SULLA PAURA E SULLA LETTERATURA NERA

Nel 1977, Stephen King scrive una lunga introduzione alla raccolta A volte ritornano. E’ un’introduzione che diventerà famosa: quella che parla della paura e della funzione degli scrittori dell’orrore, e, in assoluto, di fantastico.
In poche parole, King sostiene che la grande narrativa dell’orrore è quasi sempre allegorica: “A volte l’allegoria è voluta (come nella Fattoria degli animali o in 1984), altre volte è casuale: J.R.R.Tolkien giura e spergiura che il signore di Mordor non era Hitler in versione fantastica”.
Notare che King cita Orwell e Tolkien, scavallando la definizione di genere nella sua accezione più rigida. Più avanti, fa di più, e parla di scrittori decisamente letterari:
“Le opere di Edward Albee, di Steinbeck, di Camus, di Faulkner, trattano di paura e di morte, talvolta con orrore; ma in genere questi scrittori mainstream lo fanno in modo più normale, più realistico. Il loro lavoro si colloca entro la cornice del mondo razionale: sono storie che possono accadere. Viaggiano lungo quella linea sotterranea che corre attraverso il mondo esterno. Ci sono altri autori (James Joyce, di nuovo Faulkner, poeti come T.S.Eliot, Sylvia Plath, Anne Sexton) la cui opera si colloca nella terra dell’inconsapevolezza simbolica. Viaggiano sulla sotterranea che corre attraverso il paesaggio interno. Ma chi scrive racconti dell’orrore, quando coglie nel segno, è quasi sempre al terminal dove le due linee fanno capo”.
Qual è, secondo King, il compito di uno scrittore dell’orrore? In primo luogo, raccontare una storia, affascinare il lettore. Afferrarlo, anzi. Poi, c’è l’altro compito: fare da filtro fra quello che possiamo interiorizzare senza pericolo e quello di cui dobbiamo sbarazzarci. Raccontare, cioè,  la paura numero uno: la forma del cadavere sotto il lenzuolo. Il nostro cadavere.
Il motivo per cui chi scrive fantastico ha sempre goduto di scarsa considerazione, dice King, è proprio questo: è perché affronta la prova generale della nostra morte. Certo, anche gli autori mainstream parlano di morte: ma chi si avventura nel territorio del non reale si spinge più avanti.
Riprendo un vecchissimo discorso per ragionare un po’ su cosa si intende per paura, e già che ci siamo su cosa si intende per horror. Come ho detto qualche giorno fa, è in libreria Willie lo strambo, dove oltre al racconto omonimo di King ce ne sono altri (Eraldo Baldini, Paola Barbato, Antonella Lattanzi, Marco Peano, Ilaria Tuti, Simona Vinci e chi vi scrive), tutti nel territorio del gotico o del noir o dell’horror.
Io ho scritto Il modo in cui ti chiama, un racconto decisamente non realistico tranne che in un punto: la rabbia. Il mondo intorno alla protagonista è rabbioso, spintona, strilla, scatta. Ci sono tre figure femminili, molto somiglianti fra loro, che provocano quella rabbia fino a farla esplodere. Con un piccolo particolare: chi cede, morirà nel modo che teme di più, legato a un trauma, a un’ossessione, un timore ben seppellito nella propria anima.
Ieri mi ha scritto un lettore, un po’ stizzito per il fatto che ci fosse poco sangue in questa storia, e che ci fosse una possibilità di sfuggire a questo destino. Non “buonista”, ma meno disumana dell’epidemia di livore e rancore che in effetti ci circonda: diciamo che ho voluto omaggiare il King politico, quello che si guarda intorno e restituisce quel che vede.
Ci ho pensato un po’ su e mi sono chiesta quante volte King abbia davvero scritto horror canonici. Certamente nella prima parte della sua carriera, ma negli ultimi tempi vedo che somiglia un po’ di più alla sua molto amata Shirley Jackson, dove il sangue scorre pochissimo, e sono semmai le reazioni dei personaggi a darci il senso della paura. Mi sono chiesta anche se l’armamentario dell’horror (la cripta, la motosega, il mostro che ti insegue, lo zombie) sia intramontabile. Mi sono risposta di no. Infine, mi sono anche detta che se continuiamo a farci soffocare da una parte dall’accademia che continua a sostenere che King è popolare, ergo non letterario, e dall’altra dai lettori fedeli e no che vogliono appunto sangue e trippe, sarà ben difficile che, come pure sembra, il sentiero del gotico si affermi nel nostro paese.
Per come la vedo, l’horror è sempre politico, sempre e sempre. Pensate a questo.
Il cancello di un cimitero che si chiude. Che si sta chiudendo, anzi. E dentro c’è una ragazza. Una ragazza che sente all’ultimo momento il richiamo del custode, e corre con il fiato in gola lungo i sentieri ricavati fra le lapidi, e la ghiaia si infila nelle sue scarpette, e il vestito la impaccia. Perché era elegante, la ragazza. Si era fatta bella per incontrare il fidanzato, in gran segreto, fingendo di andare  a pregare sulla tomba di suo padre. Ma, ecco, era arrivata in ritardo all’appuntamento, e si era persa, ed era così lontana dall’uscita e così assorta nei pensieri da non accorgersi dell’ora, e l’avvertimento è arrivato tardi, e il crepuscolo è già sceso, e le lapidi stanno confondendosi l’una con l’altra, non sono che uno scintillio cupo nel grigio scuro dell’aria.
E il cancello è chiuso.
Quando la notte scende, comincia l’orrore. Quello che si immagina doveroso per una ragazza intrappolata fra i morti. E quello vero. Che striscia, respira, insegue. E uccide, proprio mentre la salvezza sembra a portata di mano. Quello stesso orrore che, strisciando dall’oscurità di un tunnel, ha straziato un’altra ragazza che la madre aveva mandato a comprare carbone. Quello che si nasconderà nelle zone d’ombra di un giardino, spiando due amiche che cenano in allegria, per farne a pezzi una.
Avviene nella città di Ciudad Real, che non esiste. Ma, molto più tardi, a Ciudad Juarez, altre ragazze moriranno davvero, massacrate da un orrore senza nome. Allora, non lo sapevo. Ma quando ho avuto fra le mani L’alibi nero di Cornell Woolrich (dopo anni di letture adolescenziali che ruotavano attorno ad Agatha Christie), ho scoperto cosa significasse la paura.
Anzi, cosa significasse letteratura nera.
Woolrich non scrive, semplicemente, noir. Capita – e capita nella maggior parte dei casi, anzi – che le sue storie abbiano una spiegazione tutt’altro che sovrannaturale. Eppure, squarcia il confine. Perché l’oscurità che riesce a evocare si agita dentro il cuore di chi ne sarà vittima: è la forma sotto il lenzuolo di cui parla King. Non sei tu a toccarla, è lei che si alza e ti imprigiona in un abbraccio freddo.
Quello è stato il mio primo passo nel cono d’ombra. Da allora, ho sempre pensato che da quella oscurità si possa guardare quel che ci avviene davvero nella vita reale (a volte, addirittura, a presagirlo, come in questo caso). Anzi, per quanto mi riguarda, non riesco a fare diversamente (per fortuna).

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