TORNARE A UN’ALTRA PAZIENZA: UN ESTRATTO

Nei mesi dell’assenza, non ho comunicato qui alcune cose che mi riguardano, naturalmente ininfluenti ai fini di ciò che accade. Però. Da una decina di giorni è in libreria Roma dal bordo, che ho scritto per Bottega Errante Edizioni. Parla di questa città, a modo mio e per frammenti e dal mio punto di vista, quindi si aggiunge a infinite narrazioni su Roma (per questo è ininfluente). Alla luce di quanto penso e scrivo in questi giorni, posto qui una piccola parte di un capitolo. Quello che riguarda il  viaggiare con i mezzi pubblici. Che, come detto, è faccenda che molti dei miei colleghi dovrebbero ricominciare o cominciare a fare. Per la cronaca, dovrebbero farlo anche coloro che blaterano di privilegio ogni volta che ci si riferisce a persone che scrivono e leggono e vivono di parole. Poi si riparte proprio da qui: dal rapporto fra stereotipo e realtà.

Dunque, siamo di nuovo qui, nel quartiere che quartiere non è, dove ritorno poco prima della nascita di mio figlio. Ci sono sempre l’alimentari e le pizzerie, le assemblee con i condomini furbetti e i bar, il Bibus dentro il parco Meda. E c’è il vanto della via: la fermata della metropolitana. Che è tanto comoda. Finché non ci entri.
Come ho già detto, ho smesso di guidare a 44 anni. L’ho fatto perché una città come Roma ti impone di scegliere tra la conservazione di un briciolo di serenità e l’automobile. L’ho fatto anche perché ho studiato antropologia, e ricordo una lezione lontana in cui imparavo, grazie a Claude Lévi-Strauss, che i segnali impercettibili che un guidatore lancia, una postura delle spalle, una lieve torsione del collo,  permettono di capire all’altro guidatore che lo segue se sta per azionare le frecce, o sorpassare, o frenare, e che insomma la difesa del territorio passa anche per un’auto, e  spesso, spessissimo, per difendere quel territorio si diventa feroci come quando, trentamila anni fa, ci si contendeva un bufalo. L’ho fatto, infine, perché essere chiusi in un abitacolo non ti fa capire dove vivi, e quando leggo che alcuni letterati-eletta schiera intendono prendere finalmente i mezzi pubblici “per capire” mi viene un moto di tenerezza (anche un poco di rabbia, certo): prendendo i mezzi pubblici, si tocca con mano la disperazione e ci si sente impotenti, semmai.
Gli esercizi di memoria dicono che negli anni, tanti, prendere la metropolitana significa prepararsi a lottare, o comunque a soffrire.
Sono fogli di diario, note. Sono scritti nel tempo, e ininfluenti se presi uno per uno. Ma documentano come ci si trasformiamo in bestie, noi che usufruiamo dei trasporti pubblici romani: bestie ammassate, incazzate, inferocite, sudate, spaventate, disfatte alle otto del mattino. Tutte le otto del mattino di tutti i giorni in cui si aprono gli occhi in questa città, capitale d’Italia.
La più profonda corruzione di Roma sta nel suo andare avanti pigramente, giorno dopo giorno, senza che mai si trovi una soluzione né la si progetti: io l’ho sperimentata in vent’anni. Vent’anni di Atac. Dal 2000 al 2020, quando la pandemia ci ha fatto scoprire il lavoro a distanza. Vent’anni di due metro e un autobus la mattina, due metro e un autobus la sera. Cambio a Termini, dalla linea B alla linea A, e viceversa. Ho sopportato silenziosamente i lunghissimi lavori per l’ammodernamento della fermata di Termini, che ammodernata non è, visto che le scale mobili si rompono ogni santo giorno e quando funzionano si rischia l’effetto bowling, visto che quelle che congiungono la linea B con la linea A sono, chissà come mai, strettissime, e il flusso di persone che le percorre è, chissà come mai, enorme.
Ho sopportato chiusure di stazioni o di interi tratti durate mesi, o anni. Ho sopportato due guasti a settimana. Ho sopportato l’assenza di personale a cui chiedere notizie “perché non siamo tenuti a”. Ho sopportato la maleducazione (“signò, la metro è rotta, usi i piedi”). La mancanza di informazioni in inglese, nei ricorrenti guasti (“la clientela è pregata di uscire dar vagone”), anche quando a guastarsi è la linea A diretta a San Pietro, e dunque piena di turisti a cui solo i volenterosi passeggeri anglofoni riuscivano a dare spiegazioni su cosa accadeva e cosa bisognava fare. Ho sopportato navette imprendibili. Allagamenti. Tornelli regolarmente rotti. Secchi che raccolgono l’acqua che piove dal soffitto, alla fermata di Lepanto, da anni e anni. Ho sopportato l’ascensore che non funziona quasi mai (per mancanza di personale) a Monti Tiburtini, che tanto è periferia, e chisseneimporta di quelli che abitano fra Pietralata e Rebibbia. Ho sopportato gli scioperi bianchi del personale, la puzza, i vagoni lerci, le banchine a rischio disastro. Le sopportavo ogni giorno, insieme ad altri pazientissimi disgraziati. A volte, tutt’altro che pazienti.

Fermata Bologna. Ragazza molto lampadata, molto scollata, molto incavolata. “In metropolitana non si legge”. Ci metto un po’ a realizzare, anche perché ho ripiegato il giornale in quattro, in modo che (rapido controllo: sì, le misure coincidono) le due estremità non superino gli esigui confini dello spazio-passeggero toccatole in sorte. Accompagnatore della ragazza lampadata: “Il giornale si legge in ufficio”. Ah. Sguardo di disapprovazione da parte di altre due donne con cartellina di cuoio e aria truce. Ripiego ulteriormente il giornale e smetto di leggere.

Passaggio interno dalla linea B alla linea A. Enormi tabelloni pubblicitari Snai, società di scommesse sportive: sulla sinistra, un lui che con pollici e indici allargati allude al concetto di “avere fortuna”. Sulla destra, una lei con busto inarcato e sorriso malizioso, sulle tette la scritta “Prendila”. Linea A. Riapro il giornale. Fermata Barberini. Signora con tailleur nero: “Non si legge in metropolitana”. Per fortuna, sui sedili sotto di me, una vicina all’altra, tre ragazzine sono concentrate su altrettanti libri (nell’ordine, da sinistra a destra, I love shopping, Mille splendidi soli, La masseria delle allodole). Fermata Spagna. Passeggero ad altro passeggero: “Bastardo. Stronzo. Ti spacco la faccia. Togliti dai coglioni”. Flaminio. Passeggero di nazionalità non identificata a passeggero italiano che insiste “che c’è posto avanti” e che dunque bisogna spostarsi: “Se potrei, mi sarei spostato”. Mi guarda: “Potessi?”. “Potessi”, dico. “Rumeni di merda”, dice il passeggero italiano.

 

Linea B, ore otto del mattino.  Caos, come sempre. Ma con il tocco inedito dell’esercito: ovvero un bel drappello di soldati fuori e dentro dalla stazione.
Naturalmente, non resisto: e chiedo a uno di loro il motivo dello schieramento. Con un sorriso gentile, mi spiega che stanno sfollando clandestini. “Quali?”, gli domando, e aggiungo un “Perché?” che non si aspettava. Nuovo sorriso: “Non è normale che la gente pianti le tende nei parchi”.
Interrogandomi sul concetto di normalità, scendo le scale. Mi si affianca una coppia di signore. “Ci sono troppi zingari”, sibila una delle due. Rischiando l’ovvietà, rispondo che ci sono anche troppi pessimi italiani. Gran risata. Fine.

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