STORIE DI LAVORO E DI FARTITAURI

E’ il 1 maggio, e le cose non vanno affatto bene per chi lavora e per chi il lavoro lo ha perso, e non ne troverà. E’ il 1 maggio e le cose non andavano bene neppure prima, caso mai ce lo fossimo dimenticato. E’ il 1 maggio e prima di mettermi a lavorare vi faccio un piccolissimo dono: è l’incipit di Schiavi di un dio minore, scritto quattro anni fa con Giovanni Arduino. State bene, comunque, in qualsiasi modo.
Ogni mattina fa la stessa strada. A sinistra il fioraio che a quell’ora bagna le margherite se è estate o copre i garofani con un telo se è inverno, a destra i cassonetti dell’immondizia, davanti a lui l’edicola e subito dopo il buco puzzolente della metro.
Può accadere in qualsiasi momento. Magari è una mattina d’autunno, con quel misto di malinconia e di euforia di ogni autunno: la malinconia per il tempo che passa, l’euforia per il tempo già lontano che si può soltanto agganciare nei sogni, o nelle prime ore del giorno, quando ancora non si è smesso del tutto di sognare e ci si ricorda di quando ottobre portava un diario scolastico da riempire e un paio di scarpe nuove.
Magari il viaggiatore del mattino è fragile e dunque ben disposto a scoprire certe pieghe della realtà che altrimenti ignorerebbe: magari ha appena finito di svuotare la casa dei genitori, perché a una certa età i genitori muoiono e tu devi salutare, con loro, quello che sei stato. Nella giornata precedente, se davvero è andata così, il viaggiatore ha in effetti staccato i quadri dalle pareti, trovando ogni volta un rettangolo più chiaro che gli ha ricordato quanta polvere, e respiri, e capelli e impercettibili particelle di pelle si sono depositati sulla parete, ogni volta che la madre passava davanti al quadro che preferiva per tirare su la serranda. Il quadro era un riconoscimento per il padre: “Benemerito della rotaia”, c’era scritto, per ricompensarlo degli anni di servizio al ministero dei Trasporti. Il viaggiatore del mattino ha ricordato l’orologio che il padre ha ricevuto insieme alla pergamena: l’orologio era un dono dei colleghi. Il fischio allegro sotto la doccia e il profumo di caffè con cui affrontava la giornata, perché lavorare gli piaceva è il dono che ha invece lasciato. E’ morto pochi anni dopo la pensione.
L’eredità, dunque, consisteva in quel fischiettio e nell’ammonimento che ripeteva, con discrezione: sii felice di quel che fai, e di come lo fai.
In quello stesso giorno, il viaggiatore ha affrontato i cassetti della camera da letto. Li ha lasciati per ultimi, perché frugare tra mutande e collant color carne e reggiseni e vecchie maglie è l’affronto più duro, una violazione di intimità che fa male. Dunque, ne getta manciate nel sacco della spazzatura, quello grande e nero, condominiale. Nel primo cassetto trova, ma lo sapeva già, l’estratto conto della posta e il postamat che non ha mai imparato a usare. E poi, quasi in fondo, i cedolini della pensione della madre. La lettera dell’Inps con cui le viene conferita quella pensione. La lettera di congedo dell’azienda, felice di averla avuta come dipendente, così è scritto. La fotografia di quando usciva dal lavoro sottobraccio alle colleghe, i capelli scompigliati dal vento, un piede avanti all’altro, come in un passo di danza. E le buste paga. Trentacinque anni di buste paga della Fatme, che al viaggiatore ricorda sul momento solo lunghi viaggi sul sedile posteriore di una 128 color mare, quando era sabato e si andava a prendere la mamma all’uscita della, appunto, Fatme.
Fatme ha una T in più di fame, una vocale in meno e una diversa di Fatima. Sua madre aveva una mano di Fatima, o mano di Miriam, appesa a una catenina: contro il malocchio, diceva. La mano di Fatima, o mano di Miriam, è simbolo anche di serietà, autocontrollo, e libertà dallo sfruttamento. La Fatme, invece, era una fabbrica di materiali telefonici con un passato glorioso: nata nel 1918, cresce di colpo nel dopoguerra, si trasferisce sulla via Anagnina, che allora era aperta campagna, e diventa un modello di welfare, con gli asili nido per i figli dei dipendenti.
Mentre ricorda, il viaggiatore del mattino è già all’altezza del fioraio, osserva distratto i vasetti di erica e di lavanda chiedendosi se acquistarne uno, al ritorno, e dal nulla gli viene in mente un nome: Luigi Baggiani. Quando, più tardi, lo cercherà su Google, scoprirà che è stato direttore generale di quella piccola- poi media- fabbrica fino al 1966. Dunque, lo ha sentito nominare quando era bambino, la sera, mentre faceva i compiti sul tavolo della cucina, e la nonna impastava le polpette, e la madre arrivava trafelata, togliendosi il cappotto e posando la borsa sulla sedia, e baciandogli i capelli diceva alla nonna che oggi l’ingegner Baggiani le aveva fatto i complimenti, e le aveva promesso un aumento. Il viaggiatore legge che l’ingegnere non ha mai licenziato nessuno, neppure quando la domanda calava, e magari faceva ammucchiare i prodotti invenduti nei magazzini in attesa di tempi migliori. Scopre che durante la guerra aveva nascosto gli operai a rischio dai tedeschi facendo costruire vie d’uscita dalla fabbrica alla campagna. Scopre che oltre agli asili nido aveva predisposto colonie estive e una mutua assistenziale rimasta famosa per lungimiranza.
Il viaggiatore del mattino ha cinquant’anni passati, anzi, scivola verso la china dei sessanta. I suoi genitori trovarono lavoro giovanissimi, nell’immediato dopoguerra, e in verità anche prima: tra una bomba e l’altra, la madre lavorava in quella che allora si chiamava statistica, il padre faceva il ragazzo tuttofare per un costruttore. Poi venne il lavoro fisso, nel primo tempo di pace, e già quando il figlio era piccolo non facevano che raccomandarsi quanto fosse importante sistemarsi, progettare la tranquillità futura. Al ragazzo che il viaggiatore è stato, il lavoro fisso faceva schifo. Pensava, e con lui molti di quelli che hanno preso parte alla prima splendente e poi aspra stagione degli anni Settanta, che fosse sinonimo di privazione di libertà, incatenamento a vincoli e orari e cartellini e scrivanie e magari sulle scrivanie ci sarebbero stati piantine grasse e gnomi di ceramica e un calendario fatto con i dadi.
Uno schifo, appunto.
Il ragazzo che era immaginava, e ne ebbe le prove, che si potesse avere tutto, e per un bel po’ ebbe abbastanza: collaborazioni a giornali, uffici stampa, programmi radio. Senza mai una raccomandazione o un per favore, come amava vantarsi: la risposta che riceveva era quasi sempre proviamo e vediamo, e in genere la prova funzionava, dunque il viaggiatore, nei suoi anni adulti, si era convinto che bastasse saper fare il proprio lavoro e coltivare il talento, e arrivava a sentenziare che l’esperienza si acquisisce facendo, e in effetti c’era sempre stato qualcuno degli anziani e già esperti che gli spiegava e regalava attrezzi del mestiere, perché così si faceva e così era giusto. Si viveva da precari, certo. Da precario, era riuscito a metter su casa e famiglia, e aveva avuto due figli, certo senza ferie pagate e rabbrividendo quando doveva anticipare l’Iva.
Ma ci si riusciva, perché allora, gli anni Ottanta e poi Novanta e fino al 2008, il lavoro girava, venivi pagato bene se lavoravi bene, e insomma c’era da trottare, ma senza angoscia. Mai avrebbe pensato di sentirsi dire: accetta quello che ti capita, anche se sei competente e bravo, o morirai di fame. Non come prima scelta, almeno: ma semmai, come avviene ai non ricchi di famiglia o matrimonio e dunque non garantiti, come ultima via di fuga, quella che ti balena in testa quando calcoli il rischio e ti dici se va male posso sempre.
Accadde persino, al viaggiatore ormai ultraquarantenne, di ricevere un’offerta di assunzione, decisamente gratificante. E ci pensò su, prima di accettare, col terrore di guadagnare meno, di rinunciare alla libertà. Ma aveva 44 anni e due figli, e disse sì, e oggi può dire di aver fatto bene, anche se combatte con gli spiccioli a fine mese. Ai suoi figli non viene offerto nulla del genere. Vengono offerti lavori minimi, mal pagati e faticosi, e se ti lamenti, sei uno schizzinoso. Non è questione di gavetta, pensa il viaggiatore. E neanche di precariato. Una cosa è il precariato, un’altra la schiavitù.
E tutto questo, l’ingegner Baggiani e il quadro per il Benemerito della rotaia e le buste paga fermate con l’elastico, si ferma quando infine arriva all’edicola e come sempre l’edicola mette in evidenza le prime pagine dei giornali con le offerte di lavoro. Una ne sceglie: anzi, una sceglie lui, come i gatti scelgono la casa in cui abitare.
Roadhouse Grill. 120 assunzioni a Roma, tre nuove aperture Boccea Casilino Eur assunzioni intero staff.
Non ha mai sentito parlare di Roadhouse Grill. Però è facile, basta ancora una volta andare su Google e così come ha trovato l’ingegner Baggiani troverà quali sono le offerte di lavoro. Perché sono assunzioni, sia chiaro, quelle proposte, perché abbiamo il Jobs Act e l’Italia riparte e dunque si assume. Ecco, il viaggiatore trova che al Roadhouse Grill (Gruppo Cremonini) si mangia il Devil burger, il nuovo diabolico burger in panino croccante con Original crunchy bun, salsa Jalapeno relish, doppio Bacon e formaggio stagionato Comté D.O.P. Oppure, scopre, puoi mangiare 400 grammi di lombata di suino con senape dolce, o gli straccetti con la cipolla caramellata dentro un panino al formaggio, o anche il pollo fritto doppio bacon. E poi, legge ancora, con la Card Roadhouse più mangi, più ti ricarichi: i vantaggi sono reali, ti riaccreditiamo il 10% di quello che spendi. Significa che per ogni euro speso accumuli un punto sulla tua card e se entri nel Club sei subito VIP e avrai diritto alle promozioni esclusive.
Nei Club, dice la definizione, entrano persone mosse dallo stesso scopo o dalle stesse affinità. Dunque, nel Club della Roadhouse si entra per sentirsi tra affini. Qual è l’affinità, si chiede dunque il viaggiatore? Il pollo fritto doppio bacon? La senape dolce? Oppure è l’idea di entrare all’interno di qualcosa che si ritiene esclusivo ad attirare? Perché questa cosa, questo invito a entrare (nella nostra famiglia, nella nostra azienda, nel nostro club) torna sempre, si tratti di reclutare clienti o lavoratori. Salta nel cerchio e sarai dei nostri. E cosa significa essere “dei nostri”? Perché, nel momento in cui siamo più soli, sentiamo il bisogno di affidarci a legami effimeri e palesemente falsi? O forse è la parola VIP la chiave per aprire la porta, dite amici ed entrate, come Gandalf davanti all’ingresso di Moria? L’illusione di essere qualcuno grazie a un panino al formaggio consumato più volte? L’idea stessa, all you can eat, che consumare porti con sé un merito, e che quel merito vada premiato?
Oppure, l’idea che tu puoi essere tutto, il mangiatore di panino e colui che elabora quel panino?
Roadhouse grill, infatti, ha pure lanciato in collaborazione con Coca-Cola una nuova app gratuita dal nome “Serial Griller”. Per tablet e smartphone. Si tratta di un gioco interattivo, dice Roadhouse grill, contro il tempo, dice, per cimentarsi nella preparazione delle specialità alla griglia che caratterizzano il menù. Il giudizio sui risultati arriva dal “Serial Griller” numero uno, Matteo Tassi, il protagonista della fortunata serie su Gambero Rosso Channel che con questa iniziativa avvia la sua collaborazione con Roadhouse Grill.
Ah. In uno dei locali romani c’è anche una “mucca d’artista”. Si chiama Romola.
Ma al di là di tutto questo, pensa il viaggiatore del mattino, al di là delle app e dei club, quello che si sta offrendo in questo momento a chi consulta gli annunci di lavoro non è di essere l’artista che realizza la mucca e neanche di impersonare il Serial Griller numero uno: quello, semmai, è quanto dovranno ripetere una volta entrati nel Club da dipendenti. Quello che si sta offrendo è nulla di più di un lavoretto in un fast food. No, risponde Roadhouse Grill. E’ di più. Entra in squadra anche tu, inizia oggi per diventare manager domani!
Per diventare manager domani.
Manager.
Aspetta.
Fai due conti.
Secondo le previsioni, i 120 felici dipendenti e futuri manager del nuovo locale di Roma serviranno circa 110.000 pasti all’anno, con un fatturato medio a regime stimato in circa 2,2 milioni di Euro. Per Roadhouse, naturalmente. Significa circa 301 pasti al giorno. Trecento Devil Burger con salsa Jalapeno relish e trecento straccetti alla cipolla caramellata. Significa grandi incassi per il mega-colosso dell’alimentare Cremonini, che controlla Roadhouse Grill dal 2000. Cremonini, hai presente? Primo produttore ed esportatore italiano di carni in scatola con 200.000 scatolette e leader “nel settore degli hamburger freschi e surgelati con una capacità produttiva annua di oltre 40 mila tonnellate”. Dunque quei 120 da assumere dovrebbero fare due conti e pensare estasiati alle centinaia di migliaia di scatolette con carne e alle infinite tonnellate di hamburger freschi e surgelati, stordendosi l’immaginazione neanche si fosse davanti alle trippe grasse dei fartitauri di Rabelais, i buoi grassi uccisi in numero di trecentosessantasettemila e quattordici per un solo banchetto. E naturalmente accettare in letizia la prospettiva di passare la propria esistenza friggendo hamburger di fartitauro e diventare i manager, dunque i capi di coloro che friggeranno in futuro i fartitauri. Ed essere, certo, felici.
Metti che abbiano vent’anni. Metti che abbiano lasciato gli studi perché qualcuno ha detto, ehi, è inutile.
Non lo sai? E’ andata proprio così.
“La libertà senza giustizia sociale non è che una conquista fragile e si risolve per molti nella libertà di morire di fame.”
(Sandro Pertini, discorso di fine anno, 31 dicembre 1983)

Un pensiero su “STORIE DI LAVORO E DI FARTITAURI

  1. Strepitoso cara Loredana.
    Ho dovuto guardare su Google, perché non sapevo che i fartitauri sono un’invenzione di Rabelais, del medico Rabelais in “Gargantua e Pantagruel”.
    Che fortuna che abbiate incrociate la vostra vita con quella di un emulo di Adriano Olivetti, l’ingegner Luigi Baggiani!
    E la mano di Fatima non è anche un retaggio della nascita in Libia della tua mamma?
    Buon Primo Maggio.
    Oggi per me è il primo giorno da “ritirata”. Solo due anni meno di te, una babypensionata con complessivi 42 anni e un mese di servizio.
    Non mi manca alzarmi alle 4 e mezza del mattino, ma mi manca qualcosa a cui potrò sopperire con il volontariato. Non dico salvare le persone da “catcher in the rye”, ma sentirmi utile per la società.
    Perché fare qualcosa per gli altri è restituzione (nomino sempre la restituzione) e identità. Aiutare gli altri è sempre aiutare sé stessi, cercando di cambiare il mondo.
    L’ultima: ah, io vengo dagli settanta e volevo invece la sicurezza di un posto fisso. Non facendo un lavoro artistico o intellettuale, la sicurezza del lavoro era ed è importante e lo sarebbe anche oggi per questi nostri ragazzi, dati in pasto alla più selvaggia precarietà. Buon Primo Maggio.
    Penso sempre a quanto vi volete bene a Radio3. Lei sta conducendo da casa con un’energia pazzesca, Fahrenheit.
    Credo sia una forme di amicizia e lealtà verso il suo lavoro ma anche verso i vostro direttore.

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