STATI GENERALI DELL’IMMAGINAZIONE: DANIELE VICARI E FILMARE IL PRESENTE

Oggi l’intervento dagli Stati Generali dell’Immaginazione è di un regista, Daniele Vicari. A dimostrazione che la questione è ampia, e riguarda ogni settore (non solo QUEL settore là di cui ci si continua a lamentare in rete, magari andando ad ascoltare la giornata di domenica solo per poterne spettegolare: il suicidio perfetto). “Non abbiamo scelta”, scrive Vicari. E’ vero.

 

È difficile filmare il presente, meglio scriverlo?

Il titolo del mio intervento potrebbe sembrare una resa pronunciato da un regista, in realtà dico subito che nel mio intento quel punto interrogativo spinge all’esatto opposto.

La diffusione sociale degli strumenti di ripresa annega in un gioco di specchi il nostro rapporto con il quotidiano e con il presente storico, rendendolo per certi versi indecifrabile perché fuggevole, cangiante e confuso, basti guardare quella sorta di specchio rotto che è il web per rendersene conto, dove il rispecchiamento del reale è, appunto, fatto di schegge praticamente incomponibili. Per paradosso scrivere, sul piano della interpretazione del mondo, potrebbe rivelarsi meno distorcente del filmare, proprio per la necessaria presa di distanza che la scrittura impone.

Quindi il vero tema della mia breve riflessione è questa “necessaria presa di distanza” per massimizzare la “restituzione” e anche per personalizzarla fino a produrre eventualmente una trasfigurazione poetica del tutto soggettiva e persino autonoma dal cosiddetto “reale”.

Per molti decenni, il dibattito teorico sul cinema, soprattutto sulla scorta della posizione filosofica di alcuni critici francesi a partire da Bazin e su una certa attitudine del cinema documentario che non a caso viene definito “cinema diretto”, ha impresso alla pratica del filmare una sorta di imperativo morale, che vede nell’immersione nel reale e nel “rispetto” del profilmico l’unico atteggiamento che si possa definire legittimo, moralmente condivisibile. Lo so, nel cinema succedono anche queste cose strane, ma la rappresentazione fotografica e filmica di persone “reali” solleva quesiti etici e persino legali.

Ora, con la diffusione massiccia dei mezzi di ripresa, e la coscienza sociale che si sta assestando intorno ad una forma diffusa di autorappresentazione e auto-narrazione di cui il selfie è l’esemplificazione più chiara, che non a caso influenza anche la Letteratura con la L maiuscola, e che alcune case editrici perorano e richiedono agli scrittori e alle scrittrici, rende ineludibile la questione del “posizionamento” di chi per mestiere e vocazione fa il narratore, che sia un regista o uno scrittore, e costringe tutti noi ad un salto di qualità.

La “presa diretta”, il “partito preso delle cose” detto poeticamente, non sono più privilegio di chi di mestiere “coglie la vita sul fatto”. Ora tutti coloro che riprendono istintivamente ogni cosa, colgono la vita sul fatto con maggiore immediatezza di chi si sveglia al mattino con il proposito di farlo, bene organizzato con operatore e fonico, per arrivare puntualmente in ritardo sugli accadimenti.

La domanda sorge spontanea: serve ancora chi osserva e nella immediatezza racconta? Perché lo scarto tra chi vive riprendendo e chi riprende vivendo non è più così chiaramente decifrabile, apprezzabile.

L’unico vero privilegio di chi vive riprendendo (il narratore di “mestiere”) rispetto al suo omologo sociale che riprende vivendo è la funzione chi si auto attribuisce il ruolo e quindi si ripropone di rifletterci su, elaborarlo e restituirlo secondo un punto di vista “altro”.

Per esperienza diretta io ho dovuto per esempio pormi il problema di quale strumento usare per raccontare una storia “realmente accaduta”. Quasi per caso, prendendo appunti su quell’avvenimento, elaborando nella scrittura le testimonianze, i fatti, le suggestioni, mi sono reso conto che quasi senza volerlo stavo scrivendo un libro anziché il trattamento di un film documentario.

Il libro è Emanuele nella battaglia, che è nato in quello spazio che mi sono preso, nell’intervallo tra la vita vissuta e la mia testimonianza scritta si sono insinuati i miei impulsi creativi, trasfigurando il racconto in un dramma familiare, una tragedia sociale, in una rappresentazione “scenica” che guarda un po’ alla tragedia greca e un po’ alla sceneggiatura di un film sperimentale, mescolando racconto, saggio, resoconto, cronaca, analisi filmica, sceneggiatura, racconto letterario. Insomma una cosa che non è un esattamente romanzo.

Una pastiche quasi impossibile con il linguaggio cinematografico, o meglio molto difficile. Per questo scrivere questo libro spurio e irregolare mi ha fatto fare domande radicali sul mio modo di intendere il cinema.  E chi conosce i miei film sa che questa domanda mi guida ogni volta verso diversi sentieri. E qui torna la domanda: è difficile filmare il presente, meglio scriverlo? Credo che la risposta per me sia il percorso che bisogna fare per essere un uomo del mio tempo. Niente di più e niente di meno di questo sto tentando di raccontarvi.

Non so bene cosa significhi raccontare questa esperienza a voi che siete degli scrittori, l’esperienza di un dilettante della scrittura quale o sono, ma voglio farlo anche per misurare palmo a palmo la distanza che sento crescente tra noi che raccontiamo storie con il cinema, i fumetti, la letteratura e anche le canzoni, e l’attitudine dei lettori e degli spettatori a scrivere a filmare raccontandosi. Credo che se non prendiamo seriamente in considerazione questa crescente marea di racconti autoprodotti dagli “utenti” della rete, dai miliardi di possessore di smartphone, non riusciremo a capire quale sia in questo nuovo strano mondo il nostro ruolo. Questo per me è l’abc dell’agire “politico”, da qui bisogna ripartire, perché quello “scaffale ipotetico” a cui Calvino faceva riferimento rispondendo alcuni decenni fa ad una inchiesta intitolata “Per chi si scrive?” sarà talmente pieno che le nostre opere non riusciranno ad entrarci o quantomeno a distinguersi dai “content” prodotti per il web, uno di questi ha raggiunto recentemente le vette nelle classifiche di vendita dei libri, indicando chiaramente il punto di crisi di cui sto parlando. Si tratta di ridefinire il rapporto tra autori e società, una cosa gigantesca che farebbe tremare le vene ai polsi anche ai grandi geni del passato.

Insomma quella che abbiamo davanti è una sfida sì al sistema delle arti, dell’editoria, della politica, e alle nostre pigrizie, frustrazioni, disperate visioni… e dovremo per forza essere all’altezza, non abbiamo scelta.

 

Daniele Vicari

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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