TRE CONSIGLI NON RICHIESTI PER PROMOTORI E AUTORI SELF PUBLISHING

Gino Roncaglia riprende in un bell’intervento su Il Libraio la discussione su self-publishing e mediatori e lo conclude con un interrogativo da un miliardo di dollari:
“Il vero problema è quello degli strumenti. Il self-publishing andrebbe benissimo se avessimo degli strumenti, delle pratiche, dei meccanismi di content curation e di mediazione ‘a valle’ davvero capaci di gestirlo, davvero capaci di far emergere collaborativamente le opere di maggiore interesse e qualità (e magari di aiutare i singoli autori a migliorare la qualità dei loro lavori). Nel suo intervento, eFFe sottolinea la centralità di questo punto, e ha assolutamente ragione. Oggi però questi strumenti non li abbiamo. Non li ha neanche (e per prima) Amazon.
Si possono costruire?
(no, non proverò a rispondere nel prossimo articolo: il prossimo articolo – dopo la Befana – proporrà un primo bilancio del 2015 e uno sguardo al 2016. Ma si tratta di un tema sul quale bisognerà tornare)”.
Il problema è come. In primo luogo, il concetto stesso di mediazione è in crisi, non solo in ambito culturale, come è ben noto. Detto questo, e non è nulla di nuovo, il problema delle mediazioni a valle fin qui sembra essere gestito malissimo. Immagino capiti a parecchi di trovarsi nella casella di posta inviti a recensire libri da parte di promotori che non sanno da che parte cominciare (mogli e fidanzate dell’autore, in gran numero, o amiche dell’autrice, sempre in gran numero) e che – questo mi pare il punto – non hanno voglia alcuna di capire, per esempio, come si scrive una mail.
Una sciocchezza? Neanche troppo. Nell’ultima parte di On writing King si sofferma sull’importanza di una lettera di presentazione ben scritta. Basterebbe leggere quel capitolo. E prendersi a schiaffi sulle mani ogni volta che si invia una mail copia-incollata a un gruppo di indirizzi preso non si sa da dove (classifiche dei blog letterari, per esempio) e senza aver mai verificato chi è l’interlocutore a cui ci si rivolge.
Se qualcuno si prendesse la briga di scrivere un On writing ai tempi del self-publishing, dovrebbe dedicare un’ampia sezione a questo aspetto. Perché la mail che arriva al possibile mediatore è, per forza di cose, spesso l’unico momento di contatto: in quanto il famigerato mediatore, posto che legga tutte le mail sacrificando il proprio tempo di lavoro e di scrittura, e che risponda a tutte comunque, si farà un’idea del promotore e – spesso incolpevolmente – dell’autore che il promotore rappresenta per amicizia, parentela o reale entusiasmo, da quella mail.
Se dovessi dare qualche consiglio non richiesto, direi:
– Riscrivete la mail più volte. Gli errori di italiano o un italiano zoppicante vi condanneranno in una manciata di secondi.
– Sappiate a chi parlate. E non per presunzione del ricevente: ma leggete i blog a cui vi rivolgete, informatevi sui titolari, fatevi un’idea di cosa si occupano. Non importa se qualche forum vi dice “quello è un blog letterario”. Ci sono enormi differenze fra blog e blog. Alcuni fanno recensioni, altri no, per esempio. Alcuni svolgono un servizio di lettura – a pagamento o meno – altri no. Non sono tutti uguali. Così come un editore non è uguale all’altro. Se scrivete a, che so, Bollati Boringhieri offrendo un romanzo fantasy è probabile che non avrete mai risposta. Per i blog è lo stesso.
– Non siate maleducati. Scrivere, per esempio, “vi contatto per proporre la pubblicazione (gratuita) della recensione allegata relativa al nuovo libro di XY”, come è capitato a me ieri sera, è un’offesa. Perché presuppone che l’interlocutore si faccia pagare per recensire un libro sul proprio blog. D’accordo, qualcuno lo fa. Ma, appunto, informatevi sul destinatario della vostra mail. E, possibilmente, quando la vostra interlocutrice si offende, non datele della vecchia rincoglionita. Finirete nello spam a vita, e con voi l’incolpevole autore che state promuovendo.
Detto questo, è molto probabile – o addirittura quasi certo – che le vostre mail non sortiranno l’effetto desiderato. Perché sono troppe, come si è detto la volta scorsa, e perché gli algoritmi non bastano, come scrive Roncaglia.  Però non perderci sopra almeno dieci minuti significa che quel mediatore cui vi rivolgete è qualcuno che in realtà disprezzate. Almeno, imparate a far finta che non sia così.

6 pensieri su “TRE CONSIGLI NON RICHIESTI PER PROMOTORI E AUTORI SELF PUBLISHING

  1. Io cambierei con: il self-publishing va già benissimo, ma sarebbe utile avere degli strumenti accessori. Utile, non necessario. Il self-publishing serve a rendere non puzzolente la spazzatura, e lo fa già benissimo. Gli strumenti si possono certamente costruire, e soprattutto essere usati per fare cassa. Anche perché non vedo il senso di costruire quello che già c’è per l’editoria classica, e che ha un senso solo in virtù della qualità delle opere che produce. L’uncio senso è farsi pagare. Se non ti fai pagare perdi solo tempo prezioso a leggere spazzatura.

  2. “Il self-publishing serve a rendere non puzzolente la spazzatura, e lo fa già benissimo”
    Dando per scontato che resti spazzatura, immagino.

  3. Beh, intanto la metafora l’ho usata nell’ottica di chi ragiona in maniera critica di self-publishing (non io). Poi non do per scontato che il livello medio delle opere resti identico. Può anche crescere nel tempo, non saprei. Ma l’eccellenza è intrinsecamente minoritaria, e il tempo umano piuttosto stabile. Per me non ci sono problemi, anzi, se più persone scrivono e pubblicano. Però se si dice sempre che l’editoria classica pubblica troppo, allora in quest’ottica è bene che le opere in eccesso siano nascoste. Se poi il livello sale tanto meglio. Ma il punto è che gli strumenti che si richiedono in questo articolo sono semplicemente i quattrini. Nell’editoria classica i quattrini ci sono, poiché ci sono i lettori. Nel self-publishing no, e nessuno (o quasi) si mette a fare il lavoro di filtraggio a gratis, a meno che i quattrini non ce li mettano gli aspiranti stessi. Anche perché è un fatto che la maggior parte delle opere prodotte è brutta, non vale la pena di leggerla, ed è quindi una follia pensare di coinvolgere le persone al fine di vagliare opere brutte. Roncaglia e company dovrebbero capire che il senso del self-publishing è dare spazio a chi non è abbastanza bravo da ricavarselo. È un po’ come il calcio amatoriale. Ora bisognerà cominciare a guardare tutti i campi di calcio amatoriali perché hai visto mai ci scappi un fenomeno? Vogliamo le trasmissioni di calcio su tutte le partite giocate o semplicemente il calcio amatoriale sta bene nel suo anonimato, ed è felice di pagare due spicci per il campo, e ogni tanto per l’arbitro nei tornei amatoriali?

  4. Posso dare anch’io un consiglio? Autopubblicare i propri libri è stupendo: si evita di cadere nelle maglie dell’editoria a pagamento, e si possono produrre come vogliamo noi, senza essere influenzati da esperti che nella maggior parte dei casi sono solo esperti di marketing, e forse nemmeno.
    La cosa più interessante, e divertente, è trovare un modo efficace per venderli. La mia piccola esperienza, nemmeno troppo breve, ormai di tredici anni, è la vendita ambulante.
    Fermo le persone per strada, faccio degli incontri fantastici, famiglie con bambini a cui dire poesie, altri poeti, scrittori, persone che ti aprono la porta di casa, che organizzano delle serate insieme agli amici… insomma una esperienza straordinaria.
    Certo, ci vuole coraggio, soprattutto all’inizio. Bisogna avere anche un po’ di faccia tosta, e bisogna fregarsene dei giudizi degli altri, e delle rispostacce che potrebbero arrivare.
    Ma si riesce a vivere, garantito. Si riesce a vivere se ci si accontenta, e se è quello che veramente dobbiamo fare nella vita.
    Tanti cari saluti.

  5. Concordo con Loredana e Gino. Il selfpu non ha gli strumenti per far emergere collaborativamente le opere che meritano successo. Ma, come argomenti tu Loredana, non li ha molto spesso per i limiti che mostrano i neofiti dei social, destinati a vivere ai margini delle comunità di rete non perché incapaci di trovare le parole giuste per promuovere questo o quell’ebook ma perché ancora sufficientemente (auto)educati alla cultura dei social. E poi: l’editoria classica quegli strumenti li ha? Certo che li ha: è una possibile risposta, che (in parte) condivido. Ma poi obietto: per chi li usa, quegli strumenti, e come li usa? E in che cosa consiste il merito del successo editoriale, almeno nell’accezione oggi corrente? Tante questioni che restano sospese. E che, avendole personalmente maturate in quasi mezzo secolo di militanza dentro l’universo editoriale, mi hanno spinto a sperimentare (anche in chiave produttiva) il self publishing. Per curiosità ma anche per disperazione. E qui, se si volesse, si potrebbe aprire un altro discorso. Che, io credo, se fosse fatto serenamente, almeno in questa fase, porterebbe allo stesso esito di un’ipotetica discussione tra un postino e un utente di email: sono due mondi diversi e le categorie dell’uno sono inutilizzabili per l’altro.

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