STATI GENERALI DELL’IMMAGINAZIONE. MASSIMO CARLOTTO: LA RESA DELLA CULTURA ITALIANA

Proprio in questi giorni? Sì, proprio in questi giorni. In giorni di polarizzazioni, di impossibilità di discutere, di dimissioni e licenziamenti e censure. E di silenzi. Dagli Stati Generali dell’Immaginazione l’intervento di Massimo Carlotto. Da leggere e ricordare.

“La crisi di contenuti che investe la cultura di questo Paese ha una causa precisa che si può identificare nella sua dimensione “industriale”.  Non ha più senso oggi parlare di cultura in termini generali perché da tempo è stata fagocitata da un sistema produttivo culturale e creativo che annualmente fattura 90 miliardi e occupa a tempo pieno un milione e mezzo di persone, senza contare l’indotto di attività economiche contigue che sempre di più si avvale di personale specializzato, spesso in condizioni di precariato.

Industria significa mercato e la necessità di proporre prodotti vincenti dal punto di vista economico ha determinato in tutti i settori un processo di burocratizzazione dei momenti decisionali che filtra, analizza, modifica ogni aspetto culturale e creativo in nome del “gusto e degli orientamenti” dei consumatori. La conseguenza è una sorta di omologazione che, nel migliore dei casi, rallenta l’emergere e l’affermazione del “nuovo”.

E se arriva, il nuovo non arriva mai dal basso, non è mai espressione di un dibattito, dell’affermarsi di tendenze ma un prodotto ben confezionato da piazzare sul mercato. Il dibattito culturale si è in buona parte concentrato sulle presentazioni e sui festival. Coloro che per ruolo sono deputati a stimolarlo sui media sono sempre gli stessi e in realtà l’obiettivo principale è sempre la promozione. A parte le solite lodevoli eccezioni di qualche rivista, blog o ricerca universitaria che intercettano pochissimi e introdotti fruitori di prodotti culturali.

Il resto, la stragrande maggioranza di coloro che amano la letteratura, il cinema, la musica, il teatro, il fumetto, sono privati degli strumenti necessari per coltivare la propria crescita in autonomia, per sviluppare un pensiero critico adeguato e sono costretti a relazionarsi con i prodotti proposti…

Non c’è settore che non mostri segni profondi di crisi dal punto di vista della credibilità e non è un mistero per nessuno il fatto che, oggi, la cultura italiana non sia più in grado di incidere sulle grandi e piccole scelte del Paese. Nel corso degli anni, a partire dall’avvento del berlusconismo, la relazione con la società si è modificata e oggi il ruolo è soprattutto ideologico e legato alla produzione di consenso. Questo modello di democrazia ha bisogno di un’industria culturale che consoli e distragga, che illuda e depotenzi i conflitti. La cultura come indispensabile radicalità della visione del presente esiste solo come concetto e pratica minoritaria, giusto per affermare l’esistenza della libertà di espressione come concetto formale.

Come ha fatto notare Loriano Macchiavelli qualche mese fa, tentando inutilmente di aprire un dibattito, l’iper produzione consolatoria è il motivo principale della crisi della letteratura di genere. Il noir, il poliziesco, il giallo, il crime (ormai non sappiamo nemmeno più come chiamarlo), perde continuamente lettori. A forza di raccontare la relazione tra crimine e società in modo distorto, lontano dalla realtà, proponendo personaggi e meccanismi sempre uguali alla fine i lettori si stancano e preferiscono leggere altro. Da anni ogni mattina nasce un nuovo commissario che propone storie un po’ romanzo, un po’ sceneggiatura cercando faticosamente di trovare una collocazione editoriale. Una forma di lento suicidio di cui hanno responsabilità gli editori ma soprattutto gli autori che rinunciano a valorizzare i principi fondativi del genere, a essere rigorosi nell’analizzare la relazione tra crimine e società, per inserirsi a pieno titolo nella produzione di una merce vendibile, ben confezionata quando trama e scrittura funzionano, ma sempre più lontana dall’essere perturbante. E dall’essere popolare nel senso più nobile del termine…

Tornando all’analisi dell’industria culturale italiana va evidenziato il pressoché totale disinteresse nei confronti di diversi temi di interesse strategico, ne cito due: il lavoro e l’ambiente.

La cultura ha interrotto bruscamente il rapporto con il mondo del lavoro, anzi ha fatto di peggio: lo ha rimosso, eliminandolo da ogni forma di narrazione e delegando alla stampa, anche la più cialtrona, il compito di raccontarlo. Non interrogarsi sulla relazione materiale ed esistenziale tra le persone e l’occupazione ha determinato un reciproco allontanamento e disinteresse. Certamente una delle cause della mancata fruizione di alcuni prodotti culturali da parte di larghe fasce di popolazione a favore di altri, come quelli televisivi. Fasce che hanno sviluppato la percezione che la cultura sia “distante”, elitaria, snob, incapace di comprendere e di agire.

Crisi climatica. In un momento storico in cui per la prima volta si mette in discussione l’esistenza stessa del pianeta, il mondo culturale italiano spicca per l’incapacità di prendere una posizione. Nonostante sia evidente il peso e gli investimenti dell’industria dei combustibili fossili nell’orientare l’opinione pubblica attraverso strenui negazionisti, arroccati nei settori più disparati. La questione non è di poco conto perché farsi carico del problema ambiente significherebbe adeguare la complessità della cultura all’urgenza dell’intervento. Ma rimettere in discussione sistema economico, consumi, stili di vita al momento non solo non  è pensabile ma non rientra nei fini dell’industria culturale…

L’impressione generale è che la cultura italiana guardi perennemente altrove e quando si oltrepassano i limiti non osi più di tanto. La notizia che un ministro della Difesa arruoli giornalisti e intellettuali in un “Comitato per la cultura della difesa” avrebbe dovuto favorire un legittimo dibattito, quantomeno sull’opportunità e sull’adesione ai valori costituzionali. Invece il silenzio è stato quasi assoluto. Dovuto anche al fatto che oggi tutte le voci dissonanti sul tema del bellicismo vengono additate come forze oscure al soldo di un nemico mai ben identificato. E il soldo, quello vero, arriva dalla sempre più potente industria delle armi. Negli Stati Uniti, il Pentagono finanzia Hollywood in nome della cultura della difesa eppure del cinema americano amiamo proprio l’indipendenza.

E l’iniziativa del ministro della difesa era solo un’avvisaglia dell’assalto alla cosiddetta egemonia culturale da parte di questa destra post fascista che governa ora il Paese. Battaglia che di fatto ha già vinto perché l’industria culturale preferisce adeguarsi. Semplicemente tacendo, evitando ogni coinvolgimento. D’altronde la pratica dell’autocensura è tipica del lavoratore culturale inserito in un processo industriale, che si impone di sorvegliare i propri contenuti. Si potrebbe addirittura ipotizzare che sia diventata la norma in certi ambienti, anche se con altre modalità e fini. Nel mondo delle produzioni cinematografiche e televisive, per esempio. In fondo, il mercato ha le sue regole e pazienza se chi lo gestisce ha il potere di veto sulle scelte artistiche. Inutile rischiare rifiuti e non lavorare, soprattutto se il proprio nome non è abbastanza famoso.

Però non ci siamo resi conto che, col tempo, abbiamo accettato che venissero erosi i confini di un concetto fondamentale in democrazia che si chiama libertà di espressione. E non ce ne siamo resi conto al punto che la stragrande maggioranza delle persone, occupate nel settore, aderiscono convintamente al pensiero di base su cui si regge l’industria culturale italiana. Un’industria deputata a costruire l’immaginario di questo Paese libero e democratico…

E allora la domanda quale immaginario è in grado di proporre questa industria culturale è più che legittima ma al contempo è doveroso chiarire che esistono ancora spazi nell’industria culturale per individuare e costruire percorsi “altri”.  Il bisogno di cultura e arti libere, poetiche, visionarie in cui domini l’immaginazione per raccontare la complessità del mondo in cui viviamo, può trovare risposte”.

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