'STO GIRO T'AMMAZZO

Agenda? Mi sembra di aver scritto più volte che, per quanto riguarda le cittadine italiane, il Rapporto Ombra Cedaw contenga tutto quanto necessario per lavorare sul cambiamento. Prendiamo un solo tema: il diritto alla salute. Tema in cui rientrano aree importantissime: la violenza contro le donne, l’aborto negato, la mancanza di informazioni sulla contraccezione, l’epidurale difficilissima da ottenere. Per esempio. Dunque, oggi posto un’inchiesta di Federica Angeli apparsa nelle pagine romane di Repubblica. E’ la cronaca di una notte passata al Grassi di Ostia. Evidentemente non riguarda solo le donne: ma leggete, e leggete con attenzione, fin dalle prime righe. Io non riesco a dimenticarle.
Reparti di Pronto soccorso al collasso, pazienti lasciati per giorni su barelle senza assistenza, “codici bianchi” che aspettano anche dodici ore prima di essere visitati. Cosa sta succedendo negli ospedali romani? Per capirlo cominciamo passando una notte al Grassi di Ostia.
C´è una ragazza di vent´anni con la tuta sporca di sangue, il setto nasale spaccato e le lacrime che le rigano il volto, seduta su una sedia grigia con una svastica sullo schienale. Aspetta il suo turno mentre il giovane compagno, che l´ha raggiunta in ospedale dopo averla picchiata al termine dell´ennesima lite, le sussurra minacce di morte all´orecchio. «Torna a casa, non ti far visitare, che se me metti in mezzo un´altra volta, ‘sto giro t´ammazzo». Accanto a lei una straniera con un bimbo di venti giorni in braccio: ha la febbre a 40 il piccolo, ha avuto le convulsioni e nonostante tre giorni di Tachipirina la temperatura non scende. Zoppicando entra un uomo sulla quarantina: ha una protesi alla gamba dal ginocchio in giù che gli ha procurato un´infezione. Dietro di lui un´ottantenne in vestaglia, sostenuta dalla nuora. Ha un cancro al pancreas che le ha fatto «rivoltare all´ingiù – spiega la nuora all´accettazione – lo stomaco e da tre giorni non riesce più a mangiare». Quando un attraente trentenne, occhi azzurissimi, si presenta allo sportello davanti all´infermiere col naso gonfio e grondante sangue per una gomitata ricevuta durante una partita di calcetto, sono le 23 e 30. E al pronto soccorso del Grassi è già l´inferno.
«Signori dovete stare calmi – spiega con voce pacata un infermiere con gli occhiali continuando a picchiettare sui tasti del computer – dentro c´è il pienone, ci sono solo tre medici e casi molto più gravi dei vostri». In astanteria ci sono almeno una quarantina di persone ammassate su barelle con maschere d´ossigeno e flebo infilate nel braccio.
La notte si preannuncia molto lunga, soprattutto per chi è stato classificato come “codice bianco”, il codice meno grave, quello che nelle ore diurne, in genere, viene dirottato dal proprio medico curante. Bisogna armarsi di pazienza, tanta, e augurarsi che non arrivino “codici rossi” ad appesantire la situazione già al collasso. «Scusi, sarò anche non tanto grave, ma sono già due ore e mezza che sto qui, almeno mi può dire quante persone ci sono davanti a me?». Una bruna di vent´anni si fa largo tra gli utenti ammassati davanti al vetro blindato dell´accettazione. Mentre si preparava per uscire con gli amici, alle nove, le si è rotta tra le mani una boccetta di profumo e un vetro le si è infilato nella carne dell´avambraccio.
Davanti a lei ha sette persone. La risposta suscita un brusio generale e il nervosismo esplode all´improvviso quando un uomo di colore arriva con un´ambulanza e passa avanti a tutti. «E certo, adesso facciamo passare avanti a noi anche gli stranieri». Lo straniero è un uomo del Bangladesh che è stato picchiato a sangue e ha una profonda ferita alla testa. Fa il cuoco in un ristorante giapponese a Piramide ed era il suo giorno libero quando due ragazzi, teste rasate, dopo avergli chiesto «Sei musulmano?», hanno iniziato a bastonarlo fino a lasciarlo svenuto sulla banchina della stazione della metro Casal Bernocchi.
Stordito dalle botte il bengalese non fa caso alla battuta di uno dei presenti, ma appena la porta scorrevole del pronto soccorso si richiude alle sue spalle, scatta una rissa. Il venticinquenne che aveva raggiunto la fidanzatina al Grassi inizia a sbattere i pugni contro la porta: impreca, grida, si sfoga. Nessuno si muove, gli infermieri non battono ciglio. Così lui decide di prendersela con la compagna: la strattona, cercando di trascinarla fuori dal pronto soccorso, la schiaffeggia e le grida cattiverie senza senso, accusandola di essere responsabile di quell´attesa estenuante. Il parente di un anziano arrivato lì alle 19 – ovvero sei ore prima, nel frattempo siamo arrivati all´una di notte – si scaglia contro il giovane e insieme a lui altri uomini. Ne nasce una zuffa che si placa solo con l´arrivo prima dei vigilantes del nosocomio lidense e poi di una pattuglia dei carabinieri di Ostia. «Almeno uno passa il tempo a guardà… «, sentenzia un sessantenne che si è slogato il polso ed è lì al Grassi dalle otto di sera senza essere stato visitato.
Già, il tempo passa. Lento. Alle altre piccole rappresaglie, inutili, contro gli infermieri, partecipano ormai in pochi. Sfiniti dal sonno, gli utenti non hanno neanche più la forza di reagire. Alle sei del mattino, il trentenne reduce da una partita di calcetto viene fatto entrare: una lastra al naso, un´aggiustata al setto da parte di un chirurgo e il foglio di dimissioni. Sei ore di anticamera e in cinque minuti, tra visita e raggi x, la sua permanenza è finita. «Scusi ma possibile che abbiamo dovuto aspettare sei ore e mezza per una visita durata cinque minuti?». Alza le spalle un medico dallo sguardo intelligente e rassegnato. «Signò, al Grassi funziona così».

20 pensieri su “'STO GIRO T'AMMAZZO

  1. Quando mi sono venuti adddosso in retromarcia sul raccordo anulare – quest’estate. L’ambulanza ci ha portati al Sandro Pertini. N’artro bel posticino.
    1. Sono uscita sette ore dopo.
    2. Mio figlio non è stato visitato
    3. Alla visita non mi volevano credere e mi hanno trattato molto male, NON MI VOLEVANO VISITARE, solo un giovane medico ha indicato delle abrasioni e lividi e si sono degnati.
    Intorno a me, cose inaudite – comprese persone che non avendo una stanza in corsia giacevano con la flebo in pronto soccorso.
    Ma la coda interessante erano i cartelli ai muri. I cartelli ai muri dicevano che il personale fa un lavoro tanto difficile, so tanto stanchi, e quindi insomma non era il caso di mettersi a discutere. Non lo so, mi ha dato molto da pensare questo cartello.

  2. Situazione terrificante che, purtropo non riguarda solo Roma.
    Ho portato mia madre al PS 2 anni fa con l’ambulanza. Nonostante lamentasse vomito e gravi giramenti di testa con annessi terrificanti dolori cranici le hanno fatto prendere l’ascensore stando in piedi.
    Erano “assolutamente certi fosse solo cervicale”.
    5 ore di attesa tra vomito e dolori allucinanti prima di una tac per poi ricoverarla d’urgenza e operarla il giorno seguente con una fistola cranica, perdita di liquor dal naso e bolle d’aria nel cranio.
    Tra ascensore e attesa da seduta al PS (non avrebbe dovuto alzare la testa nemmeno di mezoz grado), è un miracolo che quelle bolle d’aria non l’abbiano uccisa.
    Ora sta bene, anzi benissimo. Ma che spavento!

  3. L’esperienza allucinante raccontata nel post e i commenti di zauberei e giulia potrebbero essere i primi di una serie infinita, perché purtroppo credo che la situazione sia tragica e diffusa a livello nazionale.
    Sicuramente ci sono le eccezioni, ma appunto tali restano. Sono come oasi nel deserto dei servizi di questo paese.
    Durante la serie di post sulla 194 e la contraccezione, scrissi che purtroppo quando si subisce questo trattamento non si sa a chi rivolgersi, non si sa come segnalare un disservizio o una lamentela.
    Forse ormai ci siamo rassegnati a questa situazione?

  4. ora stiamo assistendo al crollo degli argini, penso io, ma questo fiume di melma sta crescendo da alcuni anni… vi risparmio i miei ragionamenti sulle cause a monte – fatti non nel chiuso della mia stanzetta ma con donne mediche che lavorano dentro gli ospedali – dico solo che quando parliamo di diritto alla salute, parlo al plurale in quanto femminista che fa parte di un’assemblea che cerca di non far chiudere i consultori – abbiamo in testa un’idea di salute sociale che riguarda tutti i cittadini, e riguarda anche chi lavora nella sanità pubblica…. mentre invece cercano sempre di appiattirci e di zittirci sul discorso dell’aborto…
    il discorso sul diritto alle cure sanitarie, che fa parte della possibilità di sano controllo sul proprio corpo, spero sia tra i temi principali dell’agenda
    milva

  5. Io ho avuto la sfortuna di essere ricoverato nei nostri ospedali e anche in quelli di paesi un po’ “arretrati”.
    La cosa che più mi ha colpito è l’indifferenza che si percepisce da noi. Qui nei nostri fortunati paesi si è sempre più considerati come numeri e sempre meno come persone.

  6. Il mio secondogenito è finito per due volte al pronto soccorso del Bambino Gesù prima per una bronchiolite (a due mesi e mezzo) e poi per un broncospasmo fortissimo (a dieci mesi) con insufficienza respiratoria acuta. In entrambi i casi – nonostante la sala fosse davvero affollatissima – è stato visitato e trattato subito, come la situazione richiedeva. Cito questo esempio per dire che ormai i pronto soccorso riescono a garantire (e molti purtroppo a fatica) soltanto il soccorso di chi è in pericolo di vita. Nessuno dei casi raccontati nell’articolo, pur gravi, rappresentava un’urgenza di questo tipo.
    Racconto per lavoro la sanità italiana da dodici anni. E faticosamente il mio giornale cerca di raccogliere i casi di eccellenza, le buone pratiche, il servizio che funziona (sono oasi, purtroppo, dal Lazio in giù ma dal Lazio in su la situazione è molto diversa). Perché quello che è successo negli anni è sintetizzabile così: la spesa che prima sembrava infinita si è rivelata dannatamente “finita”, cioè scarsa. La domanda di salute da parte dei cittadini, sempre più anziani e sempre più acciaccati ma anche sempre più medicalizzati, si è moltiplicata.
    A pagarne le spese come al solito sono i soggetti più fragili, socialmente parlando: le donne, gli anziani, i bambini, gli immigrati. Siamo quindi davanti a un bivio: o riorganizziamo il servizio sanitario pubblico, in modo da aggredire gli sprechi, oppure veleggiamo verso altri tipi di sistemi, privati o privatizzati.
    Non so voi, ma io mi batto ogni santo giorno per difendere il servizio pubblico. Perché non è tutto da buttare. Perché, a dispetto delle attese infinite e degli errori clamorosi, il nostro Ssn dispensa milioni di prestazioni, molte delle quali salvavita. Perché tantissimo si può migliorare, anche in una Regione disastrata come il Lazio in cui paghiamo oggi il conto di strategie di potere e di raccolta del consenso dissennate (la sanità è una gigantesca macchina del consenso). Perché ci lamentiamo dei pronto soccorso ma non reclamiamo una medicina di famiglia e una pediatria di libera scelta che funzionino davvero, ad esempio: presidi territoriali realmente alternativi all’ospedale. E perché non vorrei che a suon di titoloni si buttasse via il bambino con l’acqua sporca, facendoci agognare come paradisi sistemi assicurativi sul modello di quello americano. Che sono “finti paradisi”.
    Ultima postilla: quel che mi fa più male dell’articolo è la restituzione di un “clima” che purtroppo davvero si respira nel Paese. Un mix micidiale di violenza e indifferenza, rassegnazione e intolleranza.

  7. @ Manuela: condivido in pieno. Qualche considerazione: l’enfasi sui casi di malasanità non deve diventare uno strumento nelle mani di chi la sanità pubblica vorrebbe azzerarla. Giustamente si sottolinea ciò che non va, ma sarebbe bello anche leggere di quanta gente ogni giorno viene curata, accudita, guarita. Il SSN italiano era, almeno fino a pochi anni fa, il secondo al mondo dopo quello francese nelle classifiche dell’OMS. Il motivo è una cosa che a noi pare banale e ci parrà tale finché ce l’avremo: l’accesso universale. Politiche volte a privatizzare le strutture, condotte in malafede all’insegna dell’efficienza, producono una sanità eccellente per pochi e inaccessibile ai più, e nemmeno convengono (ai cittadini: a qualcun altro sì): negli Stati Uniti il rapporto tra spesa sanitaria e prodotto è molto, ma molto superiore a quello italiano ed europeo in generale, nonostante l’esclusione totale dalle cure di diversi milioni di cittadini. Altro che ER. Permettere allo stato di ritirarsi da un servizio primario come la sanità, sempre più abbandonata a se stessa, significa regredire di decenni. Anche in termini quantitativi: l’allungamento della vita media di cui abbiamo beneficiato negli ultimi decenni non dipende dall’ultima eccellenza conseguita in fatto di trapianti o che altro, di cui beneficiano in pochi; dipende dal fatto che l’accesso universale impedisce che si muoia di appendicite e, quando possibile, anche di infarto. C’è da fare, questo sì. Tanto. Le ristrettezze impongono la caccia agli sprechi, ma la sanità pubblica va preservata a ogni costo. Perché non diventi anch’essa vittima – quoto Manuela – del “mix micidiale di violenza e indifferenza, rassegnazione e intolleranza” che si respira oggi nel paese.

  8. Quoto in pieno gli ultimi due interventi. Dai quali si evince, qualora non fosse ben chiaro, che ogni problematica, privata di una dimensione politica, diventa povera, limitata, superficiale e approssimativa, nonché facile preda di strumentalizzazioni che mirano a tutt’altro. Nel caso specifico, l’enfasi sui casi di malasanità (che senza dubbio esistono e sono troppo frequenti) se accettata acriticamente rischia di diventare un pericoloso strumento nelle mani di chi vuol screditare la sanità pubblica orientando le masse verso l’idea della necessità di una privatizzazione del servizio sanitario di cui stenterebbero a beneficiare, come sempre, le classi più deboli. Grazie a Manuela e Maurizio per averlo evidenziato così bene.

  9. No, ma scusate, ultimi tre commentatori, ma avete capito il senso di questo post di Loredana?
    Ma perchè, in pratica, farne una questione di disfattismo?
    L’intento era, secondo me, molto semplicemente, quello di partire da un’immagine, da una fotografia, uno spaccato realistico, ovvero il resoconto della nottata al pronto soccorso restituito dalla Angeli, e rifletterci sopra, analizzare i dati, discuterli, operare nessi, leggere e interpretare insomma dei fatti, basandosi sulla fiducia del cronista, e porsi delle domande, cercare di capire perchè certe situazioni. Non era e non è un post sulla malasanità. Almeno a me pare evidente. Come mi pare evidente che l’enfasi si ponga, proprio narrativamente, sui soggetti, sugli utenti, sul personale, in pratica, non sull’istituzione. Non mi sembra un pezzo in cui ne esce l’immagine derelitta dell’utenza, di contro al sistema “cattivo” che non opera bene. boh, non so, a volte forse sarebbe bene leggere le cose in un modo meno condizionato, meno pregiudiziale. Sennò scusate si fa il gioco di quelli che poniamo leggono l’inchiesta sulla dispersione scolastica in quel dei quartieri degradati napoletani, e s’indignano perchè in realtà “Napoli non è solo questo”, e così facendo se ne fa una cattiva pubblicità. a volte è proprio difficile far capire i propri (buoni) propositi, e comunicare che quello che si vuole non è la critica distruttiva e il prendere le distanze a mo’ di “madonna come sono poveracci questi”, bensì prendere atto della realtà, chiamare le cose col proprio nome, e da lì, solo dopo aver evidenziato bene il problema, le questioni, senza ipocrisie, pianificare e tentare di affrontarli, i problemi. Io proprio boh. Ma è così difficile?
    Laura.

  10. Veramente mi pare di aver tentato di fare proprio quello che dici tu: “Prendere atto della realtà, chiamare le cose col proprio nome”. L’opposto del disfattismo. Ho scritto che i più deboli pagano le spese di una sanità al collasso. Ho cercato di sintetizzare le ragioni del collasso. E ho provato, modestissimamente, a chiarire le possibili soluzioni (riorganizzazione del sistema o rivoluzione in senso privatistico). Perché scrivi che ho preso le distanze? Perché parli addirittura di ipocrisia? Il senso del mio intervento era l’esatto opposto.

  11. E aggiungo che Maurizio e Antonella mi pare abbiano fatto altrettanto: prendere atto della realtà disastrosa testimoniata dalla cronaca e domandarsi che cosa preservare e come evitare strumentalizzazioni. Insomma: non rassegnarsi di fronte all’orrore ma lottare per difendere e rendere esigibili diritti che credevamo acquisiti.

  12. Cara Manuela, io non ho detto che il tuo intervento tradiva “metodi” ipocriti. Io stavo come difendendo la scelta di aver postato questo articolo, e il fatto che fosse affatto disfattista. E il fatto che, secondo me, avere l’atteggiamento di indagare e andare a fondo eventualmente decostruire per poi ricostruire è secondo me un atteggiamento sano, anche perchè privo di ipocrisia. Era come difendere un modus operandi visto che il gesto dell’aver postato questo articolo, e l’articolo in sè, era sembrata sostanzialmente un’ accusa alla sanità. Vale a dire: non contrapponevo quello che dicevi tu all’articolo. Volevo dire: leggetelo bene, perchè ha il pregio, tra gli altri, di non essere ipocrita. Spero di essermi spiegata.
    Laura.

  13. Io mi trovo in sintonia con Laura e quindi in sintonia con Manuela e Fabrizio – anche se non sembra. Ma quei commenti sono in continuità possibile.
    Questa mattina ho scritto di corsa per mancanza di tempo – è assolutamente ovvio per me dover difendere il servizio pubblico – ma in questa difesa rientra la necessità di mostrare le derive del sistema, oltre che le aree di funzionalità e di eccellenza. Non posso mancare di osservare dei malfunzionamenti macroscopici per paura della strumentalizzazione che ne può fare un mio avversario politico – anche perchè in un certo senso il problema travalica la politica. Privatizzare la sanità è una cosa per me inconcepibile – ma sul sistema universitario ogni tanto due quiz me li faccio – in considerazione della democrazia effettiva dell’attuale sistema, rispetto ad altri. Questo era solo un esempio naturalmente.

  14. Lo smantellamento e l’inversione totale di tendenza rispetto ai principi ispiratori della legge 833 del 78, è cominciato però ben 20 anni fa con il decreto legislativo 502/92, non a caso ribattezzato da molti “controriforma della sanità”; non è roba poi così recente … Da allora l’usl è diventata azienda, è arrivato il direttore generale, ha preso piede il concetto di cliente al posto di quello di paziente … Anche i sindacati confederali mi sembra non abbiano mosso molti muscoli …

  15. @Laura: non capisco. Da cosa evinci che io e Manuela si sia contrari alla pubblicazione del post? Cosa ti fa pensare che non ne abbiamo afferrato il senso? Per quanto mi riguarda, a suggerirmi l’opportunità di scrivere quello che ho scritto non è stato il post, ma alcuni commenti. Ma probabilmente avrei scritto le stesse cose anche in assenza di quei commenti. Dici “L’intento era, secondo me, molto semplicemente, quello di partire da un’immagine, da una fotografia, uno spaccato realistico, ovvero il resoconto della nottata al pronto soccorso restituito dalla Angeli, e rifletterci sopra, analizzare i dati, discuterli, operare nessi, leggere e interpretare insomma dei fatti, basandosi sulla fiducia del cronista, e porsi delle domande, cercare di capire perchè certe situazioni”. E perché, noi che abbiamo fatto di diverso? Abbiamo trovato dei nessi che restituiscono l’accaduto alla dimensione politica a cui appartiene, abbiamo cercato di dare una lettura che ricostituisca la frammenrtazione di questi episodi in un continuum dotato di senso, un senso che non ci piace. Cosa ti fa pensare che questa chiave di lettura sia sbagliata?

  16. Maurizio, dunque, mettiamola così (ma finisce che mi ripeto, dunque scusatemi). La vostra lettura non è sbagliata, il punto è che, secondo me, così leggendo fraintendete il “messaggio”, come dire il senso, dell’intenzione con cui Loredana ha postato questo articolo. E’ come dire che avete detto cose giuste, ma non era quello il punto. Un po’ come andare fuori tema, quando un professore ti detta un tema ampio, ma che si aspetta si tocchino dei punti che LUI vuole vengano toccati. dire magari cose sensatissime sull’assurdità dell’olocausto, quando però quello su cui era bene soffermarsi era altro. Meglio? Detto papale papale, secondo voi ha senso rispondere a Loredana: sì, però il sistema sanitario nazionale è importante-in America stanno una chiavica?
    Laura.

  17. però è anche difficile partire da un’immagine che mette assieme tante troppe cose ( the kingdom sceneggiato da Siti ) e mettersi a parlare.
    nel caso specifico c’è un problema tecnico che fa da habitat per raccogliere spaccati sociali, magari contribuendo a peggiorare le cose.
    E partendo dal titolo del post, noi tutti vorremmo che la scena si fermasse appena il tizio pronuncia la battuta principale, perché in effetti aspettare qualche ora in confronto a vivere con una persona del genere non è niente.
    Comunque quando andavo a trovare mio padre ricoverato al Sim, notavo sempre che i muri della stanzetta erano pieni di bestemmie e croci celtiche.

  18. Laura, tutt’altro! Io sono felice che Loredana abbia postato questo articolo proprio perché sono felice che intorno alla questione si cominci a ragionare pubblicamente anche al di fuori dei dibattiti tra gli addetti ai lavori. Non ho risposto a Loredana: “Sì, però il sistema sanitario nazionale è importante”. Quella era solo una parte del mio intervento, che intendeva essere molto più complesso. Ed è una parte che comunque ribadisco con forza. Perché vale per la sanità pubblica quello che vale per la questione femminile: tante cose che davamo per scontate non lo sono affatto. Io non so quale sia “l’intenzione con cui Loredana ha postato questo articolo” (spero, come sempre, quello di farci riflettere), ma accusarci di non averla afferrata forse è un po’ troppo, no?
    Cerco di spiegarmi ancora meglio. Nel mio mondo ideale ovviamente quel giovane violento non dovrebbe esistere e la sua ragazza non sarebbe mai mai mai dovuta finire al pronto soccorso con il setto spaccato per giunta ancora vessata dal suo persecutore. Ma se mi fermo a riflettere sulla scena, per quanto raccapricciante, ringrazio il cielo che esista un posto in cui quella ragazza possa andare a farsi medicare gratuitamente. E se devo prefissarmi un obiettivo concreto per cui combattere, lo “vedo” subito: far sì che in quel pronto soccorso non si limitino a curarle il naso senza neanche far caso alla presenza del suo aguzzino ma garantire che gli operatori attivino subito il centro anti-violenza più vicino (che infatti dovrebbe esistere in molti ospedali anche romani e in moltissimi consultori: http://www.antiviolenzadonna.it/index.php?page=precentri).
    Invece – ed è purtroppo un’altra realtà con cui dobbiamo fare i conti proprio per contrastarla meglio – per molti la soluzione alla crisi della sanità è la chiusura degli ospedali, il taglio drastico del personale e il risparmio bruto. Ma affamare la sanità pubblica senza riformarla fa il gioco dei tanti privati che intorno alla sanità si muovono. Pensate ai consultori, ai tentativi di controriforma che vanno in scena in Piemonte e nel Lazio e capite di che cosa sto parlando.

  19. @ Laura: mi associo a Manuela nella sua risposta. Anche perché lei sembra aver capito cosa ci rimproveri, mentre io continuo a non capirlo. Non credo che nel postare questa storia Loredana Lipperini abbia voluto dare un tema da svolgere, come sembri intendere tu. E se fosse, perché quello che diciamo noi sarebbe fuori tema? Ripeto: parlare di spunti, narrazioni, immagini, fotografie, spaccati realistici senza dire dove si va a parare significa togliere profondità politica ad accadimenti che ne grondano. Si possono affrontare anche da altri punti di vista, offrendo contributi di natura diversa, ma appunto, qui sta la specificità di ciascuno. E la mia è quella di dare letture prevalentemente politiche. E poi, ma di che cosa avremmo dovuto parlare per non andare “fuori tema”? Io davvero continuo a non capire. Ma forse è meglio piantarla qui.

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