Tre segnalazioni e un titolo da cambiare

Segnalazione numero uno: le perplessità sollevate qui dal nuovo film Disney-Pixar, “Brave”. Da leggere.
Segnalazione numero due (in ritardo): la pubblicazione in Italia del saggio di Natasha Walter (ricordate? La bellissima – e mai banale,  superficiale o furbetta – discussione al Festival di Internazionale con Beatriz Preciado e Michela Marzano, dove la febbricitante sottoscritta moderava), Bambole viventi.
Segnalazione numero tre: il ritorno di Eve Ensler raccontato oggi proprio da Michela Marzano, che giustamente bacchetta l’editore per la scelta del titolo, francamente sconsolante. Qui:

E’ conosciuta per i suoi Monologhi della vagina. Ormai tradotti in più di trenta lingue e portati in scena ogni anno in tutto il mondo. Ma Eve Ensler non è solo l´autrice di questa famosa pièce teatrale diventata un simbolo per molte. È anche e soprattutto una scrittrice impegnata e una femminista convinta che, da più di vent´anni, si batte contro le violenze sulle donne. La Ensler vuole che la gente si renda conto che, nonostante tutti i progressi e i discorsi e l´impegno, la violenza che subiscono le donne continua ad essere uno dei più grandi flagelli contemporanei. E per questo ha deciso di non fermarsi mai.
Così dopo aver dato vita nel 1998 al movimento del V-Day, che ogni anno organizza eventi e manifestazioni creative (sarà a Milano il 2 aprile al teatro dell´Elfo Puccini), continua a scrivere, a recitare, a pubblicare. Perché l´arma più efficace contro la violenza è la parola: parole per dire quello che per tanto tempo si è taciuto, parole per battere la vergogna, il senso di colpa, la paura, la solitudine.
Un metodo, il suo, che ha infranto molti tabù. “Parlare del non detto. Parlare del già detto in modo nuovo e vitale, parlare del dolore, parlare della fame. Parlare. Parlare della violenza sulle donne”. È così che inizia l´ultimo libro di Eve Ensler, A Memory, a Monologue, a Rant and a Prayer. Una raccolta di memorie, monologhi, invettive e preghiere recitate a New York nel 2006, durante il festival Until the Violence Stops.
Una serie di testi inediti sul tema delle violenze contro le donne che la Ensler aveva chiesto a scrittrici e scrittori (c´è anche Dave Eggers) per invitare i newyorchesi a prendere posizione e fare in modo che il mondo diventasse un luogo più sicuro per tutte le donne e tutte le bambine. Perché il meccanismo della violenza è perverso: non solo controlla e sminuisce le donne mantenendole al “loro posto”, ma le distrugge. Visto che è estremamente difficile, per una donna che subisce violenze e umiliazioni, confessare ciò che ha vissuto o continua a vivere. Le parole mancano, si balbetta, non si riesce a spiegare esattamente ciò che è successo. Ci vogliono anni per poter riuscire ad integrare questi “pezzi di vita” all´interno di un racconto coerente. Eppure è solo raccontando le storie di questa violenza che si può legittimare l´esperienza femminile, svelando ciò che accade nell´oscurità, lontano dagli sguardi. Quando tutto sembra “perfetto”, come il matrimonio di cui parla Edward Albee e che dopo qualche anno si frantuma, perché “lui” ama i lividi e il sangue, mentre “lei” non sa più che fare: “Chi ero io? Chi sono io? Non c´è niente da fare. Non posso andarmene”. È solo scrivendo che si può veramente denunciare la barbarie del razzismo, quando sembra “normale” che una donna di colore sia violentata perché “il suo corpo, come i corpi di tutte le donne nere, non le è mai appartenuto davvero; o forse non è mai appartenuto solo a lei”, come scrive Michael Eric Dyson. Solo le parole possono trasformarsi in preghiera, perché per fermare questa violenza, come dice Alice Walzer, la donna deve cominciare a “fermare la violenza contro se stessa”.
L´antologia curata da Eve Ensler è libro particolare ed emozionante, tradotto ora anche in italiano da Annalisa Carena per Piemme. I monologhi e le invettive non sono tutti dello stesso livello. Ma esistono alcune perle che rendono il libro molto bello. Peccato che l´editore italiano abbia voluto cambiare il titolo per trasformarlo in un ormai banale: Se non ora quando? Anche perché l´antologia curata dalla Ensler non è solo un “evento editoriale”. Era nato perché la parola delle donne si liberasse all´insegna della lettera “V” (Vittoria, Valentino – visto che il primo fu fatto il 14 febbraio – Vagina) del V-Day. Ma poi è diventato un´opera narrativa, sociale, politica, il cui messaggio universale non può ridursi ad un semplice slogan.
Certo, non si potrà mai definitivamente eliminare l´ambiguità profonda che ogni essere umano si porta dentro. Nessuno di noi è immune dall´odio, dall´invidia, dalla volontà di dominio. Ma le parole aiutano a ritrovare un senso. Aiutano, non solo a dire, ma anche a fare, come hanno spiegato bene i filosofi americani Austin e Searle. Perché il linguaggio è sempre performativo. È un azione, che può cambiare il mondo.

13 pensieri su “Tre segnalazioni e un titolo da cambiare

  1. sono d’accordo con te!! il libro per fortuna offre buoni spunti, l’ho sfogliato ieri all’arrivo
    buon lavoro Loredana
    Nicoletta

  2. Sinceramente l’articolo su Brave non mi convince affatto. A parte che un trailer non è sufficiente a valutare tutto un film (anche perché non sappiamo se la selezione delle scene è stata fatta dagli stessi autori o da un ufficio marketing), ma mi sembra che il tipo di critiche avanzate sia espressione di femminismo della differenza: cosa vuol dire che il tiro con l’arco non è una “arte muliebre”? Cosa vuol dire che una ragazza non può essere vestita di marroncino ma per forza di colori pastello?
    Semmai, secondo me, il problema è un altro: raccontare una storia di emancipazione e scegliere una ambientazione del passato è una strada comoda. Oggi ormai anche i conservatori sono d’accordo che non ci devono essere lavori o attività in genere vietati alle donne, le discriminazioni di genere si sono spostate a un livello meno formale ma ancora molto sostanziale. Raccontarci ancora di eroine che hanno sfidato le discriminazioni del passato rischia di darci il frame sbagliato per interpretare le discriminazioni del presente. E questo è un discorso che può essere esteso a ogni tipo di conflitto.

  3. non sono d’accordo sulla lettura del trailer di “brave” nell’articolo segnalato (la tesi è che “l’eroina viene presentata realizzata e vincente proprio perché si fa maschio”). La damigella Merida non strappa i panni femminili per farsi maschio, sono i panni imposti dalla società, creati per una donna cui l’unico ruolo concesso è di premio in palio della gara, che le stanno stretti e non le consentono di autodeterminarsi, e dunque si scuciono quando lei prende in mano il suo destino (gli arcieri “compete for the hand of the fair maiden”, che invece dichiara: “I am Merida and I will be shooting by my own hand!”). E tra l’altro si presenta al tiro senza più velo e soggolo, a capo scoperto, con lunghi ricci sciolti e ribelli, considerati femminili nel film (il re commenta con derisione i capelli lunghi di uno degli arcieri maschi), e certamente dagli spettatori di oggi.

  4. Ho letto anche io le critiche a “Brave” come forse troppo critiche, l’autore stesso si ricrede sul mooning dopo alcuni commenti, e la scena della freccia (da lui definita simbolo fallico) è quasi “paro paro” quella di un altro classico Disney, Robin Hood. Ho comunque apprezzato il post perché stimola riflessioni interessanti.

  5. Bello l’articolo di Marzano, ottima l’idea di informare sulla traduzione italiana di “Living Dolls”. Consiglio questo libro davvero a tutte, sia perche’ offre un’analisi veramente intelligente dei veri parametri di “liberta’ di scelta” e dei modelli offerti alle giovani donne al momento attuale (si tratta di un’analisi applicata alla societa’ inglese ma secondo me funziona, a fortiori, anche per l’Italia) sia perche’ e’ un libro che non getta la spugna, ma che contesta gli stereotipi di genere e, soprattutto, la pretesa che essi descrivano la “natura” delle donne.
    Sulla critica a “Brave” invece, quoto a pieno Skeight e Francesca. Anche se si tratta di un’analisi ben argomentata, trovo ingiusto stroncare a priori un film basandosi semplicemente sul trailer (anche se in teoria questo dovrebbe essere rappresentativo del film).
    Entrando nel merito dell’analisi proposta, poi, non sono d’accordo quasi su nulla: dire che una donna si emancipa facendosi maschio non vuol dire nulla – prima non dovremmo definire criticamente cosa e’ femminile e cosa maschile?
    Dare per scontato che il tiro con l’arco, la casacca marrone (che poi a ben vedere e’ un corsetto) siano “cose da maschio” e che la freccia sia un simbolo fallico, mi pare un po’ fare del “femminismo della differenza” facile.
    Anche di omofobia, nel trailer, francamente io non ce ne vedo (ma questa e’ una percezione soggettiva). L’arciere dalla lunga chioma mi pare non venga preso in giro in quanto effeminato ma in quanto vanesio e molto concentrato su se stesso (e cmq l’aggettivo “lovely” in British English si usa praticamente per tutto, come sinonimo di “nice”… “A lovely day”, “A lovely cup of tea”… “Lovely!” lo esclamava persino la mia prof di inglese, madrelingua, quando in classe uno di noi – uomo o donna – pronunciava bene qualcosa. In questo contesto, l’aggettivo e’ ovviamente ironico, ma con connotazione non peggiore di un “nice” – significa solo “bello/bravo” o “carino”).
    Il mooning puo’ anche essere considerato di cattivo gusto (e’ di certo umorismo a grana grossa) ma non ce la vedo come provocazione omoerotica in questo contesto. Pareri miei, eh.
    Sul fatto che invece “Brave” giochi facile, siamo abbastanza d’accordo. Rivendica diritti talmente basilari che potrebbe piacere anche ai piu’ conservatori e la protagonista potrebbe finire senza troppi problemi nella schiera delle “principesse” Disney: non rivendica certo piu’ asili nido e la pillola del giorno dopo, ma semplicemente di non sposare qualcuno scelto dai suoi genitori a mezzo torneo. E fin li’…

  6. Intendevo ovviamente scrivere *NON* trovo ingiusto stroncare a priori un film basandosi semplicemente sul trailer

  7. LLa prima riflessione è un accumulo di stravaganti perifrasi. La combinazione vanità-effeminatezza-omosessualità nasce da un retaggio culturale così sofisticato che è superfluo tirare in ballo quando si ha davanti, più semplicemente, un personaggio che allude a certi sportivi capelloni e “vanitosi” (abbastanza chiaro, se si sta attenti anche a quel che succede dopo). Quindi non vedo proprio come ci si possa evitare una sana rasoiata di Occam. Inoltre, in questo modo, è il Nostro, e non lo sceneggiatore, che casca come una pera matura affermando un concetto che può stare in piedi soltanto se si accetta un pre-concetto, che ora sappiamo appartenergli.
    Con la seconda interpretazione, che riguarda un gesto meglio conosciuto come “mostra-culo”, il Nostro dimostra di essere del tutto fuori strada. Evidentemente, bisogna dare una ripassata al vocabolario (e farsi un minimo di cultura cinematografica), perché qui il procedimento errante è del tutto simile a quello descritto nel raccontino sui Balabiott di Mario Biondi (reperibile in rete per chi vuole). Un errore veniale se si tratta di Platone in una versione di greco, ma potenzialmente pericoloso nella realtà quotidiana quando magari si ha a che fare con gente che si diverte facendo pernacchie in discoteca. In questo caso, si tratta di scozzesi medievali in kilt, e direi che è del tutto verosimile il ludibre gesto (più di quanto lo fosse nell’altro “brave”…).
    Per quanto riguarda il discorso su simboli fallici come la freccia, la pistola, lo space shuttle, il missile, la bottiglia, l’automobile, il campanile, etc, mi viene in mente una mia amica che li vedeva dappertutto e poi si lamentava perché qualcuno ridacchiava della banana che si portava al lavoro per merenda. Chi è causa del suo mal, non rompa i cojoni agli altri.
    In quanto ai trentadue generi, credo che questo sia un problema che i pene-dotati non si pongono, in quanto il sistema binario lo vivono benissimo. Quanto al resto, queste sociologhe, che fanno fatica a capire persino qual è il loro obiettivo, non capiscono che non c’è analisi sui generi che tenga se non si parte dal fatto che l’uomo non ha alcun bisogno delle donne per venerare il “maschio” esattamente come non ne ha mai avuto per innalzare sugli scudi un camerata.

  8. Torno a commentare perché, pensando al libro di Ensler, mi è tornato in mente un esempio analogo: nel 2010 Feltrinelli ha pubblicato il libro di Muhammad Yunus “Building social business” intitolandolo “Si può fare”, in una curiosa commistione di economia sociale e veltronismo…

  9. (OT @Skeitght – e vogliamo parlare della curiosa commistione fra veltronismo e frasi topiche di Frankenstein Junior? A insaputa di Veltroni, of course)
    (Ho fatto casino con le doppie negazioni, per favore ignorate il mio secondo commento qua sopra. La vecchiaia, la stanchezza e il jet lag insieme tirano brutti scherzi.)

  10. Mah, che ha fatto la Disney? Ha preso il tema della principessa e dei pretendenti, i quali devono sfidarsi, simultaneamente, o in successione, ad una prova, o gara, il vincitore della quale otterrà la mano della principessa. In alcune varianti la prova è proposta dal padre della principessa, in altri dalla principessa stessa, in alcuni casi lo sfidante è il padre della principessa (Pelope ed Oinomao: mito di fondazione delle gare di Olimpia) in altre la sfidante è la principessa stessa (Atalanta, Turandot). Si intende che questi racconti presuppongono una società in cui il potere passerà pure attraverso le donne (sposando la principessa), ma i detentori sono uomini (il padre della principessa, il pretendente che vincerà la gara). Dunque, Disney fa l’operazione “correct”: mette in discussione il quadro, e la principessa, rifiutandosi di essere un premio in palio ed un tramite, prende in mano il suo destino e smette di aspettare il principe vincitore. E’ una favola adattata alle nostre nuove esigenze, perché non piace? Perché non ci piacciono gli elementi vecchiotti? La competizione? Le armi? I re e le principesse? Il colore del corsetto? A parte che da piccola tiravo d’arco.

  11. Scusate l’aggiunta: le favole sono piene del motivo della ragazza che si finge uomo per agire alcunché di riservato agli uomini, qui invece, coerentemente con l’impostazione “correct”, è il contrario: la principessa rivendica la sua identità e la agisce in un modo fino ad allora interdetto al suo genere. Tutt’al più si potrebbe osservare che velo e soggolo non li potavano le pulzelle ma le maritate, ma per fortuna le favole disneyane non sono tenute alla correttezza filologica della storia del costume.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Torna in alto