UNA DELICATEZZA TRISTE E FALSA: SULLA CENSURA SOTTILE AI LIBRI

Camminando nella strana nebbia romana, questa mattina, pensavo a quali libri avrebbero vita durissima se fossero pubblicati oggi: certamente American Psycho, certamente Lolita (cui, se ricordate, si dedicò Rebecca Solnit, non positivamente). Ecco, pensando a Lolita mi è tornata in mente Azar Nafisi, che tutti noi abbiamo conosciuto e amato per Leggere Lolita a Teheran. Leggere, ovvero, un libro che è duramente contestato da non poche femministe come segno di libertà. Allora, in tempi in cui l’ombra malintesa della correttezza si allunga giorno dopo giorno (e diamine, leggere più autrici donne non significa non leggere, in nome di quella correttezza presunta, capolavori della letteratura), ho pensato di aprire la settimana con due estratti di un altro libro di Azar (donna e femminista, vorrei sottolineare: come me, vorrei sottolineare), la Repubblica dell’immaginazione. Vediamo se aiutano.
«Tenete solo presente» dissi loro «che nella primissima pagina Huck trasforma civilization in sivilization. Questa è una chiave di lettura del libro: una piccola variazione ortografica sovverte il significato e le implicazioni della parola. Delle parole chiave di questo libro – come “rispettabile”, “coscienza”, “cuore”, “bianco”, “negro” –, nessuna ha il suo significato convenzionale. Ricordate il discorso che abbiamo fatto la settimana scorsa sulla parola “soprasotto”? Vale per Alice nel Paese delle meraviglie e, in un contesto diverso, per Huck Finn».
Volevo che cogliessero la sediziosità del testo, che lo percepissero come avrebbero potuto fare i primi lettori di Twain. Nima, un mio allievo che adesso vive negli Stati Uniti, di recente mi ha ricordato che durante uno dei miei ultimi corsi in Iran avevo fatto un gran baccano per una cattiva traduzione di sivilization. Un giorno uno studente mi aveva portato la traduzione persiana di Huck Finn e mi aveva fatto notare che il traduttore, armato di buone intenzioni, aveva semplificato la vita ai lettori rendendo la parola nella sua ortografia persiana corretta.
In aula era nata una lunga discussione sul problema dell’integrità e sul fatto che in tutti i romanzi e anche in quello – anzi, forse specialmente in quello – le parole sono carne e sangue, oltre che anima e spirito. Si possono interpretare a piacimento, ma non si ha nessun diritto – nessun diritto – di mutilarle o di sottoporre il testo a interventi di chirurgia plastica per motivi di comodità o di gusto personale.
Questo scambio mi tornò in mente vent’anni dopo, a Washington, quando un altro editore benintenzionato si prese la briga di espungere dal testo un’altra parola, molto più ingiuriosa, sostenendo che non vedeva la ragione di offendere la sensibilità dei lettori moderni. A essere eliminata dalla sua edizione fu la parola «negro», che nel libro viene utilizzata duecentodiciannove volte.
Ma quell’editore non fu il primo a preoccuparsene. Nel 1957 la National Association for the Advancement of Colored People disse che Huck Finn conteneva offese razziali, e dal 1976 l’accusa riaffiora ogni dieci anni circa, in una forma o nell’altra. Toni Morrison è intervenuta in modo pregevole sull’argomento, sostenendo che «l’ottuso trattamento dell’offesa che l’utilizzo del termine “negro” da parte di Mark Twain arrecherebbe agli studenti neri e dell’effetto corrosivo che avrebbe sugli studenti bianchi» era «una forma di censura purista ma elementare, fatta per ammansire gli adulti, più che per educare i bambini.Amputare il problema, metterci una pezza». Quindi, l’editore era in buona compagnia, ma nessuno, prima, aveva davvero osato manomettere il testo.
Ho seguito con orrore l’ultimissima riproposizione di questa controversia, incollata alla puntata di 60 Minutes dedicata al tema. Borbottavo furiosamente tra me e me e prendevo appunti. Ho ripensato ai professori e agli editori iraniani: come il Tricheco e il Falegname di Attraverso lo specchio, che mangiano le ostriche piangendo, cancellavano dai libri espressioni come «vino» e «fare l’amore», e poi adducevano complicate giustificazioni di comodo.
Certo, in questo caso c’era una differenza: l’editore di NewSouth Books ha diligentemente spiegato che non aveva modificato il testo per ordine del governo e che la gente aveva tutto il diritto di dissentire e leggere la versione non censurata, sempre disponibile. In Iran, invece, quasi tutti gli editori e gli insegnanti erano d’accordo sulla censura dei testi, perché in caso contrario avrebbero subìto gravi ripercussioni. La censura di Huck si basava su un senso di indignazione morale: l’editore, nato nell’Alabama, aveva assistito alle lotte di Martin Luther King e degli altri leader del movimento per i diritti civili. Quell’esperienza l’aveva trasformato e, modificando il libro, voleva soltanto fare ciò che riteneva giusto.
Nelle società democratiche, per esprimere i nostri pregiudizi non usiamo i metodi barbari dei regimi autocratici; troviamo metodi nuovi e perniciosi. Lo scopo dell’istruzione è impartire la conoscenza, e la conoscenza non è solo eretica ma anche imprevedibile, e spesso scomoda. Fermiamoci a immaginare che cosa vorrebbe dire censurare dai nostri libri di testo tutti gli aspetti scomodi. Se non riusciamo a guardare al passato così com’è, potremo mai sperare di insegnare la storia?
«La delicatezza – una delicatezza triste, triste e falsa» scrisse Twain all’amico William Dean Howells «sottrae alla letteratura le due cose più belle che possiede: i racconti di famiglia e le storie oscene». Twain voleva scioccarci, farci sentire a disagio, scrollarci dalla nostra pigra acquiescenza. E voleva emozionarci. «Non dite che la vecchia gridò» suggerì. «Portatela in scena e fatela gridare». La cosa che ci disturba, di Huck Finn, è che sentiamo fin troppo bene il grido, e forse non è quello che avevamo in mente quando ci siamo messi a leggere le avventure di un ragazzino che discende il Mississippi.
L’uso della parola «negro» in Twain dimostra più di ogni altra cosa a che profondità e con quali perniciose conseguenze le giustificazioni della schiavitù fossero radicate nella mente degli americani. Ogni volta che viene usata, questa parola viene messa in discussione, sovvertita, destabilizzata e screditata allo stesso tempo – nella stessa maniera in cui termini come «rispettabile» o «bianco» vengono trasformati e compromessi.
Quando Huck racconta alla zia Sally che è rimasto ucciso solo un negro e lei si rallegra allora che non sia rimasto ucciso nessuno, questo la dice lunga – non solo sulla non-umanità degli schiavi, ma sulla totale cecità di una brava donna timorata di Dio”.
(…)
“Gli studenti davano istintivamente voce a un’idea che alcuni insegnanti e teorici accademici hanno del tutto ignorato: che la letteratura è, nella sostanza, un’indagine sull’«altro» – un termine usato in maniera così stantia e rigida da aver perso il suo significato originario, che oggi non rimanda più alla vera differenza, quanto all’identificazione di sottoculture ed etnie per classificare le persone dentro categorie sempre più limitanti. Anche lasciando da parte l’attuale ossessione invalidante del politicamente corretto – una dottrina fatta di domande comode e facili risposte preconfezionate –, resta il fatto che la maggior parte della gente si annoia a leggere, scrivere e parlare costantemente di sé. I libri non dovrebbero servire a mettere in discussione le nostre opinioni e i nostri pregiudizi, anziché ad affermarli? «Perché dovremmo leggere di cose che conosciamo già?» chiesi ai miei studenti. Va benissimo scoprire le nostre differenze e accettarle – e a volte celebrarle –, ma la vera sorpresa arriva scoprendo quanto ci somigliamo, quante cose abbiamo in comune. Nessun capolavoro artistico o letterario sopravviverebbe alla prova del tempo se non fosse, in un senso profondo, universale”.

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