Qualche giorno fa si è confutata qui l’idea che la narrativa per ragazze e ragazzi sia solo ed esclusivamente fantastica. Da qualche anno a questa parte (lo affermò Aidan Chambers nel 2015), si volge invece al realismo. Ed è, credo, un rischio. Mi colpisce, infatti e non da oggi, la progressiva somiglianza con le tematiche della narrativa adulta. Romanzi storici. Romanzi con al centro la famiglia, che raccontano crisi esistenziali, e così via. È ovvio che non ho nulla contro il realismo, e che la narrativa per under 18 è di ottimo livello comunque: però è strano che il canone dominante predomini anche in un territorio che da sempre ha lasciato spazio al fantastico, addirittura finendo per farlo coincidere con le storie per giovanissimi (grave errore). Ora, come diceva Ursula LeGuin, dominante non significa sempre e comunque qualitativamente superiore: anzi.
Dunque, lascio la parola a un’autrice per ragazze e ragazzi, Luisa Mattia, sempre dagli Stati generali dell’immaginazione di Bologna.
“Scrivere per l’infanzia e per l’adolescenza significa scrivere per raccontare. Più semplicemente, significa narrare storie. Grandi storie (sottolineo l’aggettivo) per lettori esigenti, rigorosi, spietati.
In genere, durante gli incontri con i bambini e ragazzi lettori, tra le molte osservazioni e curiosità state sicuri che ne emergeranno – più prima che poi – due, così sintetizzabili:
- Ma questa storia è vera, cioè, è successa davvero?
- E tu, li conosci questi personaggi?
Sono curiosità che io chiamo “domande di assestamento” e anche il chiaro segnale (per chi, come me, da anni scrive per lettori giovani) che il libro è piaciuto, li ha coinvolti, li ha emozionati, fatti arrabbiare, forse. Di certo, non li ha annoiati.
Perché i giovani lettori chiedono conferma e meno che la storia sia “vera”? È un modo diretto, limpido per sapere se hanno di fronte qualcuno che gli somiglia, cioè capace di immaginare, sognare, inventare, costruire il meraviglioso mondo, allo stesso tempo vero e bugiardo, della narrazione. E se il narratore è alla loro altezza oppure no.
L’altezza che bisogna raggiungere quando si scrive per bambini e ragazzi è davvero alta alta e, in certi casi, può perfino dare le vertigini. Ed è bello così perché i giovani lettori chiedono storie e, lo sappiamo, le storie azzardano, complicano, svelano, immaginano, anticipano, modellano la realtà.
Le storie emergono dal mare, scalano le montagne, scendono nel profondo dei sentimenti e delle emozioni, scuotono, tolgono il fiato, lavorano nel pensiero e nella profondità dei sentimenti, rivelano fragilità, chiamano paura la paura e amore l’amore. Soprattutto non si piegano su sé stesse.
Quando sono buone, le storie hanno una trama e aprono porte sconosciute anche allo scrittore che le rincorre, prova a governarle, le scopre, le rinnega, torna a cercarle e si perde felicemente nella storia che racconta. È certo che ci sarà anche la sua esperienza, la sua sensibilità, il suo approccio alla vita, in quella storia, ma sarà tutto cucito nella rete colorata della narrazione.
I bambini e i ragazzi lo sanno, difatti non domandano “Chi sei?” ma chiedono “Che storia racconti”? E solo dopo aver letto, dicono “Mi piace quello che scrivi. Quale altra storia stai provando a raccontare?” Avendo lettori così esigenti, è inevitabile che l’ego dell’autore – sempre un po’ vanitoso –debba fare un passo indietro e dedicare attenzione, più che alla propria gratificazione alla storia che vuole raccontare e alle parole necessarie a farlo. Parole, frasi, ritmo: tutto ha senso se la storia domina.
E che ne è dell’autore? C’è ma è dietro le quinte e patisce, gioisce, si rallegra o piange come se quella storia accadesse lì, proprio in quel momento, e lui ci fosse dentro, senza sapere come andrà a finire.
Se si sta sempre in compagnia di sé stessi, la storia soffoca, la noia cresce, le parole sbiadiscono. È un “vizio” che sta cominciando a lambire anche la narrativa per ragazzi. L’ “autofiction” un po’ intossica.
Sarebbe utile e bello e, di certo, un’occasione di creatività, invitare l’autoreferenzialità autoriale a sedersi in compagnia di una buona storia, scritta – necessariamente – da qualcun altro, tanto per evitare di specchiarsi troppo a lungo nelle acque di Narciso.
Ci vediamo là? “