1. CONTRO LA VIOLENZA: DISCUSSIONE.

Questo è un post a puntate.
Raccoglie gli interventi di una riunione che si è svolta a Roma lo scorso 23 marzo. Il tema è la violenza sulle donne. Alla riunione  erano presenti alcune donne del comitato promotore di Snoq e Lorella Zanardo che aveva chiesto l’avvio di una discussione comune.  Queste sono le idee che sono state scambiate in quella sede, con l’auspicio che se ne aggiungano altre. Ulteriori incontri sono previsti, e non solo a Roma.
Riportare gli interventi è, anche, un invito a cercare e trovare le parole per parlare di violenza. E preparare un’azione che sia comune e che lasci il segno.
Cristina Comencini
Ragionare di violenza, di ragazze e donne ammazzate dai loro compagni (più di 30 dall’inizio dell’anno), sulla sopraffazione fisica anche quando non porta alla morte, sulla cancellazione delle donne nel loro privato, nella società e nella cultura, ci sembra fondamentale ma allo stesso tempo ci respinge. Il nuovo movimento delle donne è partito dalla manifestazione di una forza femminile capace di cambiare il nostro Paese. Le donne hanno detto che la dignità delle donne era la dignità dell’Italia, che senza le donne non si governa più. Tornare a parlare di sopraffazione e di violenza sembra essere un passo indietro come sostiene Alessandra Bocchetti: “Da questa posizione, non sempre bene accettata dalle donne che mi ascoltano, capirete perché non ho mai accettato di parlare in pubblico sulla violenza. Perché sempre mi sono accorta che mi si chiedeva un discorso sulla colpa degli uomini e sull’innocenza delle donne, in definitiva mi si chiedeva una grande cerimonia di autoconsolazione. Ma cosa volete che venga fuori da un atteggiamento del genere? Credersi oggetto passivo di violenza non porta nessuna conoscenza, perché il conoscere è sempre un atto gioioso. Tutte e tutti sappiamo che la violenza esiste e che patirla è orribile, ma la violenza toglie la parola, non la da”.
Noi siamo respinte dal parlare di nuovo di violenza sulle donne dall’idea anche giusta che questo discorso ci faccia sentire fragili, vittime, ci autoconsoli e non cambi nulla. Io penso che esista il pericolo che si possa avvilire la nostra forza e l’idea gioiosa di cambiare il mondo parlando di violenza sulle donne, ma che non nominarla in modo nuovo, non scendere senza paura in una storia antica che si rinnova e non muore, significa non riuscire fino in fondo a cambiare, a trasformare alla radice il rapporto tra i sessi, che è poi la base dell’edificio nel quale viviamo.
Dopo l’assassinio di Stefania Noce ho pensato che mi sarebbe piaciuto scrivere un dialogo come Libere tra un ragazzo e una ragazza, entrambi amici di lei e di lui. Poi ho capito che non avrei potuto scriverlo prima che tra noi si discuta a fondo di tutto questo. Ho cominciato a fare una raccolta in rete di testimonianze e di fotografie. Una delle fotografie che mi ha più colpito è quella di Stefania abbracciata al suo ragazzo. Vorrei chiamarlo solo così guardando la foto, ma sappiamo che è diventato altro. Eppure, studiandoli, mi sembra ci sia già qualcosa da capire, da approfondire: Stefania tiene stretto il suo ragazzo a piene braccia, lo stringe al petto, solare, sorridente, bellissima. Lui si è “rifugiato” nelle sue braccia, tenero, indifeso, scontroso: un bambino difficile ma per questo così amato dalla madre-ragazza.
Non possiamo discutere, affrontare il tema della violenza senza parlare di noi, senza tirare dentro anche il sentimento materno, la sessualità, le madri, il rapporto tra madre e figlio maschio. E aggiungo senza tirare dentro gli uomini, soprattutto i più giovani. Anche se sono convinta che non sia facile farlo e che anche qui ci siano rischi che le ragazze stiano zitte davanti ai loro coetanei, per vergogna, per paura che nominare la violenza ci faccia sentire di nuovo vinte, subalterne.
In questo senso non è una questione facile da affrontare e non mobilita immediatamente le donne e gli uomini, oppure mobilita le donne in un modo autolesionista che non ci interessa, ma proprio per questo è fondamentale affrontarla, esattamente come è stato per il tema della libertà delle donne e dell’analisi che ne abbiamo fatto prima di scrivere l’appello del 13 febbraio.

22 pensieri su “1. CONTRO LA VIOLENZA: DISCUSSIONE.

  1. Oggi sul mio blog, ho messo una parte del lavoro che sto scrivendo, dedicata alla psicodinamica della violenza di genere nei rapporti di coppia. Lo faccio pensando alla discussione di questi giorni. Ho la sensazione che quando interviene la violenza di genere ci sia un collasso del ruolo anche nella sua dimensione reazionaria: l’uomo violento è figlio di un maschio che non ha saputo essere maschio, e di una donna che ha odiato essere donna, e se non ha trovato fattori protettivi è diventato a sua volta un uomo fallito nella sua dimensione maschile – qualsiasi cornice culturale scegliamo – che si incastra con una donna così.
    Se si decide di lavorare a un intervento serio per una piaga sociale, bisogna essere meno generici e lavorare su diversi livelli.
    Il primo è quello culturale – sulle ideologie maschiliste che sono pervasive e collusive, ma che agiscono solo in parte, diciamo offronto pretesti a psicopatologie preesistenti.
    Il secondo è sociologico ed economico, perchè si sottovaluta quanto l’assenza di strutture e di sostegno alle famiglie sia la garanzia con cui un assetto psicopatologico si tramandi per generazioni (tradotto: se una famiglia con psicopatologia grave è sola sul territorio genererà un bambino che non ha figure diverse protettive, aree libere dal conflitto dove formarsi, e le probabilità che assomigli al padre, o una bambina alla madre vittima, saranno più alte)
    Il terzo è psicologico e psichiatrico. A parere mio fintanto che non si considera il fenomeno come polideterminato e quindi non si prende sul serio LA DETERMINANTE PSICHIATRICA, staremo sempre da capo a dodici.
    Mi sembra che si tende a pensare e a parlare solo sul piano del punto 1.

  2. Quel collasso è previsto nel ruolo ed è, per l’appunto, la “determinante psichiatrica” la chiave di lettura che abbisogna di una lettura di genere. Che non c’è. E che autorizza, dentro a un ruolo, previsto dal dominio, il diventare pazzi assassini per gli uomini, figlicide per le donne e compagnia cantando. Li autorizza perché li prevede e finge di curarli, questo il fatto.
    Le strutture, poi, sono concepite secondo un mero senso riparativo del/dei problemi, fatte salve le poche che si pongono ancora domande, come quella di Milano dove Marisa Guarneri si chiede da un lato come fare affinché siano gli uomini ad occuparsi della violenza dei loro simili e dall’altro come fronteggiare il prevedibile aumento dei casi di violenza domestica cui assisteremo con il rientro a casa di uomini disoccupati. E cosa fanno le isitituzioni e la politica? Invece di lavorare per prevenire, al massimo consegneranno il problema in mano agli psicologi in parte così assolvendosi da responsabilità sociali ben precise, in parte caricando una funzione di compiti impropri o insufficienti. Insufficienti anche i fondi, è ovvio, che destineranno per affrontare il problema: siamo in crisi!

  3. Sono assolutamente d’accordo sul fatto che le strutture siano assolutamente inadeguate anche per il modo in cui sono pensate, quando ci sono, e anche sul fatto che le istituzioni intervengono molto marginalmente se non affatto. Non credo invece che il collasso del ruolo sia previsto dal ruolo. E’ un’interpretazione che mi pare funzionare sul piano intellettuale, ma quando mi cimento nella concretezza ho la sensazione che non sia uno strumento che mi aiuti, e che anzi finisce per mancare di rispetto e penalizzare assetti relazionali e scelte di vita che pur non combaciando con il modo che io trovo più auspicabile non vuol dire che non coincida con affetto benessere rispetto reciproco e attenzione per i figli. Si sottovaluta molto quanto è significante la variabile figli in queste patologie di sistema.

  4. Se stiamo alla tripartizione proposta da Zauberei, al punto 1 direi che le ideologie maschiliste in effetti corrispondono a un ritardo culturale che però non crea solo maschi violenti ma anche femmine sottomesse e frustrate fino alla fuga. Andrebbe affrontato con un ripensamento globale dell’istituto familiare che a sua volta porta con sè il punto 2. La famiglia nucleare e isolata, dove esplodono tutte le contraddizioni dell’ordine socioeconomico e dove mancano modelli diversi di maschilità e femminilità, capaci di “educare” chi ha la disgrazia di avere padri e madri inadeguati, non è caduta dal cielo ma si è prodotta con una certa direzione presa dalla società industriale, che oggi ai meno ciechio appare correggibili solo creando reti produttive e di convivenza (= comunità allargate)
    Poi resta il livello psichiatrico, cioè la medicalizzazione. Anche questa, però, difficilmente viene richiesta da una coppia disfunzionale isolata, se non ci sono amici e parenti capaci di far riconoscere ai soggetti coinvolti il loro livello di disturbo e la necessità terapeutica (magari anche solo a protezione dei figli).
    I problemi e le soluzioni sembrano 3, in realtà è uno e trino.
    E la soluzione inizia dove si smette di rubricare semplicemente il sintomo e si prova ad attingere soluzioni dove relazioni, coppie, famiglie e comunità funzionano. Anche studiando esperienze apparentemente distanti, come le comunità di recupero oltre che naturalmente gli elementi presenti in relazioni “sane”.

  5. Valter la richiesta viene spesso – per il tramite dei bambini. Succede che la famiglia disfunzionale genera bambini gravemente sofferenti, con sofferenze che allagano il piano cognitivo, e che se la famiglia non viene trattata non riusciranno a guarire mai del tutto. Senza che vi siano figli di mezzo purtroppo si la richiesta è scarsissima. Ma la violenza assistita è un’esperienza terribile per i piccoli.

  6. Il ruolo è un derivato simbolico che assume connotati materiali: l’ideale virile in atto comprende la possibilità che la violenza sia maschile. Non sarà che stiamo dicendo la stessa cosa?

  7. Okay Donatella, allora ti pongo un quesito. Il contesto ideologico (se preferisci mitico) di Achille e Medea è il medesimo. Per me questo significa che l’ideale virile patriarcale non esclude la possibilità che la violenza sia femminile (certo in forme diverse, non stupro e saccheggio ma omicidio di vendetta e infanticidio).

  8. Donatella è proprio qui la parte su cui abbiamo opinioni diverse. Non credo che esista un unico ideale virile, perchè io conosco ideali di virilità – anche piuttosto reazionari che non concepiscono la violenza di genere. Anzi l considerano segno di scarsa virilità. L’uomo che picchia la donna è associato a impotenza, vigliacchieria, scarsa maschilità e tempra interiore. Ci sono assetti culturali insieme a assetti psicologici che possono conflagrare nella violenza oppure no, ma ce ne è la potenzilità. Ma altri no, anche in una organizzazione familiare tradizionale.

  9. Zaub, non ci capiamo! Anche io credo e spero che vi siano diversi modi di concepire e di vivere la virilità, ci mancherebbe, è che ne vedo uno prevalere e dettar legge e credo che lì si annidi la ragione (?), diciamo meglio: la causa della violenza. Lo scrivevo nel post di Lorella sullo stesso tema-evento, si tratta di un ideale di autonomia che ancora incombe e che genera paura, nella catena guerra-violenza-stupro. Auspico con tutta mestessa che tutti gli altri modi di considerarsi da parte maschile, si facciano vivi e presenti sulla scena pubblica, oltre che nel privato per ragioni…autoevidenti! E credo che solo così riusciremo a spostare lo sguardo dalla donna vittima, posizione di complicità con il sistema, come sostenuto da Zaretti, quand’anche involontaria, ma con un sistema violento. Spero di essermi spiegata bene :-).

  10. Ah sono contenta Donatella, diciamo che la divergenza si restringe. Poi se non si annulla non moriremo:) Però ecco, non riesco a vedere il modello dominante responsabile degli omicidi. Quando penso ai comportamenti violenti, e penso ai modi in cui le forze sociali siano capaci di terminarli, la via del modello culturale mi da risposte forti ma non mi bastano. Non sento che il modello culturale italiano, insista sulla violenza come quello del Messico o di certe aree del nord africa; quando nel sessismo entra la misoginia l’iconografia è davvero diversa, e la mitologia e quant’altro. Se un comportamento misogino e violento si incista nel soggetto, la causalità sociale non sta nella cultura manipolata ma nel modo in cui essa incide sulla struttura familiare e il dilagare della psicopatologia. La violenza omicida – nella nostra contestualità culturale – ha origini nella deflagrazione familiare dei primi rapporti. Questo mi rendo conto è nell’organizzazione mentale tipica di chi lavora con la psicologia dinamica.
    Per me discriminare i gradi e le differenze è importante, e isolare le determinanti psicodinamiche di un comportamento è importante. Perchè solo così si può pianificare un intervento vagamente efficace. Se trattiamo l’Italia come se fosse il sudamerica, boh un po’ si ottiene, ma molto diviene retorica che genera resistenze nella comunicazione.

  11. No, Valter, che non la escludo, come potrei? la violenza femminile esiste per le stesse ragioni che proponi nelle forme che indichi e non soltanto. Magari non è l’ideale virile a spiegare la violenza femminile ma l’ideale di donna, e spesso madre, che a quell’ideale si rapporta, o meglio, che in questo contesto, il patriarcato, si determina. Di nuovo: lo scrivevo poco fa da Zanardo parlando di un altro ideale che è alla base di tutto questo, quello della perfetta autonomia e di una società che si ostina ad occultare l’interdipendenza quale dimensione non violenta in sé in quanto argine della paura.
    Ora, qui, stiamo parlando di violenza maschile anche perché stiamo diventando collettivamente consapevoli che non spetta alle donne fermarla, come abbiamo creduto fintanto che ci siamo poste esclusivamente come vittime. Io non mi sento vittima e non nutro i sentimenti che vi si accompagnano, sento piuttosto rabbia e voglia di difendermi per la stessa ragione per cui non voglio subire alcun tipo di aggressione né agirla. Certo la vita porta a doversi difendere e con questo a contemplare la possibilità della violenza, non fosse altro, per l’appunto a scopo difensivo, ma trovo retorico attribuire forza e violenza soltanto all’aggressione. Ne parla Luisa Muraro in un recente articolo in Via Dogana, articolo che ha generato reazioni che io trovo incompatibili con il mio modo di vedere e che assegnano al femminismo, per esempio, un tratto dato come assoluto e, soprattutto distintivo, quello della non violenza. Io sono stufa di luoghi comuni, di stereoptipi, di occultamenti, di romanticherie sull’ideale femminile e trovo che – magari sono stata proprio io ad uare per prima la parola 🙂 – al posto degli ideali dovremmo far posto alle pratiche, certo fondate su visioni (della società, degli umani uomini e donne) che però mettano in luce le relazioni e svelino gli inghippi mediante i quali le violenze si originano fino a diventare fenomeni, o emergenze.
    Voglio dire che non è agitando lo schema della vittima che ci si avvia verso la pace, anzi, è facile che così si sclerotizzi una complicità di certo non auspicabile. Quello che a me convince è che a parlare e a provvedere alla violenza maschile siano gli uomini e su quella femminile si interroghino le donne. Riflessioni al riguardo ne esistono già molte e di valore: che diventino argomento pubblico!

  12. (ah in compenso, donatella su questo intervento a Valter sono quasi del tutto d’accordo, ci ho solo na minima perplessità sull’infanticidio ma tanto è ot.:) )

  13. Infatti, Zaub, l’Italia va indagata anche alla luce di quanto è accaduto negli ultimi vent’anni dove la misoginia è stata sostenuta da un immaginario ben preciso radicatosi però in precedenza. Penso al fascismo e alla donna virile, per esempio e mi viene in mente che la misoginia femminile è altra questione da guardare con cura, così come secondo me non serve negare il sentimento dell’invidia femminile anch’esso nato e sviluppatosi in un contesto in cui le passioni la fanno da padrone oltre lo sforzo di riconoscere l’altro/a ma anche nel superamento della volontà di assimilare l’altro/a divorandolo/e annientandolo/a.
    Io considero il modello dominante responsabile di una molteplicità di cose ma la responsabilità vera è soggettiva perché quel modello non solo si assorbe ma lo si trasmette nel momento in cui si rinuncia a criticarlo. Diventa collettiva quando lo si impone con tecniche persuasive diverse, associandolo ai consumi, all’economia, alle discriminazioni strutturalmente agite contro un soggetto, al funzionamento di una società basata sull’individualismo e sul resto che sappiamo ma a ciascuno le sue, di responsabilità.

  14. Ogni volta che si parla di questo argomento (che a me appassiona…forse pure troppo) rimango sempre con un senso di frustrazione e di ansia e con tanti punti interrogativi irrisolti. Mi chiedo sempre perchè ci si disperda in elucubrazioni tanto affascinanti quanto inutili su quale sia la “cultura” o le tare mentali che portano a cifre tanto crude e crudeli di morte ammazzate, come mai si contemplino i canali e le stereotipizzazioni sui percorsi che segue la violenza prima di compiersi o essere definita tale, e non ci si soffermi quasi mai, o comunque sicuramente non abbastanza su ciò che può, anzi, DEVE essere fatto per cercare di porre un freno a tanta dilagante barbarie. Ciò che si tace è che non si è, secondo me, in presenza di casi limite, di situazioni giunte ad un atto finale imprevedibile, ma di un fenomeno sociale, ancor prima che culturale, si chiama guerra. Quella che stiamo vivendo è una vera e propria guerra alle donne ed alla loro affermazione come esseri umani autonomi e distinti dagli uomini. Da dove derivi questa guerra non è certo un mistero per chi abbia una cultura generale media ed una minima consapevolezza dell’andamento delle umane vicissitudini: i secoli dietro di noi non ci hanno certo preparato a migliori sorti.
    Dunque, posto che ci si trova di fronte ad una vera e propria emergenza sociale mi chiedo perchè non si parli mai di legittima difesa. La legittima difesa spetta anche alle donne, voglio sperare. Perchè allora in qualsiasi modo e attraverso qualsiasi canale si parli di questo argomento non si dibatte mai di come le donne possono difendersi?
    Certo, si parla di denunciare…Denunciare lo stalker o il violento “alle prime avvisaglie”…Ma pare che ciò costituisca una efficace difesa, quando numerosissimi sono i casi in cui tutto ciò si è rivelato palesemente inutile, se non più dannoso? Si discute come se le donne dovessero sempre e comunque essere identificate come vittime, come esseri che qualcun altro deve proteggere. Sono costrette a nascondersi nei centri antiviolenza, cambiare o distruggere la propria vita per sfuggire alla paura e alle minacce, essere comunque identificate come la parte debole del problema. Perchè non si pensa che le donne dovrebbero essere messe in grado di difendersi? Perchè nessuno cita mai la legittima difesa? Persino ai gioielleieri, alle guardie giurate, e ad altre figure di cui nessuno ci garantisce l’integrità morale e mentale è consentito tenere un’arma per legittima difesa. Perchè non potrebbe essere consentito alle donne che denunciano minacce ripetute e gravi, stalking prolungato ed insistente, perchè bisogna sempre aspettare che succeda l’irreparabile per rpercorrere la drammaturgia del carnefice e della vittima nel solito balletto ormai scontato? Finchè non si proporrà un’immagine delle donne capaci di reagire e di difendersi e non si garantiranno strumenti efficaci, quali tra l’altro, la serietà delle pene per chi commette femminicidio o reati affini quali lo stupro o la violenza contro le donne in genere, pene che allo stato attuale rappresentano un insulto ad un paese che voglia definirsi civile.
    Il concetto di legittima difesa, quando si parla di questi casi, risulta a dir poco deviato ed insano: una donna è costretta allo stato attuale a divenire vittima per avere giustizia se e quando c’è. Deve portare in tribunale i segni dello stupro, deve portare i segni del pestaggio davanti agli avvocati, deve fare trenta denunce per ottenere una diffida dello stalker ad avvicinarsi, ma tutto ciò implica che debba avvenire qualcosa che la annienta fisicamente nel peggiore dei casi, psicologicamente nel migliore; la legittima difesa invece dovrebbe essere qualcosa che previene l’offesa. Alle donne che denunciano minacce gravi e persistenti per la propria incolumità dovrebbe essere consentito di difendersi anche con le armi, se necessario, per proteggere la propria vita.
    E’ difesa, non vendetta.

  15. Ma si, perchè no?
    Una pistola alle donne, una agli immigrati, una ai gay, a tutte le potenziali vittime di aggressioni (i tabaccai, non dimentichiamocelo).
    Poi John Wayne presidente del consiglio e Calamity Jane agli esteri.
    L’ho sempre detto che il vecchio west prima o poi veniva buono.

  16. Valter l’umorismo è scadente….Sto parlando di situazioni in cui ci siano gravi e reiterate minacce e c’è il rischio fondato per l’incolumità della persona.

  17. Stella, il tuo senso della misura è scaduto.
    Se tutte le donne sono potenziali vittime di violenza e ognuna dovrebbe essere armata ci sarebbero venti milioni di armi in giro in più.
    E, se permetti, io dubito fortemente del self control di chi è armato, uomo o donna che sia.

  18. Cara Donatella, cara Zaub, ho seguito con interesse il vostro scambio di opinioni, e chiedo, a proposito di quanto ricorda Zaub: ci sono “ideali di virilità – anche piuttosto reazionari che non concepiscono la violenza di genere. Anzi la considerano segno di scarsa virilità. L’uomo che picchia la donna è associato a impotenza, vigliacchieria, scarsa maschilità e tempra interiore”. Da parte mia, aggiungo che è, per l’appunto, proprio questo “ideale di virilità” quello che intima ai carcerati “comuni” di marchiare d’infamia coloro che vengono imprigionati per aver commesso violenze sessuali ai danni donne o bambini/e. Dunque, tutto bene? C’è un maschile culturale positivo e onorevole? No, rispondiamo tutte, ed è bene esplicitarlo: no, perché la cornice entro cui si collocano tanto il maschile onorevole che non tocca le donne neanche con un fiore, ed il maschile spregevole che violenta le donne, è la stessa cornice. E’ quella stessa cornice che assegna alle donne un ruolo di subordinazione, un ruolo di inferiorità: psichica, civile, volitiva e quant’altro. Un ruolo di dipendenza dalla superiorità del maschile, sia esso tutelante o prevaricante. Faccio un esempio, parto da me, da brava adolescente degli anni ’70: dai miei genitori avrò ricevuto in tutto quattro schiaffi, paritari, due da mia madre, e due da mio padre, e nelle più bizzarre circostanze; mio padre non ha mai alzato le mani contro mia madre, o meglio, a dire di quest’ultima, ai primordi del loro matrimonio, fece il gesto di affibbiarle un ceffone, ma rinunciò subitaneamente alla pronta reazione di mia madre che brandì uno zoccolo, e di il marito rinunciò per sempre. Dell’antagonismo tra mio padre e mio fratello maggiore ricordo un episodio riprovevole di aggressione fisica reciproca, del tutto isolato. Per il resto, le aggressività e gli antagonismi si esprimevano a livello esclusivamente verbale: insomma, si è sempre litigato come ossessi. E però, non posso non riconoscere che in tutto questo altercare a gran voce, c’era una personalità autoritaria, perentoria ed aggressiva, ed era mio padre, il mio peraltro benemerito padre. Dunque? La violenza non è solo quella fisica, la violenza si esplicita in tanti modi, Ne parliamo?

  19. Se una donna dimostra all’uomo violento che è in grado di rispondergli a tono e, se necessario, con altrettanza violenza, la possibilità che quell’uomo abbia poi paura della reazione della donna e stia buono è concreta. Certo, l’uso delle armi non sempre è consigliabile, anche perché non credo siano facili da utilizzare senza un buon allenamento ( di cacciatrici non ce ne sono molte in giro) 🙂 La persona violenta ( anche psicologicamente violenta) spesso è un gran debole, per cui se gli si fa vedere o intuire che lo scontro non sarà né facile né con un finale scontato, ci penserà bene prima di lasciarsi guidare dall’aggressività. Spesso ho sentito dire che se un uomo si comporta in modo aggressivo con una donna, è la donna che ( essendo fisicamente più debole) è bene che subisca perché se reagisce potrebbe andare per lei molto peggio… ma chi può stabilire con certezza l’efficacia della reazione di una donna arrabbiata che vuole difendersi? Un’ arma servirebbe per aggiungere forza ad un corpo che, solitamente, a confronto con quello di un uomo, è muscolarmente meno potente.

  20. Scrive Stella “Perchè non si pensa che le donne dovrebbero essere messe in grado di difendersi? ”
    .
    Hai ragione. Sono tra le persone che auspicano l’autodifesa per tutte le minoranze sessuali. L’autodifesa non è soltanto disporre di tecniche e strumenti di difesa; è anche un’attitudine mentale. Nella minoranza sessuale viene inculcato un senso di colpa collegato al pensiero dell’autodifesa. Come se uscire dallo stato di potenziale vittima fosse un male per sé e per la società…
    L’autodifesa personale non è necessariamente andare ad un poligono di tiro (conosco comunque una ragazza che lo frequenta e non per lavoro), ma anche le varie tecniche di arti marziali. La violenza di genere si basa anche su una presunta superiorità fisica, quindi non vedo perché non togliere dal campo questo pregiudizio. Oltretutto i corsi di autodifesa sono momenti di aggregazione e di crescita personale.

  21. Andrea mi fa molto piacere il tuo supporto…Tra l’altro condivido moltissimo, dato che ne pratico una anch’io di arti marziali (il karate)….E’ solo che per arrivare a difendersi efficacemente con tali mezzi bisogna studiare per molti anni e non è detto che poi ci si riesca….E’ vero, ciò che possono insegnare è l’atteggiamento mentale al diritto di difendersi ed anche a capire che la difesa non è aspettare di essere attaccati, ma provvedere a fare in modo che ciò non succeda, perchè potrebbe essere fatale (come spesso succede nei casi di cui stiamo parlando). Ma mi sembrerebbe un pò eufemistico pensare che una donna impaurita, sconvolta da mesi (a volte anni!!!) di stalking e minacce, di isolamento e disperazione si metta a fare arti marziali per poi potersi difendere da un uomo spesso armato e in condizioni di carica emotiva forte. Resta il fatto che frequentare qlc corso di autodifesa male non fa, così per prevenzione…Ma non credo ci si possa affidare a quelle in casi estremi come quelli a cui mi riferivo nel mio post.

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