di una famiglia che ha fondato la sua esistenza, ad esempio, su un rigoroso cattolicesimo. Una bella saga familiare ottocentesca. Di sicuro la famiglia tramanderà con orgoglio le storie del prozio missionario e della cugina suora di clausura, mentre taglierà accuratamente la storia del matrimonio fallito del bisnonno con una giovane ballerina. Nessuno dovrà mai sapere che in realtà la cara bisnonna è la seconda compagna del bisnonno, con cui ha sempre convissuto more uxorio da quando la ballerina se n’era andata per seguire la sua vocazione artistica, e di fatto nessuno lo ha mai saputo: la comunità familiare ha perpetuato rigorosamente i propri valori fondanti, perché niente cambi. Ma fatalmente, c’è sempre un ultimo nipote, quello che in un momento di noia o forse di disperazione dà fondo alle carte di famiglia, e ritrova una foto seppiata e mangiucchiata ai bordi: il suo bisnonno, giovane, che dà il braccio a una ragazza bellissima in abito da sposa. Che non è la sua bisnonna. Tana libera tutti. Grazie al nipote, che indubbiamente potrebbe avere un futuro da romanziere storico, la storia di famiglia sta per deragliare.

Chi ha a che fare con la scrittura sa benissimo che la principale prerogativa delle storie è proprio quella di deragliare, e questo consente nel tempo la possibilità di far evolvere i valori cui far riferimento, in un’ottica di liberazione. La ‘tana libera tutti’ è liberatoria non solo per sé, ma per chiunque sia vivo in quel momento, che può raccontarsi una storia diversa del proprio passato, sicuramente più complessa; è paradossalmente liberatoria anche per chi non c’è più, che viene riletto da chi resta in un’ottica nuova, forse perfino più empatica. Un’immaginazione ben nutrita è la prima via per l’empatia, e di poche cose c’è bisogno al mondo come dell’empatia.

C’è da dire che chi opera questa liberazione nella realtà spesso paga sulla propria pelle: il cambiamento di narrazione di un passato collettivo è un processo che può venire ostacolato anche duramente da chi tiene le redini della narrazione dominante. Be’, tutto questo il romanzo storico lo mette in scena, ce lo fa abitare, donandoci la pluralità di sguardi, restituendoci complessità, aiutandoci a riscrivere nuovi capitoli del passato, magari relativo alla comunità più allargata di cui facciamo parte. Ad esempio, la storia del popolo cui sentiamo di appartenere. Nel mio caso, penso a certa narrazione ancora dominante della storia d’Italia.

Nutro profonda gratitudine per i romanzieri che hanno saputo restituire complessità a narrazioni dominanti semplificate e semplicistiche di momenti tragici e complessi, come il colonialismo in Africa, come le storie di migrazione nelle Americhe, come le storie di Resistenza, di emancipazione femminile e delle minoranze. Spesso la Storia Non Raccontata è una storia che appartiene alle minoranze e al dissenso, a chi nelle fonti c’è, deve esserci per forza, ma per vari motivi non si vede.

Nutro profonda gratitudine per quei romanzi storici che mi hanno aiutato a costruire un diverso habitus mentale, grazie al quale riesco a vedere anche il presente nell’ottica di una maggiore complessità, a cercare anche nel presente le Storie Non Raccontate, a essere consapevole che una Storia Non Raccontata c’è sempre da qualche parte, e merita attenzione.

C’è da dire che sono una persona nata con gli occhi rivolti al passato. Magari mi sbaglio, ma secondo me si può nascere con tre tipi di sguardo: rivolto al passato, al presente o al futuro. Alcuni fortunati sanno usarne più di uno. Io faccio parte senza dubbio della prima categoria. Il presente per me è sempre un po’ sfocato, per quanto mi sforzi provo spesso una sensazione di lieve disadattamento, e sento più il bisogno di tacerne che di parlarne. Il futuro, lasciamo perdere. Abitare il passato attraverso i romanzi storici mi aiuta a cogliere la complessità del periodo in cui vivo, mi dà strumenti che in maniera spontanea non avrei. Mi aiuta a starci dentro.

Sono grata al romanzo storico perché mi suscita domande che hanno molto a che fare con il presente: la mia comunità, la nostra comunità, quali storie sta raccontando di se stessa? Il pensiero dominante, volto a cristallizzare un sistema di valori che viene dal passato, quali storie non sta raccontando? Quali sono invece le storie, anche scomode, che abbiamo il diritto e il dovere di raccontare per restituire complessità alle nostre vite, in un gesto liberante e liberatorio?

C’è chi dice che scrivere di epoche passate sia più facile, perché il passato è stabile, fermo, cristallizzato, mentre il presente ci cambia sotto i piedi già mentre ne parliamo. Non sono d’accordo. Chi abita romanzi storici impara facilmente che il passato è in continuo divenire, muta al mutare delle storie che lo tramandano, come la conoscenza di noi stessi muta a seconda delle storie che su di noi ci raccontano o ci raccontiamo (o non ci raccontiamo).

Una lezione per me impagabile.

 

 

 

 

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