“Don Giuseppe pianamente gli spiegava che il lavoro dello storico è tutto un imbroglio, un’impostura: e che c’era più merito ad inventarla, la storia, che a trascriverla da vecchie carte, da antiche lapidi, da antichi sepolcri; e in ogni caso ci voleva più lavoro, ad inventarla: e dunque, onestamente, la loro fatica meritava più ingente compenso che quella di uno storico vero e proprio, di uno storiografo che godeva di qualifica, di stipendio, di prebende. «Tutta un’impostura. La storia non esiste. Forse che esistono le generazioni di foglie che sono andate via da quell’albero, un autunno appresso all’altro? Esiste l’albero, esistono le sue foglie nuove: poi anche queste foglie se ne andranno; e a un certo punto se ne andrà anche l’albero: in fumo, in cenere. La storia delle foglie, la storia dell’albero. Fesserie!»”
Dicembre, 1782. Incaricato dal viceré di mostrare ad Abdallah Mohamed ben Olman, ambasciatore del Marocco, la bellezza di Palermo, l’abate Giuseppe Vella concepisce un disegno audacissimo: far passare il manoscritto arabo di una qualsiasi vita del profeta, conservato nell’isola, per uno sconvolgente testo politico, Il Consiglio d’Egitto, che permetterebbe l’abolizione di tutti i privilegi feudali e potrebbe perciò valere da scintilla per un complotto rivoluzionario. Così «dall’ansia di perdere certe gioie appena gustate, dall’innata avarizia, dall’oscuro disprezzo per i propri simili, prontamente cogliendo l’occasione che la sorte gli offriva, con grave ma lucido azzardo, Giuseppe Vella si fece protagonista della grande impostura».
Quell’impostura venne raccontata da Leonardo Sciascia nel più bello dei suoi romanzi, che si chiamava appunto Il consiglio d’Egitto. Qual è dunque l’impostura in cui ci muoviamo, con grave ma non lucido azzardo? Quella di continuare a pensare che la realtà sia divisibile in assoluta verità e assoluta menzogna.
Provo a spiegare. In queste settimane, ma dovrei scrivere mesi, assisto a una visione terribilmente dicotomica della realtà che stiamo attraversando, e in questa visione è sempre più difficile esprimere un invito alla riflessione senza venir tacciati di collusione col nemico.
Il mio nemico è sempre quello, e chi legge questo blog lo sa da anni. Il fascismo in ogni sua forma e parvenza e nominazione. La disuguaglianza, in ogni sua forma e parvenza, si tratti di disuguaglianza di classe o di genere. L’ammiccamento all’istinto, al “sono gli altri che mi hanno fatto un torto, io sono puro”. Niente di nuovo, come si vede.
Di nuovo c’è che trovo non utili le forme di opposizione che si stanno praticando, che sono tutte di rilancio di quanto dice o fa o dice di fare l’avversario. Sempre di sponda. Sempre, o quasi sempre, con la ridicolizzazione altrui: l’errore grammaticale, l’ignoranza, la volgarità. Fesserie, e fesserie suicide, a mio modesto parere. Di nuovo c’è anche che è diventato difficile dirle, queste cose: e se già era difficile prima perché com’è noto gli intellettuali non devono parlare (e infatti vengono sempre accusati di non parlare), adesso si chiede loro di esprimersi con una semplificazione che non è utile, oltre a non corrispondere alla realtà, e che è anzi dannosa. Poi, certo, a un certo punto se ne andrà anche l’albero: intanto, però, occorrerebbe provare a preservarlo.
“Quando discutete con gli avversari non usate mai il loro linguaggio”. Non pensare all’elefante!, George Lakoff, 2006.