UNA MAIL DI SILVIA, DALLA PROVINCIA DI BERGAMO

Ci sarà un tempo in cui ai tavoli dei convegni qualcuno sarà chiamato a rappresentare i sopravvissuti alla pandemia? Me lo chiedo in questi giorni, complice un assai arguto post di Claudia Durastanti sulle scritture che si articolano attorno al trauma: in questo caso il trauma, insanato, è quello del razzismo e dell’odio sociale. La domanda può sembrare strana e persino inopportuna, ma ha una sua profonda pertinenza in come siamo fatti, nella nostra coazione a incasellare, qui le donne che parlano di donne, qui i neri che parlano di neri, e le stesse persone solo con enorme difficoltà si chiamano nelle grandi discussioni letterarie.
Forse non succederà, perché siamo stati tutti, in modo diverso, toccati da quello che è avvenuto e avviene ancora, e di cui non avevamo memoria. E di cui ancora oggi non abbiamo contezza completa.
Dunque, intanto, parliamo, e ascoltiamo soprattutto. Silvia Marchini, che conosco solo su Facebook, mi manda questo, e io lo accolgo. Silvia vive nella provincia di Bergamo.

“Ho bisogno di raccontare le cose a qualcuno che non ha vissuto quello che abbiamo passato qui durante due terribili, lunghissimi mesi, perché forse così facendo riuscirò a trovarne il senso e a ricominciare senza tutta questa cosa irrisolta che mi porto sulle spalle.
Credevo che aver visto morire mio padre per infarto, vent’anni fa, sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe potuto ridimensionare la mia visione della vita, ma mi sbagliavo profondamente. Quello che ho vissuto in questi mesi terribili è stato ancora più sconvolgente e posso dire con estrema onestà che la Silvia del 22 febbraio, non è la stessa di oggi, 05 giugno. Migliore o peggiore non l’ho ancora ben capito, ma è garantito che non sia più la stessa e con questa cosa devo fare i conti se voglio affrontare la mia “fase due”. Sono stati giorni a dir poco surreali, fatti di paura, stordimento, angoscia, frustrazione, ma soprattutto di dolore lacerante, continuo. Non c’è famiglia che non sia stata colpita da un lutto, che non abbia vissuto la disperazione di salutare al pronto soccorso un primo caro, sapendo che probabilmente sarebbe stata l’ultima volta. Ci sono stati momenti in cui credevo che o sarei impazzita o sarei morta di infarto pure io, tanto mi faceva male il cuore. Nel gruppo WA delle mie amiche cinefile, c’è stato un periodo in cui una ragazza aveva entrambi i genitori malati, a casa e da soli, a 30 chilometri da lei che non poteva muoversi. Erano i giorni in cui le ambulanze spesso non prelevavano nemmeno i malati, perché non c’era più posto in nessun ospedale e dove c’era il posto, non c’era ossigeno a sufficienza per tutti. Siamo state aggrappate giorni e notti al telefono, in attesa di notizie, senza poter fare N I E N T E. Ed è questo che mi ha ferito più di tutto in questa maledettissima storia, la frustrazione di non poter far nulla, nemmeno prendere la bicicletta e andare ad abbracciare quell’amica che sai appesa alla telefonata dei medici e portarle una torta, un gelato, un libro. Niente! Come non ho potuto andare da mia madre, con la dovuta cautela, a dirle che una delle sue migliori amiche era morta; ho dovuto farlo al telefono, brutalmente, perché proprio mentre ci stavamo parlando si sono sentite le campane a morto e lei mi ha chiesto “chi è morto questa volta?” Gliel’ho dovuto ripetere tre volte; era così stordita che non riusciva nemmeno ad associare quel nome alla morte. Beffardo che quella signora rientri negli ultrasettantenni delle statistiche, in quei numeri che tanto hanno distorto la portata di questa pandemia, perché io so che quella donna non era una vecchina decrepita. Era una donna ancora bella, una di quelle che vanno dal parrucchiere tutte le settimane, curata senza essere eccessiva, divertente. Mi monta una rabbia se penso che è stata più di dodici ore nel suo letto, perché non si riuscivano nemmeno a trovare le pompe funebri; mi strazia sapere che l’hanno infilata nella cassa così com’era, in pigiama, senza nemmeno farle indossare quel vestito che si era scelta per il suo ultimo viaggio e per il quale tante volte avevo preso in giro lei e mia madre, quando se ne uscivano con le loro disposizioni per il funerale. So che può sembrare stupido (o forse lo è davvero, se lo si pensa rispetto alla tragedia di cui stiamo parlando), ma io non riesco a superare proprio queste “piccolezze”. Il fatto che non si sia nemmeno potuto rendere un saluto dignitoso a chi ci ha lasciato, non poter abbracciare chi veniva colpito dal lutto; saperli sepolti con il camice dell’ospedale e il pannolone, a me spezza il cuore di dolore e di rabbia. Quante volte mi sono chiesta se il fatto di aver sempre letto così tanto, non si sia rivelato controproducente in questo periodo; nella mia testa, allenata dalla lettura e soprattutto da un certo tipo di lettura, si sono create delle immagini che non riesco a cacciare. Non le ho viste con gli occhi, ma nella mia testa ci sono e, ripeto, pur sapendo che si tratta di un aspetto “banale”, io non riesco a cancellarle. Sapevo che sarebbe stato difficile il “dopo”, sapevo che passato lo stordimento e la paura dell’immediato, avremmo dovuto fare i conti con il dolore irrisolto e adesso quel momento è arrivato. Forse è per questo che cerco di trovare un senso a tutto questo, è per questo che vorrei fosse fatta giustizia, che chi ha sbagliato pagasse, chiunque sia. Governo, Regione, Provincia: chi ha sbagliato deve pagare. Punto. Non chiedo la testa di nessuno, non sono una forcaiola, anche se confesso che ultimamente qualche tentazione in quel senso l’ho avuta, ma chi ha sbagliato deve essere messo nella condizione di non poter più compiere errori di questa portata. Hai sbagliato, vai a casa. Ti sembro così irragionevole? Ecco, forse questo potrebbe riequilibrare un po’ l’ordine delle cose, ma temo sia l’ennesima mia fantasia da lettrice”.

4 pensieri su “UNA MAIL DI SILVIA, DALLA PROVINCIA DI BERGAMO

  1. cara silvia,ricordo le parole del poeta FRA
    Cara Silvia,ricordo le parole del poeta Franco Arminio, ricevette una telefonata da una signora di Bergamo che gli disse “qui le persone non muoiono, spariscono”, da quel giorno sono sprofondata nel dolore,e non provavo parole per descriverlo.quante lacrime ho versato per tutte quelle persone che sono morte sole e per i loro familiari.
    ringrazio Arminio , mi ha aiutato e mi sono sentita vicina a tutti voi.
    un abbraccio Silvia
    un ringraziamento a te cara Loredana per il supporto che ci hai donato in questi mesi.

  2. Una testimonianza interessante questa di Silvia. E non è certo una “piccolezza trascurabile il fatto di non potere dare un degno saluto alle persone scomparse, non poter vivere il lutto nei suoi vari aspetti, anche quello più umano istintivo di potersi abbracciare nel dolore.
    Comunque la parte che più mi ha colpito di questa lettera è la parte finale, quella in cui candidamente e spudoratamente si esprime la necessità di trovare un capro espiatorio un colpevole cui farla pagare ( “ ..chiunque sia. – non sono forcaiola ma..).. a quanto pare non bastano cultura e buone letture a fermare questo instinto, umano certo, ma che non porta a nulla di buono. Facile immaginare come nei prossimi mesi, magistrati politici e giornalisti avranno buon gioco a sventolare davanti agli occhi della povera gente l’untore che più aggrada agli interessi del potere.
    ( che poi non c’è niente da immaginare : svariate cacce all’untore sono già purtroppo iniziate anche durante i primi giorni della pandemia..)
    ciao,k.

  3. Tutto molto umanamente comprensibile e lo sa chi ha avuto lutti a causa del malefico covid.
    D’altra parte, di fronte a quella che solo “POI”, molto poi, sarebbe stata dichiarata “pandemia”, un flagello di proporzioni immani e del tutto sconosciuto, con cui i sanitari si son dovuti misurare non essendo nè preparati nè tantomeno attrezzati con DPI adeguati, come poteva essere organizzato diversamente il tutto in maniera più umanamente accettabile? Io non lo so sinceramente ….

  4. Esattamente come nelle ben più mortifere pandemie passate, quando si ammassavano o bruciavano corpi su corpi senza troppi convenevoli. O come in guerra, quando questi corpi si “disperdono”: mia zia ha cercato il corpo di suo marito per 50 anni prima di sapere che era certamente morto sulle distese siberiane della famigerata Campagna di Russia e che quindi non si sarebbe mai trovato. Si è data pace solo quando ha visto il suo nome su una targa, insieme a quello di tutti i dispersi camerti di quella orribile e insulsa guerra. Quest’anno è accaduto qualcosa di analogo, sotto i nostri occhi. Anch’io, come kappa, sono colpito dalla umanissima -ma altrettanto pericolosa- necessità di ricercare di un “colpevole”. Che in realtà non c’è, perché agire diversamente in quel momento avrebbe significato esasperare ancor di più i già enormi numeri della pandemia e perché le proporzioni della catastrofe erano tali da rimandare ai racconti manzoniani della pestilenza, peraltro molto citati in periodo di lockdown. Purtroppo convengo con lui nel pensare che non verranno individuati e puniti eventuali “responsabili” ma solo gli ennesimi capri espiatori. Con medesima soddisfazione psicologica e sociale, però.

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